Bene comune e questione antropologica

REGGIO EMILIA, sabato, 1° settembre 2007 (ZENIT.org).-Pubblichiamo di seguito il testo della conferenza tenuta da monsignor Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, a Reggio Emilia il 4 agosto scorso, sul tema “Bene comune e questione antropologica”, in occasione di un Seminario di studio promosso dalla Commissione diocesana per l’impegno politico presso il Centro diocesano di spiritualità di Marola.

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Affronterò l’argomento cercando di precisare prima di tutto cosa intendiamo oggi con l’espressione “questione antropologica”, che viene adoperata anche dal Documento preparatorio della prossima Settimana sociale dei cattolici italiani [1]. Vedremo quindi il suo rapporto con il bene comune così come viene insegnato dalla Dottrina sociale della Chiesa e, infine, cercheremo di approfondire alcune conseguenze per l’azione storica che tutto questo comporta per il presente e il futuro.

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La questione antropologica è la questione dell’uomo. Sempre la società e la politica hanno dovuto confrontarsi con essa, non si capisce quindi come mai oggi tale questione dovrebbe porsi in modo nuovo e in cosa consista questa novità [2]. A mio parere a rendere “nuova” oggi la questione antropologica concorrono due fattori tra essi complementari.

Il primo è dato dallo sviluppo delle scienze e delle tecnologie biomediche che ormai mettono l’uomo interamente in mano all’uomo, rendendo manipolabile la sua stessa essenza. Questione antropologica, in questo senso, sta a significare pertanto la capacità tecnica dell’uomo di decidere sulla vita e sulla morte, di “produrre” l’uomo in laboratorio, emancipandosi completamente dalla “natura” intesa come un insieme di “forme” esprimenti un disegno e da un Creatore che nella natura avrebbe inserito la propria sapienza. La sostituzione della natura con la cultura è oggi pienamente possibile tramite la tecnica. Così facendo, però, la tecnica – la “nuda tecnica” come ho affermato in altra occasione [3] – diventa oggi il principale fattore di nichilismo culturale. Essa, infatti, può avere in mano l’uomo, solo se lo può produrre, ma se lo può produrre diventa essa la fonte del suo senso. Con l’uomo anche il senso dell’uomo è solo un prodotto. Il dramma è che le tecnica non è in grado di fare questo, ossia di dare un senso. La tecnica è incapace per suo statuto epistemologico di produrre senso. Essa “non sa dove andare”.

In questo modo siamo già scivolati verso il secondo motivo che spiega la novità della questione antropologica ai nostri giorni. Non solo la tecnica ma soprattutto il contesto in cui la tecnica si colloca. Se la tecnica non sa dove andare, se essa concerne il come, ma non il perché, deve ricevere l’orientamento dall’etica, dalla filosofia, dalla teologia collaboranti all’interno di una ragione pubblica dialogica ma non indifferente, tollerante ma non cinicamente incredula, tendente ad un compromesso al rialzo piuttosto che al ribasso. Purtroppo, invece, la ragione pubblica è oggi prevalentemente caratterizzata da una “laicità della modernità” [4], in crisi proprio nel momento della sua massima espansione. In cosa consiste questa crisi, e perché essa viene raggiunta nel momento della sua massima espansione? Il motivo di fondo mi sembra essere il seguente. La laicità della modernità è caratterizzata dall’autosufficienza della natura. Ha un’origine pelagiana e, quindi, anche gnostica. Autosufficienza della natura significa, significa, infatti, capacità di autosalvezza. La ragione naturale viene investita della capacità di autosalvarsi. La modernità ha espresso, come ben sappiamo, multiformi espressioni di questo messianismo laico. Autosufficienza e autosalvezza comportano per sé l’assolutezza. La laicità della modernità ha una visione assoluta delle capacità della ragione ed infatti il razionalismo è stata sempre la propria bandiera. Succede però che la ragione, per esercitare pienamente la propria assolutezza, sia anche costretta ad autolimitarsi, ossia a ridurre il campo del reale da essa conoscibile. Assolutezza della ragione e autolimitazione sono inversamente proporzionali ed hanno avuto idealmente inizio quando Kant concepì il proprio programma di limitare lo spazio della ragione (ai soli fenomeni) proprio per permetterle di essere certa delle proprie conoscenze. Ecco perché, il messianismo laico della laicità della modernità è confluito nel relativismo debole e indifferente della postmodernità. Oggi la ragione ha talmente ridotto il proprio spazio di azione da concentrarlo solo in quanto è “empiricamente misurabile” [5], escludendo tutto il resto [6], che viene quindi abbandonato al campo dell’irrazionale, dell’opzionale, delle scelte immotivate e immotivabili. Questa è la grande debolezza del contesto in cui la tecnica oggi si pone. Mentre le capacità tecniche sono aumentate a dismisura, il contesto etico che avrebbe dovuto guidarle è stata abbandonato all’irrazionale. La questione antropologica, quindi, significa da un lato che la manipolazione tecnica è arrivata ad intervenire sull’identità umana stessa e su ciò per cui l’uomo è uomo e dall’altro che non sa più cosa sia l’uomo. E’ in grado di produrre l’uomo, ma non sa più cosa esso sia. Questa è la crisi della modernità che, come si vede, avviene proprio nel momento del suo massimo potere. Né poteva essere diversamente.

