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Reverendissimo Padre Abate,
Venerati Confratelli nell’Episcopato,
Cari monaci cistercensi di Heiligenkreuz,
Cari fratelli e sorelle di vita consacrata,
Illustri ospiti ed amici del Monastero e dell’Accademia,
Signore e Signori!
Con piacere, nel mio pellegrinaggio alla Magna Mater Austriae, sono venuto anche nell’Abbazia di Heiligenkreuz, che non è solo una tappa importante sulla Via Sacra verso Mariazell, ma il più antico monastero cistercense del mondo restato attivo senza interruzione. Ho voluto venire a questo luogo ricco di storia, per attirare l’attenzione alla direttiva fondamentale di san Benedetto, secondo la cui Regula vivono anche i cistercensi. Benedetto dispone concisamente di “non anteporre nulla al divino Officio”.[1] Per questo in un monastero di impostazione benedettina, le lodi di Dio, che i monaci celebrano come solenne preghiera corale, hanno sempre la priorità. Certo – e grazie a Dio! –, non sono solo i monaci che pregano; anche altre persone pregano: bambini, giovani e anziani, uomini e donne, persone sposate e nubili – ogni cristiano prega, o almeno dovrebbe farlo!
Nella vita dei monaci, tuttavia, la preghiera ha una speciale importanza: è il centro del loro compito professionale. Essi, infatti, esercitano la professione dell’orante. Nell’epoca dei Padri della Chiesa, la vita monastica veniva qualificata come vita a modo degli angeli. E come caratteristica essenziale degli angeli si vedeva il loro essere adoratori. La loro vita è adorazione. Questo dovrebbe valere anche per i monaci. Essi pregano innanzitutto non per questa o quell’altra cosa, ma semplicemente perché Dio merita di essere adorato. “Confitemini Domino, quoniam bonus! – Celebrate il Signore, perché è buono, perché eterna è la sua misericordia!”, esortano vari Salmi (ad es. Sal 106, 1). Una tale preghiera senza scopo specifico, che vuol essere puro servizio divino viene perciò chiamata con ragione “officium”. È il “servizio” per eccellenza, il “servizio sacro” dei monaci. Esso è offerto al Dio trinitario che, al di sopra di tutto, è degno “di ricevere la gloria, l’onore e la potenza” (Ap 4,11), perché ha creato il mondo in modo meraviglioso e in modo ancora più meraviglioso l’ha rinnovato.
Allo stesso tempo, l’officium dei consacrati è anche un servizio sacro agli uomini e una testimonianza per loro. Ogni uomo porta nell’intimo del suo cuore, consapevolmente o in modo inconscio, la nostalgia di un definitivo appagamento, della massima felicità, quindi in fondo di Dio. Un monastero, in cui la comunità si raduna più volte al giorno per lodare Dio, testimonia che questo originario desiderio umano non cade nel vuoto: il Dio Creatore non ha posto noi uomini in tenebre spaventose dove, andando a tentoni, dovremmo disperatamente cercare un fondamentale ultimo senso (cfr At 17,27); Dio non ci ha abbandonati in un deserto del nulla, privo di senso, dove, in definitiva, ci aspetta soltanto la morte. No! Dio ha illuminato le nostre tenebre con la sua luce, per opera del suo Figlio Gesù Cristo. In Lui, Dio è entrato nel nostro mondo con tutta la sua “pienezza” (cfr Col 1,19), in Lui ogni verità, di cui abbiamo nostalgia, ha la sua origine ed il suo culmine.[2]
La nostra luce, la nostra verità, la nostra meta, il nostro appagamento, la nostra vita – tutto ciò non è una dottrina religiosa, ma una Persona: Gesù Cristo. Molto al di là delle nostre capacità di cercare e di desiderare Dio, siamo già prima stati cercati e desiderati, anzi, trovati e redenti da Lui! Lo sguardo degli uomini di ogni tempo e popolo, di tutte le filosofie, le religioni e le culture incontra infine gli occhi spalancati del Figlio di Dio crocifisso e risorto; il suo cuore aperto è la pienezza dell’amore. Gli occhi di Cristo sono lo sguardo del Dio che ama. L’immagine del Crocifisso sopra l’altare, il cui originale romano si trova nel Duomo di Sarzano, mostra che questo sguardo si volge ad ogni uomo. Il Signore, infatti, guarda nel cuore di ciascuno di noi.
