ROMA, lunedì, 6 novembre 2006 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l’intervento pronunciato dall’Arcivescovo Silvano M. Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite ed altre organizzazioni in Ginevra, in occasione della conferenza tenutasi il 19 ottobre scorso e organizzata dall’Acton Institute a celebrazione del XV anniversario della pubblicazione della Enciclica sociale di Giovanni Paolo II, “Centesimus Annus”.
Prendendo la parola durante l’incontro svoltosi presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma sul tema “Globalizzazione e Povertà nel Mondo”, l’Arcivescovo Tomasi ha espresso alcuni commenti, alla luce della Dottrina sociale della Chiesa cattolica, sulla globalizzazione, la povertà e il modo di operare delle Nazioni Unite.
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1. Permettetemi innanzitutto di esprimere il mio apprezzamento per questa iniziativa dell’Istituto Acton tesa ad esplorare le molteplici implicazioni dell’Enciclica Centesimus Annus di Papa Giovanni Paolo II, una pietra miliare nello sviluppo della dottrina sociale della Chiesa e un contributo importante per la comprensione del nostro mondo così complesso.
2. Lord Griffiths ci ha presentato un quadro completo della globalizzazione. Lo sfondo dell’intera conferenza è stata l’Enciclica Centesimus Annus, che dopo il crollo del comunismo e nell’aggiornare molti aspetti della dottrina sociale della Chiesa, presenta una visione globale del rinnovamento di un giusto ordine economico, politico e sociale. Il Dott. Belli ha fatto dei commenti in questa direzione. È certamente un’ardua impresa intervenire dopo l’analisi brillante ed esauriente che Lord Griffiths ha fatto dei tre argomenti della globalizzazione, della povertà e dello sviluppo. Egli ha presentato con molta evidenza l’interconnessione sempre maggiore e sempre più rapida del mondo di oggi, elementi che dimostrano una povertà persistente. Le conseguenze negative e positive del legame fra i due fenomeni sono state anch’esse considerate. È stato rimarcato che la storia non è tutta nella legittimazione morale della globalizzazione e dell’economia di mercato. Ciò è piuttosto vero, ma io sono tentato di esprimere questa valutazione in modo diverso. Penso che sia l’economia di mercato sia la globalizzazione siano fenomeni sociali la cui validità etica per il bene comune dipende da come vengono gestiti e dalla correttezza delle regole del loro governo, come in realtà ha in qualche modo evidenziato la conferenza. Penso anche che si tratti di un ambito nel quale possiamo discutere più a lungo. Per questa ragione la Centesimus Annus pone tutta l’attività umana in un contesto culturale che comprende una visione dell’uomo e della trascendenza capace di motivare l’agire a livello globale, ma all’interno dell’approccio sistematico dettato dal principio della sussidiarietà. In altre parole, la Centesimus Annus dà un contributo molto importante all’economia e all’ordine politico ma probabilmente il suo contributo più importante è quello che dà alla struttura culturale nell’ambito della quale dobbiamo leggere questo tipo di fenomeni. Oltre le montagne di dati economici e la complessità della loro analisi, il dibattito sulla globalizzazione non potrà che continuare, penso infatti che non riusciremo a concluderlo questa sera e che la comprensione dei legami fra globalizzazione e povertà o sviluppo non sarà univoca, anzi potrebbe addirittura alimentare la controversia.
Negli ultimi due decenni, come è già stato accennato, la percentuale di popolazione mondiale che vive con meno di un dollaro al giorno si è dimezzata passando dal 40 al 20% nel corso degli ultimi venti anni. Si tratta di un risultato incredibile, ma c’è ancora più di un miliardo di persone che vivono in condizioni di povertà estrema e la metà della popolazione mondiale vive con meno di due dollari al giorno. Di fronte a una realtà come questa non ci sono movimenti mondiali o argomenti accademici che possano ricordare al mondo che è necessario fare di più per distribuire in modo equo i benefici della globalizzazione. Infatti, ci saranno alcuni che condanneranno la globalizzazione accusandola di essere semplicemente una cattiva politica e la causa strutturale dell’ineguaglianza sociale, non c’è pertanto da sorprendersi se tutta una serie di domande terrà viva la discussione.
Vi pongo alcune di queste domande:
• Come ha influito l’integrazione economica globale sulla condizione dei poveri nei paesi in via di sviluppo?
• Le riforme economiche che riducono la protezione nei confronti delle importazioni portano a un miglioramento nella vita dei poveri?
• La sempre maggiore integrazione finanziaria ha aumentato o diminuito il livello di povertà?
