di Miriam Diez i Bosch
BARCELLONA, lunedì, 22 settembre 2008 (ZENIT.org).- Il cinema di oggi si occupa anche dei temi della famiglia. Alcuni dei film più importanti degli ultimi anni sono quelli che affrontano gli aspetti della solitudine, dell’incomunicabilità e della sofferenza, dal punto di vista dell’unità e dell’affetto che la famiglia è in grado di assicurare.
Lo rivela a ZENIT il critico e professore di cinematografia Jerónimo José Martín, che sin dal 1999 presiede il “Círculo de Escritores Cinematográficos” (CEC), la principale e più antica associazione spagnola di critici e informatori del cinema in Spagna.
Lo scorso 29 agosto ha tenuto una conferenza a Barcellona sulla realtà della famiglia nel cinema contemporaneo, organizzata da CinemaNet e dalla Muestra Internacional de Cine sobre la Familia. In questa intervista Martín sintetizza le principali idee che ha esposto in quella conferenza, richiamando anche i film più recenti che trattano della famiglia.
Jerónimo José Martín lavora come critico cinematografico per il quotidiano La Gaceta de los Negocios, il programma televisivo Pantalla Grande (Popular TV), la sezione culturale di La Linterna (COPE), l’agenzia Aceprensa, e le riviste “Pantalla 90”, “Fila 7” e “Humanitas” (Santiago de Chile).
È anche docente di storia del cinema di animazione presso la Escuela del Cine y del Audiovisual della Comunità autonoma di Madrid (ECAM), nonché di cinema e moda presso il Centro Universitario Villanueva di Madrid.
Qual è l’approccio del cinema contemporaneo rispetto alla famiglia?
Martín: Gli approcci sono diversi e si basano su altrettante impostazioni, alcune delle quali anche contrapposte come quelle del cristianesimo e del marxismo.
In questo contesto emerge in particolare l’apporto del nuovo cinema sociale, sorto in seguito al crollo dei regimi comunisti in Europa, e guidato da diversi cineasti di formazione marxista o filomarxista, che anni addietro disprezzavano la famiglia considerandola alienante, mentre ora la rivalutano come una potente fonte di solidarietà in una società sempre più individualista. In questo filone rientrano film come Piovono pietre, Segreti e bugie, La stanza del figlio, Italiano per principianti, Chaos, Central do Brasil, Kamchatka, Solas, El Bola, Héctor…
Questa tendenza si limita all’Europa e all’America latina?
Martín: Si è diffusa soprattutto in queste zone. Ma stranamente la sua visione positiva sulla famiglia coincide con quella di molti film statunitensi – soprattutto quelli di origine ispanica come My Family, Spy Kids, Spanglish o Bella – o di altri Paesi molto diversi come la Cina (Vivere e La strada verso casa), l’India (Matrimonio indiano, Il destino nel nome, Matrimoni e pregiudizi) o l’Iran (Il padre, Figli del paradiso).
Senza dubbio, l’irruzione di un cinema etnico nei palinsesti occidentali ha rafforzato una tendenza ormai sempre più chiara, ovvero quella di un cinema contemporaneo che ricorre alla famiglia come la migliore medicina contro l’individualismo egoistico, vera causa degli abissi di solitudine di tanta gente.
Di fronte a questi abissi il cinema mostra famiglie forti, in grado di colmarli positivamente?
Martín: Appunto. La solitudine, l’incomunicabilità, l’incomprensione e la sofferenza, affrontati dalla prospettiva dell’unità e dell’affetto della famiglia, hanno generato alcuni tra i film più rilevanti degli ultimi anni. Basta ricordare titoli come Grand Canyon, In America, L’olio di Lorenzo, In cerca di Bobby Fischer, Il caso Winslow, Magnolia, Scherzi del cuore, Tredici variazioni sul tema, Una ragione per lottare, In Good Company, La tigre e la neve, End of the Spear, After the Wedding, Le ali della vita, Una scatenata dozzina, Crash, Babel, Little Miss Sunshine, The Winner, Gli Incredibili, Lo scafandro e la farfalla, Un amore senza tempo, Noi due sconosciuti, Juno, Lars e una ragazza tutta sua, E venne il giorno…
Tutti questi film hanno una visione comune?
Martín: Sono film molto diversi tra loro, ma la gran parte di questi considera la famiglia come un ambito nel quale non si viene mai abbandonati, anche quando ci si comporta male.
È la luminosa visione offerta già qualche decennio fa da Frank Capra – cattolico praticante – in opere maestre come L’eterna illusione o La vita è meravigliosa. Si tratta di una prospettiva antimaterialistica, solidamente fondata sulla dottrina cristiana della provvidenza, della carità e del sacrificio.
Tutto il contrario della recente produzione spagnola Camino (2008), in cui il regista e sceneggiatore, Javier Fesser, conferma di non capire – o non voler capire – il senso cristiano della sofferenza. Per fortuna il suo ateismo militante è molto minoritario nel mondo del cinema odierno.
Che influenza hanno le correnti che tendono ad escludere il ruolo della famiglia?
Martín: La loro influenza è minore di quello che si possa pensare, nonostante il fragore con cui sono stati accolti film di propaganda omosessuale come Philadelphia, In & Out, Il matrimonio del mio migliore amico, Brokeback Mountain, Sex and the City o Mamma Mia!