Il nocciolo del monachesimo è l’adorazione – il vivere alla maniera degli angeli. Essendo, tuttavia, i monaci uomini con carne e sangue su questa terra, san Benedetto all’imperativo centrale dell’“ora” ne ha aggiunto un secondo: il “labora”. Secondo il concetto di san Benedetto come anche di san Bernardo, una parte della vita monastica, insieme alla preghiera, è anche il lavoro, la coltivazione della terra in conformità alla volontà del Creatore. Così in tutti i secoli i monaci, partendo dal loro sguardo rivolto a Dio, hanno reso la terra vivibile e bella. La salvaguardia e il risanamento della creazione provenivano proprio dal loro guardare a Dio. Nel ritmo dell’ora et labora la comunità dei consacrati dà testimonianza di quel Dio che in Gesù Cristo ci guarda, e uomo e mondo, guardati da Lui, diventano buoni.
Non solo i monaci dicono l’officium, ma la Chiesa dalla tradizione monastica ha derivato per tutti i religiosi, ed anche per sacerdoti e diaconi la recita del Breviario. Vale anche qui che le religiose e i religiosi, i sacerdoti e i diaconi – e naturalmente anche i Vescovi – nella quotidiana preghiera “ufficiale” si presentano davanti a Dio con inni e salmi, con ringraziamenti e domande senza scopi specifici. Cari confratelli nel ministero sacerdotale e diaconale, cari fratelli e sorelle nella vita consacrata! Io so che ci vuole disciplina, anzi, a volte anche superamento di sé per recitare fedelmente il Breviario; ma mediante questo officium riceviamo allo stesso tempo molte ricchezze: quante volte nel fare ciò stanchezza e abbattimento si dileguano! E là dove Dio viene lodato ed adorato con fedeltà, la sua benedizione non manca. Con ragione si dice in Austria: “Tutto dipende dalla benedizione di Dio!”
Il vostro servizio primario per questo mondo deve quindi essere la vostra preghiera e la celebrazione del divino Officio. La disposizione interiore di ogni sacerdote, di ogni persona consacrata deve essere quella di “non anteporre nulla al divino Officio”. La bellezza di una tale disposizione interiore si esprimerà nella bellezza della liturgia al punto che là dove insieme cantiamo, lodiamo, esaltiamo ed adoriamo Dio, si rende presente sulla terra un pezzetto di cielo. Non è davvero temerario se in una liturgia totalmente centrata su Dio, nei riti e nei canti, si vede un’immagine dell’eternità. Altrimenti, come avrebbero potuto i nostri antenati centinaia di anni fa costruire un edificio sacro così solenne come questo? Già la sola architettura qui attrae in alto i nostri sensi verso “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, le cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano” (cfr 1 Cor 2, 9).In ogni forma di impegno per la liturgia criterio determinante deve essere sempre lo sguardo verso Dio. Noi stiamo davanti a Dio – Egli ci parla e noi parliamo a Lui. Là dove, nelle riflessioni sulla liturgia, ci si chiede soltanto come renderla attraente, interessante e bella, la partita è già persa. O essa è opus Dei con Dio come specifico soggetto o non è. In questo contesto io vi chiedo: realizzate la sacra liturgia avendo lo sguardo a Dio nella comunione dei santi, della Chiesa vivente di tutti i luoghi e di tutti i tempi, affinché diventi espressione della bellezza e della sublimità del Dio amico degli uomini!
