Papa Montini alla scuola di Paolo

ROMA, martedì, 19 agosto 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’articolo a cura del teologo Angelo Maffeis, apparso sul secondo numero della rivista “Paulus” .

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Sono passati quaranticinque anni dal momento in cui, dopo la sua elezione alla cattedra di Pietro, il 21 giugno 1963, Giovanni Battista Montini ha scelto per sé il nome di Paolo, e tren’anni dal 6 agosto 1978, quando il Signore l’ha chiamato a sé. Non è facile individuare con certezza le ragioni di questa scelta. In ogni caso, non era certamente il legame con l’ultimo pontefice che aveva portato questo nome – Paolo V Borghese, papa dal 1605 al 1621 – che Paolo VI intendeva rinnovare. Egli intendeva piuttosto porre il suo ministero sotto il segno della proclamazione del messaggio evangelico a tutte le genti, di cui l’apostolo Paolo era stato modello insuperabile agli inizi della storia cristiana. La familiarità con Paolo e con i suoi scritti è un tratto ben presente in Giovanni Battista Montini fin dagli anni giovanili e i riferimenti agli insegnamenti dell’Apostolo affiorano spesso negli scritti appartenenti al periodo della sua attività di assistente ecclesiastico della FUCI. Lo documentano in modo evidente i quaderni nei quali, tra il 1929 e il 1933, ha annotato le sue riflessioni sulle lettere di Paolo, pubblicati nel 2003 dall’Istituto Paolo VI di Brescia.

Nell’apostolo Paolo Montini ritrova anzitutto la centralità del mistero di Cristo. Quando nella lettera ai Filippesi l’Apostolo esclama: «Per me vivere è Cristo», egli esprime «l’assorbimento e la concentrazione di tutti i pensieri, i sentimenti, gli affetti, le speranze, le aspirazioni, i principii morali e religiosi in Cristo». Oltre a rivelare l’intensità della sua personale esperienza del Signore, l’affermazione di Paolo ha validità universale e, oggi in particolare, deve indurre a vincere «una insinuante e generale tentazione, che la vita cioè tragga d’altronde che da Cristo la sua suprema ragion d’essere e la sua salute». In quanto centro della storia della salvezza, il mistero di Cristo rappresenta anche il termine della ricerca umana della verità. Per conoscere il mistero di Cristo sono dunque necessarie tutte le risorse dell’intelligenza, poiché esso «è l’oggetto conoscibile primo ed estremo» e, d’altra parte, «una conoscenza di Cristo che non esaurisse e soddisfacesse le più alte aspirazioni del pensiero non sarebbe penetrante nella realtà di Lui».

Alla ricerca di un’apologetica adeguata alla temperie culturale contemporanea, Montini vede nella parola della croce proclamata da Paolo nella prima lettera ai Corinzi l’indicazione della foma in cui si compie la rivelazione e, insieme, del cammino che l’intelligenza è chiamata a compiere per accoglierla. La verità che viene da Dio supera infatti le anguste attese dell’uomo, fino a provocare lo scandalo di una ragione umana che è sì dono di Dio, ma porta in sé il rishio e la tendenza a pensarsi come autosufficiente. E’ per questo che la rivelazione di Dio si è compiuta per un’altra via. «Dio volle difendere il suo messaggio dai pericoli del razionalismo autosufficiente proprio rivestendolo di una forma che non può essere da esso accettata e compresa. Dio fu più geloso del carattere divino del messaggio evangelico che della sua adattabilità alla mente umana. Cioè: prima la gloria di Dio, poi la salute umana; né poteva fare altrimenti se davvero voleva salvare divinamente l’uomo: la salute umana non è un prodotto umano, Dio doveva mostrarsi celandosi». Il tema della Chiesa costituisce il secondo punto focale della meditazione delle lettere di Paolo condotta da Montini. L’istituzione ecclesiastica e l’autorità che ad essa compete deve essere a servizio dell’unità e della circolazione della carità tra i fedeli. L’autorità apostolica esercitata da Palo è fondata su una vocazione divina ed egli la esercita con decisione di fronte a comunità turbolente e divise: «Egli insegna, giudica, comanda, punisce». Ma è consapevole al tempo stesso che non è l’esercizio dell’autorità e l’ordine da essa assicurato nelle comunità il fine dell’azione apostolica. L’apostolo Paolo diviene così il modello di un ministero ecclesiale che scompare dietro al messaggio da proclamare e in tutto ciò che compie lascia trasparire l’azione di Dio. Al tempo stesso, Paolo diviene così il modello di un ministero ecclesiale che scompare dietro al messaggio da proclamare e in tutto ciò che compie lascia trasparire l’azione di Dio. Al tempo stesso, Paolo stabilisce con i cristiani «una relazione d’amicizia, di paternità», profondamente differente dal modo burocratico di esercitare il ministero che spesso si deve constatare nella Chiesa e ricco di tutte le sfumature del sentimento e dell’affetto. Non si deve dunque scambiare l’esercizio dell’autorità pastorale con l’atteggiamento autoritario della gente che «va avanti alla cieca, parla senz’essere ascoltata: si fa ubbidire senza farsi amare», mentre l’autorità del pastore «deve pur compire un’opera che le anime o prima o poi debbono sentire salutare, e vivificante; altrimenti non verrà meno in se stessa, mai, ma mancherà al suo fine, farà il vuoto d’intorno, si priverà della fiducia delle anime, faticherà per nulla. La fiducia delle anime: ecco ciò che sottintende o intende l’Apostolo. Bisogna pensarvi, bisogna meritarla».

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ZENIT Staff

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