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Facciamo ora il secondo passo e cerchiamo di vedere il rapporto tra questa nuova questione antropologica e il bene comune. Tale rapporto passa attraverso un’espressione cara al cardinale Camillo Ruini: la questione sociale è oggi la questione antropologica [7]. Perché si può stabilire questo nesso e addirittura questa identificazione? Potremmo esprimere il problema in questo modo: come sarà possibile che il cittadino si appelli alla verità dell’uomo contro il potere se il potere non riconosce nessuna verità? Se un tempo, nella fase moderna dei messianismi laici, il potere si era ideologicamente impossessato della verità, oggi tende a separarsene, sostenendo di evitare così il fondamentalismo politico e garantire la libertà e la tolleranza. Nasce da qui la tendenza della laicità a presentarsi come laicità della neutralità. Essa è frutto di una specie di giacobinismo culturale verso cui siamo stati poco critici. Siamo tutti avvertiti contro il giacobinismo politico che si è espresso in varie forme totalitarie nel passato più o meno recente, continuiamo ad essere impreparati nei confronti del giacobinismo culturale, che esprime ugualmente una mentalità totalitaria, pur nel rispetto formale della democrazia e di uno stato di diritto procedurale più che sostanziale. E’ questo giacobinismo culturale a diffondere la “dittatura del relativismo” di cui ci parla da tempo Joseph Ratzinger – Benedetto XVI e che con acuta lungimiranza il filosofo Augusto Del Noce aveva previsto nel lontano 1964, quando il fenomeno era solo agli inizi. La società di oggi promuove inaudite forme di dittatura sugli spiriti e di “cultura della morte” proprio nel mentre apre totalmente le apparenti maglie della tolleranza e del dialogo e di ogni problema etico fa questione di compromesso al ribasso. Ma il bene comune, come ha ricordato Benedetto XVI, non equivale al minore male comune [8]. Il bene comune non è nemmeno concepibile senza una verità sull’uomo e senza un autentico bene umano – di tutti e di ciascuno, per riprendere l’espressione del Documento preparatorio – che faccia da anima e guida per l’azione sociale e politica.