L’anima della preghiera, infine, è lo Spirito Santo. Sempre, quando preghiamo, è in verità Lui che “viene in aiuto alla nostra debolezza, intercedendo con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili” (cfr Rm 8, 26). Confidando in questa parola dell’apostolo Paolo vi assicuro, cari fratelli e sorelle, che la preghiera susciterà in voi quell’effetto che una volta si esprimeva chiamando sacerdoti e persone consacrate semplicemente “Geistliche” (cioè persone spirituali). Il Vescovo Sailer
di Ratisbona disse una volta che i sacerdoti dovrebbero essere prima di tutto persone spirituali. Mi piacerebbe se l’espressione “Geistliche” ritornasse nuovamente più in uso. È però soprattutto importante che si realizzi in noi quella realtà che la parola descrive: che nella sequela del Signore, in virtù della forza dello Spirito, diventiamo persone “spirituali”.
L’Austria è, come si dice in doppio senso, veramente “Klösterreich”: regno di monasteri e ricca di monasteri. Le vostre antichissime abbazie con origini e tradizioni che risalgono a secoli fa sono luoghi della “preferenza per Dio”. Cari confratelli, rendete molto evidente per gli uomini questa priorità di Dio! Come oasi spirituale un monastero indica al mondo di oggi la cosa più importante, anzi, alla fine l’unica cosa decisiva: esiste un’ultima ragione per cui vale la pena vivere, cioè Dio e il suo amore imperscrutabile.
E chiedo a voi, cari fedeli, considerate le vostre abbazie e i vostri monasteri quello che sono e sempre vogliono essere: non soltanto luoghi di cultura e di tradizione o addirittura semplici aziende economiche. Struttura, organizzazione ed economia sono necessarie anche nella Chiesa, ma non sono la cosa essenziale. Un monastero è soprattutto questo: un luogo di forza spirituale. Arrivando in uno dei vostri monasteri qui in Austria si ha la stessa impressione di quando, dopo una camminata sulle Alpi che è costata sudore, finalmente ci si può rinfrescare ad un ruscello di acqua sorgiva… Approfittate dunque di queste sorgenti della vicinanza di Dio nel vostro Paese, stimate le comunità religiose, i monasteri e le abbazie e ricorrete al servizio spirituale che i consacrati sono disposti ad offrirvi!
La mia visita, infine, è rivolta all’Accademia ormai Pontificia che si trova nel 205o anniversario della sua fondazione e che, nel suo stato nuovo, dall’Abate ha ricevuto il nome aggiuntivo dell’attuale successore di Pietro. Per quanto sia importante l’integrazione della disciplina teologica nell’universitas del sapere mediante le facoltà teologiche cattoliche nelle università statali, è tuttavia altrettanto importante che ci siano luoghi di studi così profilati come il vostro, dove è possibile un legame approfondito tra teologia scientifica e spiritualità vissuta. Dio, infatti, non è mai semplicemente l’Oggetto della teologia, è sempre allo stesso tempo anche il suo Soggetto vivente. La teologia cristiana, del resto, non è mai un discorso solamente umano su Dio, ma è sempre al contempo il Logos e la logica in cui Dio si rivela. Per questo intellettualità scientifica e devozione vissuta sono due elementi dello studio che, in una complementarietà irrinunciabile, dipendono l’una dall’altra.
Il padre dell’Ordine cistercense, san Bernardo, a suo tempo ha lottato contro il distacco di una razionalità oggettivante dalla corrente della spiritualità ecclesiale. La nostra situazione oggi, pur diversa, ha però anche notevoli somiglianze. Nell’ansia di ottenere il riconoscimento di rigorosa scientificità nel senso moderno, la teologia può perdere il respiro della fede. Ma come una liturgia che dimentica lo sguardo a Dio è, come tale, al lumicino, così anche una teologia che non respira più nello spazio della fede, cessa di essere teologia; finisce per ridursi ad una serie di discipline più o meno collegate tra di loro. Dove invece si pratica una “teologia in ginocchio”, come richiedeva Hans Urs von Balthasar,[3] non mancherà la fecondità per la Chiesa in Austria ed anche oltre.