• Come hanno affrontato i poveri le crisi monetarie?
• I programmi di sostegno all’agricoltura attuati nei paesi ricchi sono andati a discapito dei poveri nei paesi in via di sviluppo?
• Oppure questi programmi forniscono assistenza riducendo il costo delle importazioni alimentari?
• Infine, la fornitura assistenziale di derrate alimentari va a detrimento dei poveri provocando un abbassamento del prezzo dei prodotti che essi vendono sui mercati locali? (Ann Harrison 2005)
Una conclusione semplice sulla quale tutti concordano è che la globalizzazione produce sia vincitori sia perdenti fra i poveri e che questi hanno bisogno di reti di sicurezza mirate.
Ann Harrison dell’Università della California di Berkley sottolinea altre implicazioni fondamentali evidenziate da una serie di studi sulla globalizzazione e sulla povertà:
1. gli ostacoli alle esportazioni dai paesi in via di sviluppo che aggravano la povertà in quei paesi portandoli ad aver bisogno delle eccedenze dei mercati dei paesi sviluppati.<br>
2. a seguito della liberalizzazione del commercio nei settori che si trovano in concorrenza con le importazioni i poveri perdono qualsiasi forma di protezione e vengono identificati con i perdenti, come i poveri nei paesi vivono una crisi finanziaria, come i piccoli coltivatori i quali non possono competere con l’efficienza dei grandi agricoltori o con la concorrenza dei prodotti importati.
3. fare affidamento sul commercio o solo sugli investimenti esteri non è sufficiente. È necessaria una complementarietà di politiche e iniziative, un punto sollevato anche da Lord Griffiths, per cui migliori livelli d’istruzione, accesso alle infrastrutture, accesso al credito per investimenti e apporti tecnologici e la capacità dei lavoratori di essere ricollocati in settori in via d’espansione.
Molte di queste variabili sono già state illustrate e tendono tutte a enfatizzare la necessità di un approccio ampio nel quale i poveri sentano che il loro lavoro partecipa alla creazione di un mondo più giusto e prospero per tutti (cfr. Centesimus Annus, 28) e nel quale lo sviluppo non venga inteso solo in termini economici ma in un modo che è totalmente umano. Su questi ultimi punti la Centesimus Annus dice: “Non si tratta solo di elevare tutti i popoli al livello di cui godono oggi i Paesi più ricchi, ma di costruire nel lavoro solidale una vita più degna, di far crescere effettivamente la dignità e la creatività di ogni singola persona, la sua capacità di rispondere alla propria vocazione e, dunque, all’appello di Dio, in essa contenuto” (n. 29).
Così l’antropologia cristiana dell’Enciclica è effettivamente il modo della Chiesa di contribuire alla formazione di una cultura pubblica internazionale, capace di guidare la “res novae” del XXI secolo nella direzione di una società vivibile e giusta.
Nel mio ambiente di lavoro, l’Organizzazione delle Nazioni Unite e gli organismi ad essa collegati a Ginevra, le questioni della globalizzazione, della povertà e dello sviluppo sono argomenti che vengono affrontati in innumerevoli riunioni
e che richiedono uno sforzo importante perché le politiche concordate dalla Organizzazione Mondiale per il Commercio, dalla cooperazione delle N.U. per l’economia e lo sviluppo e soprattutto dall’OIL vengano tradotte in azioni concrete. E qui sono a volte tentato di essere d’accordo con Lord Griffiths sul fatto che probabilmente dovremmo trovare un modo per lasciare da parte queste organizzazioni internazionali e concentrarsi su azioni concrete sul territorio. C’è sempre il rischio di considerare alcuni paesi più uguali di altri, e che “i più uguali” indirizzino le regole nella loro direzione e preferiscano alleanze laterali più convenienti al multilateralismo. Questo è proprio quello che sta accadendo con il Doha Development Round, in cui la mancata possibilità di un accordo fra gli Stati Uniti e l’Europa ha portato quest’ultima a cercare un accordo bilaterale con altri paesi in via di sviluppo, causando una sorta di indebolimento dell’intero sistema multilaterale. Questo è molto pericoloso per i paesi poveri.
