A poco meno di un anno dall’elezione di papa Francesco, la Chiesa è entrata in una vera e propria “stagione conciliare”. Vuoi per il rilancio di quel cristianesimo della misericordia che fu proprio del beato papa Giovanni XXIII, vuoi per le riforme strutturali che l’attuale pontefice sta portando avanti.

Ne è convinto monsignor Bruno Forte, teologo di fama internazionale e arcivescovo di Chieti-Vasto. A colloquio con ZENIT, monsignor Forte ha tracciato un bilancio di questo primo anno di pontificato di papa Bergoglio, individuandone continuità teologico-dottrinali con il magistero di Benedetto XVI, assieme a innovazioni sul piano pastorale e della comunicazione.

Eccellenza, poco più di un anno fa, papa Benedetto XVI annunciava al mondo la sua rinuncia al ministero petrino. Lei come ha vissuto quel momento spartiacque nella storia della Chiesa?

Mons. Bruno Forte: La scelta di papa Benedetto non poteva essere motivata che da una sola ragione: la lettura di fede che ha guidato il suo cammino. Si può dire che il senso del pontificato di Benedetto XVI è stato quello di una riforma spirituale della Chiesa alla luce del primato di Dio. Non ebbi nessun dubbio, quindi, fin dal primo istante, che nella scelta di papa Ratzinger ci fosse la volontà di obbedire a Dio, nel senso che egli stesso aveva spiegato nella Deus caritas est, quando dice che noi dobbiamo servire con tutto ciò che Dio ci ha donato, nella misura in cui Egli ce ne dà la forza e la possibilità: “È Dio che governa il mondo, non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza” (n. 35). In altre parole, la mistica di servizio di papa Benedetto è una mistica che prevede anche la disponibilità a Dio nel riconoscere il venir meno di quelle forze necessarie per il servizio richiestoci, in particolare per un servizio così oneroso e di grandissima responsabilità come quello del Vescovo di Roma. Mi parve chiaro, quindi, che si trattava di un messaggio di straordinaria forza spirituale, perché papa Benedetto in questa rinuncia concretizzava nella maniera più alta il messaggio di tutto il suo pontificato: Dio viene prima di tutto e a Lui bisogna obbedire, servendolo con tutto il nostro cuore e le nostre forze, finché Lui ce ne dà la forza. Quando le forze vengono meno, è segno che Dio ci chiede un altro tipo di servizio che, come in Giovanni Paolo II fu quello della sofferenza e dell’ultimo silenzio, in papa Benedetto è quello della preghiera e del silenzio, tra le mura del monastero Mater Ecclesiae, nei Giardini Vaticani.

Un mese dopo arrivò l’elezione di papa Francesco…

Mons. Bruno Forte: Ci fu certo subito l’elemento di sorpresa per il mondo intero, anche per la rapidità del conclave. È straordinario come, nel giro di poco più di una giornata, questo Collegio abbia saputo dare alla Chiesa un nuovo papa e – soprattutto – questo papa. Credo si tocchi con mano come il soffio dello Spirito agisca in scelte come quella che il Conclave è chiamato a fare. La cosa che davvero mi colpì fu il fatto che papa Francesco si presentasse con uno stile di assoluta umiltà e semplicità: lo fece chiedendo la preghiera e la benedizione del popolo di Dio; dicendo, un po’ scherzosamente, di essere “venuto dalla fine del mondo”; il tutto con un tono profondamente umano che, al tempo stesso, faceva trasparire la spiritualità ignaziana del vivere ogni cosa alla presenza di Dio. Lo ha poi testimoniato lo stesso Francesco, raccontando come al momento dell’accettazione si è sentito inondato da una grandissima pace, per aver compiuto la volontà di Dio.