Questa fecondità si mostra nel sostegno e nella formazione di persone che portano in sé una chiamata spirituale. Perché oggi una chiamata al sacerdozio o allo stato religioso possa essere sostenuta fedelmente lungo tutta la vita, occorre una formazione che integri fede e ragione, cuore e mente, vita e pensiero. Una vita al seguito di Cristo ha bisogno dell’integrazione dell’intera personalità. Dove si trascura la dimensione intellettuale, nasce troppo facilmente una forma di pia infatuazione che vive quasi esclusivamente di emozioni e di stati d’animo che non possono essere sostenuti per tutta la vita. E dove si trascura la dimensione spirituale, si crea un razionalismo rarefatto che sulla base della sua freddezza e del suo distacco non può mai sfociare in una donazione entusiasta di sé a Dio. Non si può fondare una vita al seguito di Cristo su tali unilateralità; con le mezze misure si resterebbe personalmente insoddisfatti e, di conseguenza, forse anche spiritualmente sterili. Ogni chiamata alla vita religiosa o al sacerdozio è un tesoro così prezioso che i responsabili devono fare tutto il possibile per trovare le vie di formazione adatte per promuovere insieme fides et ratio – la fede e la ragione, il cuore e la mente.
San Leopoldo d’Austria – l’abbiamo sentito poc’anzi – su consiglio del figlio, il beato Vescovo Otto di Frisinga che fu mio predecessore sulla sede vescovile di Frisinga (in Frisinga si celebra oggi la sua festa), fondò nel 1133 la vostra abbazia, dandole il nome di “Unsere Liebe Frau zum Heiligen Kreuz” – Nostra Signora della Santa Croce. Questo monastero non è dedicato alla Madonna solo tradizionalmente – come tutti i monasteri cistercensi –, ma qui arde il fuoco mariano di un san Bernardo di Chiaravalle. Bernardo che, insieme a 30 compagni entrò nel monastero, è una specie di Patrono delle chiamate spirituali. Forse aveva un ascendente così entusiasmante ed incoraggiante su molti giovani del suo tempo chiamati da Dio, perché era animato da una particolare devozione mariana. Dove c’è Maria, là c’è l’immagine primigenia della donazione totale e della sequela di Cristo. Dove c’è Maria, là c’è il soffio pentecostale dello Spirito Santo, là c’è l’avvio e un rinnovamento autentico.
Da questo luogo mariano sulla Via Sacra auguro a tutti i luoghi spirituali in Austria fecondità e capacità di irraggiamento. Qui vorrei prima della mia partenza, come già a Mariazell, chiedere alla Madre di Dio ancora una volta di intercedere per tutta l’Austria. Con le parole di san Bernardo invito ciascuno a farsi davanti a Maria fiduciosamente “bambino”, come lo ha fatto il Figlio stesso di Dio. San Bernardo dice, e noi diciamo con lui: “Guarda la stella, invoca Maria … Nei pericoli, nella angustie, nelle incertezze, pensa a Maria, invoca Maria. Non s’allontani il suo nome dalla tua bocca, non si allontani dal tuo cuore … Seguendo lei non ti smarrisci, pregando lei non ti disperi, pensando a lei non sbagli. Se lei ti tiene, non cadi; se lei ti protegge, non temi; se lei ti guida, non ti stanchi, se lei ti concede il suo favore, tu arrivi al tuo fine”.[4]
*******[1] Regula Benedicti 43,3.[2] Cfr Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n. 22.[3] Cfr Hans Urs von Balthasar, Theologie und Heiligkeit, Aufsatz von 1948 in: Verbum Caro. Schriften zur Theologie I, Einsiedeln 1960, 195-224.[4] Bernardo di Chiaravalle, In laudibus Virginis Matris, Homilia 2, 17.
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