3. Allora, come si colloca la dottrina sociale della Chiesa nelle strutture e nelle discussioni delle N.U., dato che questo in particolare è il punto che mi è stato chiesto di affrontare? Se si svolgesse un’indagine i risultati sarebbero molto interessanti. Non ci può essere una discussione sullo sviluppo senza che essa si concentri sulla globalizzazione e sulla povertà. Il messaggio che la Santa Sede, in qualità di stato osservatore, esprime con chiarezza non è ovviamente un’opinione tecnica, piuttosto esso parte dai dati e dalle approfondite ricerche specializzate disponibili e offre una lettura della situazione in linea con la propria convinzione che l’uomo occupi un posto centrale nella società, “l’uomo in quanto inserito nella complessa rete di relazioni delle società moderne”, per citare la Centesimus Annus, l’uomo con un destino trascendente. Mentre normalmente gli Stati lottano per i propri interessi, la Chiesa sostiene un’economia realmente mondiale che coinvolge tutte le nazioni e tutti i segmenti di popolazione all’interno dei singoli paesi. Questo senso di universalità della Chiesa precede la presente discussione sulla globalizzazione ed è il DNA del messaggio cristiano.
Non penso che la Chiesa sia disposta ad aggiungere una nuova beatitudine a quelle elencate nel Vangelo, “Beati quelli che fanno del profitto il loro scopo”, ma certamente riconosce che la globalizzazione è uno strumento per l’aumento del benessere della famiglia umana, e che il profitto equo va bene. Comunque i liberi mercati nazionali e i mercati globalizzati hanno bisogno di regole e leggi che li indirizzino verso il bene comune. Dal tempo dei famosi radiomessaggi di Pio XII c’è la consapevolezza, molto difficile da tradurre in pratica, che un mercato globale necessiti di accordi internazionali e di organismi internazionali. Dall’altra parte per ottenere un andamento corretto del libero mercato in direzione del bene comune questi organismi devono tener conto delle forze intermedie della società civile, della realizzazione del principio di sussidiarietà e del senso di equilibrio per esempio, nel caso del commercio, fra dimensione del provvedimento e accordi multilaterali.
Come passo logico successivo, l’approccio della Chiesa all’economia tiene conto dell’impatto dei meccanismi e dei processi economici sui paesi poveri e sul loro sviluppo e, come già detto, della necessaria contestualizzazione di questi meccanismi sulla base dei principi e delle motivazioni etiche. Trovo interessante sottolineare l’evoluzione dottrinale della dottrina sociale della Chiesa dall’Enciclica di Papa Leone XIII “Rerum Novarum”. L’evoluzione segue due direzioni: in termini di contenuti – dai problemi dell’industrializzazione a quelli dello sviluppo e di un ordine generale economico, sociale e politico giusto -; in termini di destinatari – dalla gerarchia ecclesiastica a tutti i cristiani, a tutte le religioni e a tutti gli uomini e donne di buona volontà -. Questo sviluppo contiene in sé una rilevanza evidente per la presenza della Chiesa nell’arena internazionale: una collaborazione mondiale basata su principi etici che derivano dall’antropologia cristiana può rispondere alle sfide della globalizzazione e renderla una forza positiva generalmente accettabile.
La rapidità dei cambiamenti testimoniati a livello internazionale e l’insorgere di nuove variabili, come l’influenza dei mercati finanziari, come è già stato menzionato, il persistente divario fra ricchi e poveri, la solidarietà fra generazioni – e questo è un nuovo argomento che bisogna affrontare soprattutto nei paesi occidentali -, la protezione dell’ambiente sono tutti elementi che ci ricordano quello che la Centesimus Annus dice a proposito del futuro della dottrina sociale della Chiesa: “In questo campo rimane molto da fare” (n. 58).
Pertanto la riflessione della comunità cristiana, delle università e dei pastori deve portare avanti la tradizione sviluppando nuove intuizioni. Dobbiamo andare avanti. In questo panorama generale, la Santa Sede affronta le questioni economiche, occupazionali e relative alla povertà e le questioni sociali in generale elaborando adattamenti specifici e costruendo su questi fondamenti una visione più ampia, “tutto quell’ordine onnicomprensivo della società nel quale le imperfezioni e le difficoltà della libertà economica vengono corrette dalla legge e nel quale all’uomo non vengono negate condizioni di vita adeguate alla sua natura” ( Wilhelm Röpke, “A Humane Economy: The Social Framework of the Free Market”).