Tutto questo ci dice che Dio ha donato alla Chiesa il papa di cui essa aveva bisogno anzitutto nello stile e nel modo di comunicare. Quello che è evidente è che, nei contenuti profondi, c’è un’assoluta continuità tra Benedetto e Francesco. Cambiano gli stili, perché cambiano le persone. A una personalità fondamentalmente timida come è papa Benedetto, segue una personalità naturalmente comunicativa, che ha il senso dell’immediato rapporto umano, attraverso il quale passa anche il soffio del Vangelo, la tenerezza di Dio, la sua misericordia.

Quella che papa Francesco ereditava, era una Chiesa che, con i pontificati precedenti, aveva avviato anche grandi riforme spirituali, ma è anche una Chiesa che si ritrova immersa nel nostro mondo, il mondo del “villaggio globale”, in cui c’è un immenso bisogno di sentirsi toccati dalla misericordia, dalla tenerezza e – oserei dire – dalla “umanità” di Dio, attraverso uno sguardo di accoglienza, di fiducia, di tenerezza e di misericordia da parte del ministro di Dio, nel caso specifico del Vescovo di Roma. Papa Francesco ha incontrato questo bisogno nella maniera più alta.

Taluni accusano papa Francesco di avere un profilo troppo pastorale e poco teologico, oltre che di essere debole sulla morale cattolica, in particolare sull’etica della vita e della famiglia. Sono critiche sostenibili?

Mons. Bruno Forte: Mi sembra un’affermazione falsa, innanzitutto perché papa Francesco ha un background formativo e culturale di tutto rispetto: i suoi studi di teologia e di filosofia in Argentina, poi proseguiti in Germania, costituiscono un bagaglio culturale di grande spessore. Basti pensare alla conoscenza che Bergoglio ha di Romano Guardini, questo straordinario pensatore italo-tedesco che brilla nel ‘900 teologico, filosofico e spirituale come una vera stella e che il Papa cita nella Evangelii Gaudium. È falso quindi pensare che papa Francesco non abbia spessore teologico: ne sono prova la sua formazione culturale e teologica, la sua identità gesuitica, la sua spiritualità della reverentia che porta a riconoscere – sulla scia degli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio di Loyola – il Dio da riverire in tutto ciò che esiste.

Mi sembra azzardato e falso anche il giudizio su una presunta disattenzione ai valori fondamentali: una cosa è il contenuto della fede – su cui questo papa non transige, come non transigeva papa Benedetto – una cosa è il linguaggio espressivo e comunicativo di esso. Non è detto che il linguaggio della fede debba essere sempre e solo un linguaggio verbale o definitorio. Può anche essere un linguaggio fatto di gesti che comunicano con la potenza del simbolo, a volte molto più della parola stessa. È un po’ il linguaggio che spesso ha usato Gesù, fino al segno supremo della morte in Croce e della sua Resurrezione, che spiega la sua divinità molto più di qualunque parola.

Papa Francesco ha questa capacità di parlare attraverso i gesti: il valore della vita, ad esempio, viene da lui affermato con la straordinaria tenerezza che dimostra nei confronti dei fragili, dei deboli, dei malati, dei piccoli. Una tenerezza che si giustifica soltanto in chi considera la vita, anche nelle sue espressioni più fragili, come un dono di assoluta grandezza, da rispettare e promuovere a tutti i livelli e in tutte le sue fasi. Anche a livello di contenuti verbali, poi, dalle omelie del mattino a Santa Marta, fino ai testi magisteriali, ad esempio la Lumen Fidei e la Evangelii Gaudium, siamo davanti un magistero tutt’altro che debole o di poco contenuto. Siamo di fronte a una straordinaria ricchezza di messaggi, a una pluralità di stili, di modi e di forme che nel loro insieme costituiscono un ricchissimo patrimonio di fede e di conoscenza. Chi giudica debole o fragile il pensiero di questo papa, o non l’ha capito o non lo vuol capire e soprattutto non è attento alla complessità dei linguaggi che il Papa usa e, soprattutto, alla forza dei contenuti che esprime.