Qualcuno ha paragonato la rivolta delle periferie romane e milanesi con quella della “banlieu” francese: al di là dei modi in cui si manifesta la violenza, che nel caso delle sommosse di quartiere sono inevitabilmente simili, la differenza non potrebbe risultare più evidente: a Parigi insorgono gli immigrati, a Roma insorgono gli Italiani.

Nell’un caso, dunque, chi è collocato sull’ultimo gradino della scala sociale dimostra la propria disperazione, chiedendo – anche se in modo sbagliato – che gli sia resa giustizia; nell’altro caso i disordini vengono scatenati da chi viceversa si trova sul penultimo scalino, e vede come un concorrente, un rivale, ed in ultima istanza un nemico il nuovo arrivato, e teme che questi lo privi del poco che gli rimane.

A questo punto, occorre però porsi una domanda: nella graduatoria dei problemi che affliggono i borgatari, si può affermare che gli immigrati vengono al primo posto? La risposta, espressa da tutti gli osservatori, ciascuno dei quali ha valutato la situazione dal punto di vista dell’una o dell’altra disciplina, dalla sociologia alla psicologia, dall’economia alla criminologia, è unanimemente negativa.

Gli abitanti della periferia di Roma soffrono per la carenza di servizi sociali, per la lontananza e l’inaccessibilità delle scuole e degli ospedali, per la mancanza dei trasporti, per il degrado delle abitazioni: tutte quante conseguenze, più o meno dirette, della contrazione della spesa pubblica.

La riduzione del “welfare” colpisce le condizioni di vita molto più della presenza degli immigrati, specie di quelli concentrati nei centri di accoglienza. Non si può negare che in molti casi gli immigrati tengano dei comportamenti devianti, ma non si spiega per quale motivo i quartieri dove si è passati alle vie di fatto contro di loro non siano i più colpiti dalla diffusione della criminalità.

Prima di vedere chi e perché soffia sul fuoco, facendo credere che il peggioramento nella qualità della vita sia dovuto all’immigrazione dall’estero, giova soffermarsi sulla condizione umana delle periferie.

La crisi, di per sé dannosa e dolorosa, può tuttavia offrire una occasione per rinsaldare i vincoli di solidarietà, per ritessere un tessuto sociale che non esiste più da tempo, e che anzi – nel caso delle borgate romane – non è mai esistito.

Il tessuto sociale non si stabilisce per caso, ma è generato da una condivisione di valori, da uno spirito comunitario che può trovare la propria ragion d’essere o nel sentimento religioso, o in quello civico, o in quello politico.

Un tempo, esistevano i partiti di massa, che oggi sono spariti sia perché è venuta meno la coesione delle classi, l’unità tra quanti condividevano cioè lo stesso tipo di lavoro, e ne traevano l’orgoglio di riconoscersi in una identità collettiva, che veniva da un passato di più generazioni e si proiettava nel futuro attraverso la condivisione di un comune sentire, di un comune progetto di giustizia. Tutto ciò è finito quando ha cominciato a declinare la classe operaia. Il discredito in cui sono caduti i partiti politici ha fatto il resto.

Rimarrebbe la religione, ma le parrocchie non vanno molto spesso al di là della distribuzione degli aiuti, sono ridotte al livello di un supermercato dove la merce viene distribuita gratuitamente,  ma vi manca quasi del tutto quel senso comunitario che può essere determinato da una fede condivisa.

Ed allora si spiega come il popolo delle borgate decada al livello di quello che il Machiavelli chiamava spregiativamente “vulgo”, sprovvisto di propri criteri condivisi di discernimento, e proteso soltanto ad ascoltare i demagoghi pronti a dargli in pasto dei capri espiatori.

Ecco allora gli immigrati, in origine costituenti un problema in buona sostanza marginale, indicati come causa di ogni male possibile. E poiché la loro presenza è assolutamente ineliminabile, chi vuole promuovere l’instabilità ed il disordine li addita come causa di ogni genere di mali: di quei mali che, se fossero messi al primo posto per gravità e pericolosità sociale, causerebbero delle rivolte non contro i più deboli ed emarginati, bensì  contro il potere. Il dovere dell’accoglienza rimane un punto fermo, unito però con il pieno rispetto del principio di legalità, sia sul piano dei principi, sia nella prassi giuridica quotidiana.

A parole, tutto ciò è facile: non lo è altrettanto vivere coerentemente questi principi in situazioni di estremo degrado e disagio sociale, tra l’incudine di chi rivendica i fondamentali diritti umani ed il martello di chi – individuato un nemico – vuole scatenare nei suoi riguardi la violenza. L’unica voce che si leva con forza e con coerenza questi principi è quella del Papa.

In fondo, ci ammonisce il Pontefice, nulla può turbare la nostra convivenza se riusciamo a regolarla secondo il Vangelo. La xenofobia, anche quando si ammanta della difesa dell’Occidente, dell’italianità o della civiltà cristiana, è sempre incompatibile col Vangelo. La sopravvivenza dell’identità cristiana dell’Italia non dipende da un ipotetico scontro con la cultura propria degli immigrati: dipende invece dalla prospettiva esattamente opposta, dalla capacità di convivere in una comunità aperta verso ogni differenza, solidale verso ogni necessità di ciascuno.