4. Non esiste una combinazione perfetta fra la filosofia del sistema delle N.U. e quella della dottrina sociale della Chiesa. Desidero ricorrere a tre osservazioni per dimostrare un rapporto che non è privo di qualche ambiguità. La prima, anche se espressa con un linguaggio differente si può trovare spesso una convergenza di obiettivi fra le aspirazioni degli stati e i programmi delle N.U. che le esprimono e la dottrina sociale della Chiesa. Questo è piuttosto evidente se parliamo della lotta alla povertà. La Conferenza Mondiale sui Diritti Umani del 1993 afferma che “la povertà estrema e l’esclusione sociale costituiscono una violazione della dignità umana…è essenziale che gli Stati promuovano la partecipazione dei più poveri al processo decisionale della comunità alla quale appartengono…” (n. 25). Nel 1995 il Summit Mondiale per lo Sviluppo Sociale dichiara nuovamente l’impegno da parte dei governi e delle nazioni “a promuovere lo sviluppo sociale in tutto il mondo così che tutti gli uomini e le donne, soprattutto quelli che vivono in condizioni di povertà, possano esercitare i loro diritti, utilizzare le loro risorse e condividere le responsabilità che permettano loro di condurre una vita soddisfacente e di contribuire al benessere delle loro famiglie, delle loro comunità e dell’intero genere umano. Il sostegno e la promozione di questi sforzi deve essere l’obiettivo principale della comunità internazionale, soprattutto per ciò che concerne coloro che soffrono per la povertà, la disoccupazione e l’esclusione sociale” (n. 9). Questo tipo di linguaggio si ripete regolarmente nelle risoluzioni del nuovo Consiglio per i Diritti Umani. La prospettiva della Santa Sede lascia comunque sempre la porta aperta alla trascendenza e, direi, è più umanitaria e incentrata sulla persona. Punti di vista divergenti possono esistere per quanto riguarda i mezzi da impiegare per raggiungere obiettivi comuni come risultato della comprensione della persona umana più completa della Chiesa, e alcuni di questi disaccordi sono ben noti.
La convergenza di obiettivi è particolarmente significativa quando si parla di Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Dato che l’economia moderna è sempre più basata sulla conoscenza, la persona umana, con la sua creatività e capacità innovativa, diventa una risorsa indispensabile. La storia della difesa dei diri
tti dei lavoratori da parte dell’OIL si muove sulla stessa linea osservata dal Compendio della dottrina sociale della Chiesa (n. 340), secondo cui “consentendo alla persona che lavora di crescere, si favorisce una maggiore produttività ed efficacia del lavoro stesso. L’impresa deve essere una comunità solidale non chiusa negli interessi corporativi”. La Centesimus Annus di Giovanni Paolo II ha costituito un fattore importantissimo nella chiamata rivolta al lavoratore dell’economia di oggi a diventare protagonista. Scrive infatti, come ha già citato il Dott. Belli, “Se un tempo il fattore decisivo della produzione era la terra e più tardi il capitale, inteso come massa di macchinari e di beni strumentali, oggi il fattore decisivo è sempre più l’uomo stesso, e cioè la sua capacità di conoscenza che viene in luce mediante il sapere scientifico, la sua capacità di organizzazione solidale, la sua capacità di intuire e soddisfare il bisogno dell’altro” (n. 32). Si tratta di una nuova prospettiva nel rapporto fra lavoro e capitale dove finalmente il soggetto è più importante dell’oggetto. Perciò, quando l’Enciclica considera un’impresa commerciale come una “società di persone”, essa invita a stare in guardia contro l’outsourcing (la cessione all’esterno di attività precedentemente svolte internamente all’azienda, attraverso la delega a terzi, ndr), che mentre può portare benefici ai paesi in via di sviluppo, può indebolire i diritti dei lavoratori e il potere delle associazioni di lavoratori.
L’Enciclica invita alla cautela anche nei confronti del rischio che questa economia basata sulla conoscenza lasci indietro troppe persone. Il Papa aggiunge: “…oggi molti uomini, forse la grande maggioranza, non dispongono di strumenti che consentono di entrare in modo effettivo ed umanamente degno all’interno di un sistema di impresa, nel quale il lavoro occupa una posizione davvero centrale” (n. 33). In questo contesto un punto sul quale la Santa Sede insiste nelle discussioni sullo sviluppo è la creazione di posti di lavoro, di posti di lavoro decenti come modo per uscire dalla povertà e dall’emarginazione. Penso che la creazione di nuovi posti di lavoro stia diventando sempre più importante nel tentativo di aiutare i paesi in via di sviluppo a diventare più autonomi, perché una volta creati posti di lavoro l’intero meccanismo dell’economia si mette in moto.