La questione antropologica è oggi la chiave di volta dell’intera questione sociale perché pone drammaticamente il problema del ruolo pubblico dell’indisponibile che richiama a sua volta all’incondizionato. Per questo il ruolo storico dei cattolici nel nostro Paese è oggi di particolare importanza. Mai come adesso è chiaro che la Chiesa italiana sta dalla parte della verità dell’uomo ed ha la pretesa di essere indispensabile affinché, come Chiesa e non solo come agenzia etica e sociale, la natura e la ragione si salvino non chiudendosi in se stesse, come la laicità della modernità ha fatto, ma aprendosi ad un oltre che le faccia respirare. Oggi la Chiesa italiana ha una maggiore consapevolezza che la società italiana ha bisogno di essa e che essa assolve più convenientemente il proprio compito quando non si concepisce come “chie
sa minima” in grado di esprimere solo una pastorale dell’accompagnamento, ma é conscia della propria identità, ossia di dover essere espressione di carità e di verità, inscindibilmente. Ma su questo torneremo in seguito.

Ritornando al rapporto tra nuova questione antropologica e bene comune, vorrei osservare che senza recuperare in modo pieno la dimensione dell’indisponibile – quanto non è a disposizione dell’uomo e costituisce quindi l’orizzonte di senso e il limite di quanto è a disposizione – nessun’altra dimensione della vita sociale sarà posta al riparo dal primo che vorrà accaparrarsela [9]: «Tutto questo ha dei costi sociali molto alti. Impedisce la convergenza su valori comuni, disarticola i contesti sociali in tanti percorsi contrapposti, mette in crisi lo Stato di diritto, ferisce mortalmente la giustizia, smorza la sensibilità etica, fa sorgere conflitti laceranti» [10]. Come si vede, la questione antropologica non è una questione bioetica ma riguarda l’intera questione sociale. Fin dalla Rerum novarum, la questione sociale è stata intesa come il problema dei poveri. Ebbene, tutti gli uomini sono poveri quando la stessa natura umana è messa in pericolo.

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In vista del Centenario delle Settimane sociali, che si terrà a Pistoia – Pisa dal 18 al 21 ottobre 2007, vorrei segnalare, in conclusione di questo mio intervento, due punti che mi sembra meritino una particolare attenzione, proprio perché emergono dalla nuova questione antropologica intesa come questione sociale.

Il primo punto è che il bene comune ha bisogno del cristianesimo. Questo è il vero tema che mi auguro venga adeguatamente affrontato nella Settimana sociale del centenario. La laicità della modernità riesce, per ben che vada, ad ammettere l’utilità per la vita pubblica della religione in generale e di quella cristiana in particolare, ma rifiuta senz’altro la sua indispensabilità. Questa è invece la pretesa cristiana. Questo bisogno di religione e di cristianesimo emerge con grande evidenza dalla nuova questione antropologica; davanti ai grandi pericoli che sono presenti in essa, si comprende quanto abbia ragione Benedetto XVI nell’affermare che «I conti sull’uomo senza Dio non tornano, i conti sul mondo, su tutto l’universo, senza di Lui non tornano» [11]. La questione antropologica mette in evidenza come il mondo contenga in sé anche delle dinamiche profondamente sbagliate e come esso abbia bisogno di salvezza. In questo modo essa mette in crisi il pelagianesimo e lo gnosticismo del razionalismo occidentale e, così facendo, riapre il dialogo con il trascendente. Forse per la prima volta dopo un lungo sogno di onnipotenza, l’uomo capisce che il suo sviluppo può condurre anche ad un baratro. Per lo stesso motivo, però, mette in crisi anche quella teologia cattolica che ha assegnato alla categoria del “mondo” un eccessivo significato positivo di (quasi) autosufficienza.

La seconda osservazione riguarda la possibilità oggi di un “nuovo patto tra laici e cattolici” per la protezione della dignità della persona umana. La questione antropologica può essere un nuovo terreno di frontiera in cui laici e cattolici nel nostro Paese si alleano per il bene comune [12]. Ma su che basi?