Da un lato molti cineasti si rifiutano di cadere in un certo sessualismo gay di questi film, in cui le donne eterosessuali sono dipinte come delle isteriche, gli uomini eterosessuali come degli animali insensibili e gli omosessuali e lesbiche come gli unici esseri equilibrati.
La maggior parte di loro si rifiutano anche di accettare acriticamente una dottrina profondamente individualista, che presenta come un diritto quello di poter scegliere il proprio orientamento affettivo-sessuale, senza essere criticato dagli altri, dalla società o dalla stessa propria natura umana…
Come è avvenuto questo?
Martín: L’ideologia di genere è sorta dal femminismo neomarxista ed è stata esposta alla prima Conferenza internazionale su popolazione e sviluppo (Il Cairo, 1994) e alla IV Conferenza mondiale sulla donna (Pechino, 1995).
Questa ideologia applica la lotta di classe alla lotta dei sessi, disprezza i sessi naturali considerandoli irrilevanti, fa appello alla liberazione dalla “tirannide biologica della maternità” e sostiene che l’identità sessuale abbia un origine puramente culturale mentre per sua natura sarebbe mutevole. Questa dottrina radicale, applicata in tutta la sua portata, non solo legittima l’omosessualità, il lesbianismo, la bisessualità o la transessualità, ma anche la zoofilia, l’incesto, la pederastia a certe condizioni, la poligamia, la poliandria, il sadomasochismo…
Per questo il Papa Benedetto XVI parla dell’ideologia di genere come la terza rivoluzione contro l’uomo – dopo quelle dell’ateismo e del materialismo, che riducono l’essere umano a un’entità non spirituale – e come l’ultima rivoluzione possibile, in quanto dopo la piena negazione della oggettiva natura umana non può esservi ulteriore degradazione.
Ma questo non è ancora penetrato nel cinema?
Martín: È entrato un po’, nell’ambito della commedia. Ma i migliori film contemporanei l’affrontano con quella drammaticità e onestà proprie della vita stessa, che conferma la problematicità di quelle relazioni che comportano pratiche omosessuali, lesbiche, incestuose o sadomasochiste. Basta ricordare titoli come Qualcosa è cambiato, Truman Capote, Storia di un crimine, Diario di uno scandalo, Fur – Un ritratto immaginario di Diane Arbus, e soprattutto The Hours (2003), il film dell’inglese Stephen Daldry. Quest’ultimo film è un una potente ed emotiva constatazione della sofferenza del turbamento, della frustrazione e disperazione che oggi subiscono tanti uomini e tante donne a causa di una mancanza di solidità morale e religiosa.
“Kramer contro Kramer” ha portato sul grande schermo il divorzio nel 1979. Da allora è raro vedere un film senza un divorzio. Cosa sta succedend
o?
Martín: Succede che il cinema riflette una triste realtà: un’epidemia di divorzi che sta distruggendo le società occidentali.
Di fronte a questa situazione alcuni film moderni hanno cercato di sdrammatizzare il divorzio e l’infedeltà coniugale che è causa di molte separazioni, come ad esempio: La signora Doubtfire, I ponti di Madison County, Certamente forse, Mezzanotte a Barcellona…
D’altra parte, il cinema migliore ha continuato a presentare il divorzio come un fallimento dell’amore e come uno dei grandi mali della società attuale.
Kramer contro Kramer segnò un’epoca, come anche il film del 1999 In the Mood for Love, del hongkonghese Wong Kar-Wai, che elogia la fedeltà coniugale con una delicatezza e una sensibilità straordinaria, simile ad un’altra opera maestra: la recente Once (2007), dell’irlandese John Carney.
In ogni caso è stato il maestro svedese Ingmar Bergman, scomparso lo scorso anno, ad aver criticato con maggiore vigore e lucidità la frivola compiacenza verso il divorzio e l’infedeltà. Mi riferisco alle sue eccezionali sceneggiature di Conversazioni private (1996) e L’infedele (2000), entrambe dirette da Liv Ullmann.
L’infedele inizia, infatti, con la seguente citazione dello scrittore tedesco Botho Strauss: “Nessuna forma di fallimento, malattia o rovina ha un’eco così cruda e profonda nel nostro subconscio come il divorzio. Penetra fino al nucleo dell’angoscia, risuscitandola. La ferita provocata è più profonda di tutta una vita”.
Da questo processo saranno nati molti film sulle famiglie monogenitore
Martín: Senza dubbio. E in particolare, le conseguenze sui figli dell’assenza della madre o del padre è uno dei temi ricorrenti del cinema moderno.
Un’assenza è causata a volte dal divorzio e altre volte dalla morte di uno dei genitori. L’elenco di titoli è molto ampio: Il campione, ET, Il gigante di ferro, Un amore speciale, La piccola principessa, L’uomo senza volto, Ricette d’amore, Together with you, Signs, The Hours, Il coloro del paradiso, Martian Child, Tutto il bene del mondo, Valentin, La ricerca della felicità, Rocky Balboa, Grace is gone, Caos calmo…
Ma in definitiva se gli appassionati dovessero scegliere la migliore famiglia monogenitore, vincerebbe di gran lunga quella de Il buio oltre la siepe (1962), di Robert Mulligan, capeggiata da Atticus Finch, un avvocato vedovo che porta avanti i suoi due figli mentre lotta contro il razzismo del Sud degli Stati Uniti.