5. La seconda osservazione riguarda l’influenza reciproca fra il sistema delle N.U. e la dottrina sociale della Chiesa. Il progresso compiuto dagli Stati nei loro accordi multilaterali e nella formulazione congiunta di obiettivi influenza lo sviluppo della dottrina sociale della Chiesa e, ci si augura, viceversa. La dottrina sulla guerra e la pace è stata influenzata dai recenti eventi internazionali, distinti da conflitti etnici e religiosi, interventi umanitari o la responsabilità di proteggere e le nuove aspettative nei confronti delle organizzazioni internazionali. La non-violenza e il perdono sono entrati a far parte del vocabolario della pacificazione e la pace viene intesa come qualcosa di più dell’assenza di guerra. La Centesimus Annus amplia l’orizzonte: “Alle radici della guerra ci sono in genere reali e gravi ragioni: ingiustizie subite, frustrazioni di legittime aspirazioni, miseria e sfruttamento di moltitudini umane disperate, le quali non vedono la reale possibilità di migliorare le loro condizioni con le vie della pace…Per questo, l’altro nome della pace è lo sviluppo. Come esiste la responsabilità collettiva di evitare la guerra, così esiste la responsabilità collettiva di promuovere lo sviluppo” (n. 52).
L’enfasi posta dall’Enciclica sull’azione collettiva si estende ad alcune violazioni estreme dei diritti umani e si può presumere che le diverse posizioni prese dalla Santa Sede sull’argomento abbiano avuto un certo impatto sulla Commissione delle N.U. sull’Intervento e la Sovranità Nazionale (2001). La presenza di attori diversi dagli Stati nei conflitti, che spesso si richiamavano a identità etno-religiose, la legittimazione degli interventi umanitari, l’attenuazione della sovranità e gli eventi di globalizzazione e di unilateralismo americano nella guerra al terrorismo, tutto questo ha contribuito all’insistenza sempre maggiore da parte della Santa Sede sul diritto internazionale e sul rafforzamento delle Nazioni Unite. (Drew Christiansen)
6. La terza osservazione riguarda il lato negativo di questo rapporto. Mentre il sostegno e la legittimazione fornita dalla Santa Sede alle NU sono stati un tema costante nella dottrina sociale della Chiesa, e le influenze reciproche e le convergenze sono ugualmente evidenti, resta una differenza filosofica critica che ultimamente sembra aumentare. Forse posso riassumerla dicendo che la cultura istituzionale delle N.U. guarda più agli individui mentre la Chiesa guarda più alle persone anche quando parla di individui.
Nel primo caso l’obiettivo di piani, azioni, sviluppi culturali è egocentrico perché l’individuo è un’entità chiusa in se stessa, autonoma. La persona invece è aperta agli altri; è un soggetto relazionale. E’ soggetta a decisioni morali e cresce per mezzo delle proprie azioni. Sono in gioco due direzioni opposte: l’amore per gli altri (n. 58) e l’amore per se stessi ed entrambe le forme di amore condizionano atteggiamenti e decisioni che riguardano la globalizzazione, la povertà e la politica. Se il rapporto con gli altri viene interrotto scompare il senso e il dovere di solidarietà e la mentalità del consumatore ha il sopravvento spingendo ad usare cose e situazioni per la propria soddisfazione personale. Nella sua dottrina sociale la Chiesa si è mossa verso orizzonti più ampi. Papa Benedetto XVI nella Sua Enciclica “Deus Caritas Est” scrive: “Chiunque ha bisogno di me e io posso aiutarlo, è il mio prossimo. Il concetto di prossimo viene universalizzato” (n. 15). Universale e concreto, l’amore cristiano rimane la via principale che sconfigge la povertà e fa della globalizzazione uno strumento efficace del progresso equo.
A conclusione di queste mie poche riflessioni probabilmente discontinue e incomplete è d’obbligo spendere una parola sulle opportunità che la globalizzazione presenta nell’arena internazionale. La riflessione sociale cristiana offre una serie di linee guida fondamentali per il dialogo con l’economia moderna, linee guida che sono certamente valide al di là dei confini stessi della Chiesa e che aiutano a vincere la tentazione costituita dal potere egoistico negli interessi particolari. La Chiesa tiene vivo un “inarrestabile senso di solidarietà di tutti i popoli” e che può servire da coscienza critica di una globalizzazione culturale ed economica che necessita costantemente di rimanere in equilibrio fra l’impegno a promuovere la libertà e il riconoscimento che siamo tutti membri della famiglia umana nei confronti della quale abbiamo una responsabilità collettiva.
Per finire, potrebbe non essere fuori luogo guardare alla globalizzazione come a una praeparatio evangelica. Tramite la tecnologia informatica e l’influenza del mercato la nascita di una nuova koiné culturale potrebbe rivelarsi un terreno fertile dove seminare la Parola del Vangelo, che ancora oggi ci parla di una nuova vita.
Grazie.
[Traduzione del testo originale in inglese a cura di ZENIT]