ROMA, venerdì, 10 novembre 2006 (ZENIT.org).- Con una dichiarazione pubblicata dal Sunday Times il 5 novembre, il Royal College of Obstetricians and Gynaecologists (RCOG) ha annunciato di aver inviato un documento al Nuffield Council on Bioethics in cui si chiede “la possibilità di uccidere i neonati disabili”.
Il Nuffield Council on Bioethics è una influente Commissione privata di Bioetica che sta per pubblicare un rapporto sulle decisioni critiche in medicina fetale e neonatale.
Nel documento citato il RCOG chiede che si apra un dibattito sull’eutanasia attiva dei bambini disabili, sostenendo che in questo modo si risparmierebbe il fardello emotivo ed il peso economico della cura per un bambino o bambina gravemente disabili.
L’associazione dei ginecologi britannici afferma che il permesso per l’eutanasia attiva limiterebbe il ricorso all’aborto tardivo perché in caso di ipotesi di un grave handicap del feto, i genitori potrebbero portate avanti la gravidanza e decidere solo una volta nato se tenerlo oppure sopprimerlo.
Di fronte a una tale richiesta si sono levate in Gran Bretagna le voci contrarie della British Council of Disabled People.
Per meglio capire la vicenda e le sue implicazioni di natura bioetica, ZENIT ha intervistato il neonatologo Carlo Valerio Bellieni, Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario “Le Scotte” di Siena.
Cosa pensa della richiesta del Royal College of Obstetricians and Gynaecologists?
Bellieni: La richiesta di sopprimere i neonati con gravi disabilità non lascia insensibile nessun pediatra, cioè coloro che domani saranno chiamati a compiere le “eliminazioni”, ma non è nuova: già Michael Gross scriveva nel 2002 su Bioethics, che c’è “un generale consenso al neonaticidio a seconda del parere del genitore sull’interesse del neonato definito in modo ampio da considerare sia il danno fisico che il danno sociale, psicologico e finanziario a terzi”, ed è sempre l’interesse dei terzi da cui bisogna partire per capire cosa si possa nascondere dietro un pietistico tentativo di “porre fine alle sofferenze del bambino”.
Quali sono gli aspetti più inquietanti della proposta inglese?
Bellieni: Quello che inquieta i pediatri sono tre cose:
1: Dover diventare esecutori di una condanna a morte: non è per questo che siamo medici, soprattutto in un’epoca in cui la condanna a morte è stigmatizzata da un sempre maggior numero di Stati.
2: Considerare i propri pazienti come non-persone: esistono autori che sostengono che i neonati non sono persone perché non hanno ancora un’autocoscienza (ed è una logica conseguenza di chi non considera persone il feto o l’embrione per lo stesso motivo); e da questo giungono a dire che i neonati neanche sono in grado di sentire dolore, essendo l’autocoscienza per l’appunto un requisito per questa sensazione: affermazioni smentite ampiamente dalla fisiologia e dall’esperienza.
3: Considerare la disabilità come una vita non da soccorrere e rispettare, ma, con un atteggiamento fobico, come una vita di serie B.
Alcuni medici britannici hanno sostenuto che non bisogna scandalizzarsi poiché l’aborto tardivo è assimilabile all’eutanasia attiva. Qual è il suo parere in proposito?
Bellieni: Leggendo la notizia non mi sono stupito. Capisco l’orrore, ma non capisco lo stupore: chi ha studiato anatomia e biologia, chi è esperto di fisiologia umana sa bene che non esiste nessuna differenza sostanziale tra feto e neonato, a parte piccole modifiche nel circolo sanguigno, dunque non si capisce perché faccia orrore uccidere un neonato e non faccia orrore uccidere un feto. A meno che non si creda che l’ingresso di aria nei polmoni abbia un effetto “magico”, tale da trasformare il DNA o la coscienza dell’individuo!
La foto del piccolo feto morto nella mamma uccisa, pubblicata qualche mese fa da un quotidiano italiano ha sconvolto non perché si faceva vedere un cadavere (purtroppo abbiamo visto anche recentemente in TV e nei giornali tanti bambini morti in guerre e nessuno si è inalberato), ma perché si faceva vedere la realtà: che un feto non è altro che un bambino che ancora non ha goduto dell’aria esterna. E questo ogni mamma sa che è vero, come lo sa chiunque per lavoro cura i piccolissimi feti precocemente usciti dall’utero materno, detti “bambini prematuri”, come lo sanno i chirurghi che operano i feti ancora in utero.
Ripeto: il dramma è che ci si stupisce, mentre occorre iniziare un lavoro culturale fatto di ricerca e di divulgazione seria e non più solo di “reazioni” (alla ultima “trasgressione”, all’ultimo orrore). Il vero sforzo bioetico di oggi non è quello di affermare un vago senso di misericordia verso il prossimo (anche i programmi televisivi sono pieni di lacrime…), ma di essere “fan” dell’evidenza, della realtà, di affermare che un embrione è un embrione e non una cellula qualunque, che un feto di pochi etti prova dolore, che il DNA mostra che la vita di ognuno inizia dal concepimento; che è come dover dimostrare che un fiore è un fiore e non un bicchiere!