Si comprende qui l’enorme importanza di una famosa indicazione di Benedetto XVI. La laicità vera ritiene che la natura e la ragione non siano sufficienti [13]. La laicità vera si sente bisognosa dell’incondizionato e lascia ad esso le porte aperte. La laicità vera lascia aperto – non come tolleranza ma come necessità consapevole – lo spazio pubblico all’incondizionato. Il laico – come del resto il cristiano – ritiene che la ragione umana ha bisogno della fede per respirare adeguatamente e non perdersi nelle proprie contraddizioni. La ragione pubblica non solo “permette” ma “richiede” che la religione intervenga nel dibattito pubblico. Ci sono tre versioni di laicità: quella contraria alla religione, quella indifferente alla religione e quella aperta alla religione. Solo quest’ultima è quella vera.

Qui però si apre un ulteriore problema: tutte le religioni allo stesso modo? [14] La “pretesa” cristiana riguarda anche questo punto: «Non c’è vera soluzione alla questione sociale fuori del Vangelo» [15]. Se tutte le religioni svolgono questa funzione allo stesso modo, allora si rimane dentro il relativismo. In questo caso si tratta di relativismo religioso, il quale però alimenta e a sua volta si fa alimentare dal relativismo filosofico. Accade così che se la laicità si apre alle religioni, ma a tutte indifferentemente, tale apertura non è in grado di superare il relativismo della laicità della modernità. Bisogna che la verità, nel mentre richiede alla società una apertura all’incondizionato, guidi anche ad un discernimento razionale circa la diversità delle religioni, evitando di considerarle tutte uguali, ossia tutte una generica espressione di vago misticismo. Per liberarsi dal relativismo, la laicità deve ammettere la necessità della religione per la vita pubblica e, insieme, la necessità del cristianesimo. Anche questo rientra nella pretesa cristiana. La fede cristiana accetta di essere valutata nella sua capacità umanizzante e, su questa base, chiede di essere confrontata con le altre religioni. Poiché essa ritiene di credere nel “Dio dal volto umano”, sostiene che l’uomo ha bisogno di Dio per conoscere il proprio volto e nello stesso tempo ha bisogno del proprio volto per discernere tra Dio e gli déi. Si tratta in fondo di un’operazione laica, in quanto fondata sulla ragione. Gli uomini e le società hanno dei doveri verso la “vera religione” proprio in quanto essa è vera, ossia supera l’esame della ragione nella misura in cui pone alla ragione il problema della sua stessa verità. La ragione, infatti, non è in grado di valutare la verità delle religioni, se non ha fatto chiarezza circa la propria verità. Il cristianesimo fa questo, pone alla ragione il problema della sua verità, la aiuta a chiarirsene l’idea e la rende quindi capace di capire la verità stessa del cristianesimo, non più per motivi confessionali ma laici.

S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi
Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace
Reggio Emilia, 4 agosto 2007

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1) Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici ialiani, Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano. Documento preparatorio, EDB, Bologna 2007, pp. 40-41.

2) Ne ho accennato nella mia relazione al Convegno preparatorio di Treviso il 20 gennaio 2007: G. Crepaldi, Bene comune e dottrina sociale della Chiesa, in Atti del primo seminario preparatorio del Centenario delle Settimane sociali, EDB, Bologna 2007, pp. 11-13.

3) G. Crepaldi, L’uomo e la tecnica nella Dottrina sociale della Chiesa, Conferenza al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum, Roma 7 luglio 2006.

4) Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici ialiani, Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano. Documento preparatorio cit., pp. 44-49.

5) «Razionale è soltanto ciò che si può provare con degli esperimenti» (J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli, Siena 2005, p. 36; trattasi del famoso Discorso di Subiaco del 2 aprile 2005). Cf su questo punto G. Crepaldi, Brevi note sulla laicità secondo Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, in “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa”, II (2006) 1, pp. 3-16.

6) Molto acuta l’osservazione critica di R. Spaemann: l’uomo moderno pensa di non poter andare oltre se stesso, ma come fa a saperlo senza andare oltre se stesso? (R.Spaemann, Benedetto XVI e la luce della ragione, in AA.VV., Dio salvi la ragione, Cantagalli, Siena 2007, p. 152).

