A queste ed altre domande ha cercato di rispondere Joseph Weiler, ebreo, giurista e esperto di diritto, direttore dello Strauss Institute for the Advanced Study of Law and Justice e condirettore del Tikvah Centre for Law & Jewish Civilization della New York University.

Lo ha fatto nel corso di due incontri che si sono svolti al Meeting di Rimini il 19 e 20 agosto.

Le prima domanda a cui rispondere è stata: Perché Gesù provocò a tal punto le autorità ebraiche da incorrere nella condanna a morte?

Secondo il giurista Gesù compì azioni che provocarono sacerdoti e leviti. Per gli ebrei il Tempio di Gerusalemme costituiva l’unico luogo di sovranità. Quando il Nazareno scacciò venditori, compratori di animali e cambiavalute, i sommi sacerdoti e gli scribi – è scritto nel Vangelo – “volevano farlo morire”.

Ad una prima lettura si può immaginare che sacerdoti e leviti si sentono minacciati perché vivevano grazie alle offerte, e perché Gesù li avrebbe accusati implicitamente di corruzione chiamando il tempio “una spelonca di ladri”.

Per Weil però la sfida è ad un livello superiore, perché nel Tempio Gesù guarisce i ciechi e gli storpi.

“Nella cultura ebraica – ha spiegato – la malattia è segno del peccato. Per ottenere perdono dei peccati l’ebreo offriva un sacrificio espiatorio. Molti degli animali da sacrificare erano comprati al tempio. Con il suo comportamento Gesù pone fine ai sacrifici con gli animali che si svolgevano nel Tempio.

Inoltre nei confronti del Tempio Gesù disse che lo avrebbe distrutto e riedificato in tre giorni.

Gesù sfidò i sacerdoti Sadducei e Farisei nell’interpretazione del riposo del sabato. I discepoli del Nazareno affamati che raccolgono le spighe nel giorno di sabato, e le parole di Gesù “Il figlio dell’uomo è signore anche del sabato”, sono percepite dai sacerdoti come tentativi di cambiare la legge di Dio.

Farisei e Scribi sono scandalizzati dal Nazareno che mangia con peccatori e pubblicani. Gesù risponde in una maniera che va oltre i confini dei precetti e cioè: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”.

Indagando sulle motivazioni dell’ostilità del Sinedrio nei confronti di Gesù, il giurista ha ricordato che Caifa, esasperato dai silenzi del Cristo, gli chiese: “sei il Messia” e Gesù rispose “lo sono”. Caifa si stracciò le vesti e lo accusò di “bestemmia”.

Per Weiler la cosa è strana perché il termine “bestemmia” non esiste né in ebraico né in aramaico.

Negli atti degli Apostoli (6,14) è scritto che Gesù fu condannato a morte perché intendeva “mutare gli usi che Mosè ci ha tramandato”, in palese contraddizione con il passo del Deuteronomio (12,13) in cui si dice “Avrai cura di mettere in pratica la Legge che ti comando, non aggiungerai né toglierai nulla”.

“Il Sinedrio – ha precisato Weiler – crede che il Nazareno sia colui che sta tentando di cambiare la legge, per questo è stato condannato a morte”.

Quando si passa a cercare di comprendere il significato teologico, cioè le ragioni per cui il Creatore ha accettato la morte in croce di Gesù, le cose diventano più complicate.

Ha ipotizzato Weiler: la morte di Gesù è funzionale a lavare i peccati degli uomini. Anche se uccidendolo qualcuno stava peccando. Ed in ogni caso affinché la redenzione si realizzi qualcuno doveva necessariamente infrangere la legge.

Per il giurista Gesù è innocente in quanto messaggero di Dio, d’altra parte chi lo mette a morte non è colpevole perché il Sinedrio così facendo rispetta la Legge.

In questo contesto Weiler ha sostenuto: all’ebreo posso dire “se non accetti che Dio abbia deciso di rivelarsi al mondo tramite Gesù, hai un concetto di Dio troppo meschino” e al cristiano posso dire “se insisti che gli ebrei abbandonino la loro Legge, tu fai di Dio un capriccioso”.

D’altro canto, ha spiegato il giurista “non c’è nulla nella fede ebraica che ci obbliga a dichiarare falsa ogni altre manifestazione di Dio al resto del mondo”.

Alle due relazioni di Weiler sono seguite innumerevoli domande e considerazioni da parte del numerosissimo pubblico.

In conclusione don Stefano Alberto, moderatore dei due incontri ha spiegato che il Meeting “non è un posto dove ci si mette d’accordo, ma un luogo dove da ‘poveri cristi’ come siamo tutti, cerchiamo realmente la verità”.

Nella diversità delle storie e delle appartenenze “cerchiamo di farci una vera compagnia al destino ultimo che è la gloria di Dio”.