7) Mi riferisco alla Relazione del Cardinale Ruini alla Conferenza Internazionale su “Università e Dottrina sociale della Chiesa”, Roma, 17 novembre 2006 pubblicata, assieme ad altri contributi
, nel volume C. Ruini, Verità di Dio e verità dell’uomo, Cantagalli, Siena 2007, pp. 47-70.

8) Benedetto XVI, Discorso ai Partecipanti ad un convegno della COMECE in occasione dei 50 anni della firma dei Trattati di Roma, 24 marzo 2007, in “L’Osservatore Romano”, 25 marzo 2007, p. 5: «Si finisce in questo modo per diffondere la convinzione che la “ponderazione dei beni” sia l’unica via per il discernimento morale e che il bene comune sia sinonimo di compromesso. In realtà, se il compromesso può costituire un legittimo bilanciamento di interessi particolari diversi, si trasforma in male comune ogniqualvolta comporti accordi lesivi della natura dell’uomo». Cf Cf S. Fontana, Tre insegnamenti di Benedetto XVI. Punti chiave per l’azione sociale, in “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” III (2007) 3-4, pp. 26-32.

9) Prendo a prestito l’espressione da Ch. Taylor, Il Disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 13.

10) G. Crepaldi, Introduzione a C. Ruini, Verità di Dio e verità dell’uomo cit., p. 8.

11) Benedetto XVI, Omelia all’Islinger Feld, Regensburg 12 settembre 2006 in Benedetto XVI, Chi crede non è mai solo. Viaggio in Baviera – Tutte le parole del Papa, Cantagalli, Siena 2006, p. 46. Nel famoso discorso di Subiaco, poco prima di varcare la soglia del pontificato, Joseph Ratzinger aveva detto: «Il tentativo di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre più sull’orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo» (J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli, Siena 2005, p. 36). Ad Aparecida aveva parlato del fallimento di tutti i sistemi che mettono Dio tra parentesi: «Chi esclude Dio dal suo orizzonte falsifica il concetto di “realtà” e, in conseguenza,, può finire solo in strade sbagliate e con ricette distruttive. La prima affermazione fondamentale è, dunque, la seguente: Solo chi riconosce Dio, conosce la realtà e può rispondere ad essa in modo adeguato e realmente umano. La verità di questa tesi risulta evidente davanti al fallimento di tutti i sistemi che mettono Dio tra parentesi», Benedetto XVI, Discorso all’inaugurazione della V Conferenza generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Aparecida 13 maggio 2007, in Supplemento a “L’Osservatore Romano” del 2 giugno 2007, p. 9. In questi pronunciamenti del Papa si sente l’eco di De Lubac; «Non è poi vero, come pare si voglia dire qualche volta, che l’uomo sia incapace di organizzare la terra senza Dio. Ma ciò che è vero è che, senza Dio, egli non può, alla fine dei conti, che organizzarla contro l’uomo». H. De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo (Prima edizione Paris 1945), Morcelliana, Brescia 1988, p. 9.

12) «E’ questo uno dei motivi per i quali diventa oggi sempre più necessaria quella collaborazione tra credenti in Cristo e persone comunque sollecite della conservazione e dello sviluppo, nell’attuale contesto storico, di un umanesimo autentico, della quale si è fatto promotore, straordinariamente autorevole, lo stesso Benedetto XVI (C. Ruini, Verità di Dio e verità dell’uomo cit., p. 63).

13) Traduciamo in questo modo la celebre affermazione di Joseph Ratzinger secondo cui il pensiero laico dovrebbe vivere come se Dio esistesse (J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture cit., p. 63).

14) Cf su questo punto del rapporto della ragione pubblica con le religioni e il cristianesimo G. Crepaldi, Ragione pubblica e verità del Cristianesimo, in “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” III (2007) 2, pp. 4-13.

15) Giovanni Paolo II, Enc. Centesimus annus n. 5, che riprende quanto già affermato dalla Rerum novarum.

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ZENIT Staff

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