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Visitare i carcerati: la sesta opera di misericordia corporale

Visitare i prigionieri si trasforma nell’uscire dal guscio delle consuetudini della vita per passare più tempo con chi oggi è intrappolato nella sofferenza o nella solitudine

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Le opere di misericordia corporali sono azioni concrete compiute verso l’emarginato e lo scartato della società che hanno principalmente la finalità di restituire dignità umana agli esclusi. Visitare i carcerati è un esempio eloquente dell’andare a cercare coloro che hanno commesso qualche colpa e sono alla ricerca di un riscatto umano e sociale attraverso un cammino di consapevolezza del male commesso, del recupero psichico e spirituale e di una preparazione ad un pieno reintegro nella società.
L’opera di misericordia di visitare i carcerati non ha come raggio d’azione esclusivamente le mura di un istituto penitenziario, le case circondariali, i carceri minorili o le case di accoglienza protette per giovani mamme o giovani disagiati. Il carcere, prima di essere un ambiente fisico, è una situazione esistenziale nella quale l’animo dell’uomo vive relegato a causa del male commesso. Tutti siamo peccatori, anche l’uomo più giusto sbaglia sette volte al giorno come dice la Scrittura; la contaminazione del male raggiunge tutti gli uomini che abitano sulla terra. Questa constatazione sulla fragilità e sulla debolezza umana è il giusto slancio per comprendere e perdonare il male commesso dell’altro, perché noi stessi siamo peccatori e conosciamo benissimo le dinamiche del peccato, le sue conseguenze dolorose, il tragico distacco che determina nelle relazioni interpersonali e il senso di abbandono e di solitudine che lentamente produce.
Davanti a questa drammatica situazione è comprensibile come il carcere sia una metafora dell’uomo prigioniero del male commesso. Visitare i carcerati significa allora visitare la vita di tante persone che incontriamo nelle nostre giornate, per portargli lo stesso annunzio di speranza che Gesù ha rivolto nella sinagoga di Nazareth ai suoi concittadini: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e per predicare un anno di grazia del Signore (Lc 4,18-19)”.
Queste parole sono il discorso programmatico della missione di Gesù e rappresentano da sempre il riferimento dell’agire di ogni discepolo di Cristo. Prima di tutto, compiere il gesto di visitare un carcerato è una azione suggerita dall’unzione dello Spirito Santo. Lo spirito di mondanità ci conduce a vivere una vita tranquilla, un vita alla ricerca della soddisfazione personale, delle sicurezze umane, delle comodità e del benessere che spesso si trasformano in barriere che ci impediscono di vedere il disagio e il malessere dell’altro.
I programmi televisivi sino a tarda ora, i tanti canali video tematici, la possibilità di essere sempre connessi ad internet, comunicare attraverso i social qualunque azione o stato d’animo con qualunque persona che sia on line in quel momento, sono tutte prigioni costruite dall’uomo stesso nella quali si cercano libertà e serenità, ma quando si abusa di esse si trasformano in celle dorate buie e fredde che precludono a relazioni autentiche con le persone.
Proclamare la liberazione dei prigionieri non è attuabile attraverso un discorso preparato a tavolino, ma si realizza donando tempo, ascolto ed attenzioni a coloro che vivono la loro condizione di solitudine. Ma chi sono i prigionieri di oggi? Gli anziani che vivono la solitudine e delle volte l’abbandono nelle loro case, i bambini condannati a rinunziare all’affetto del padre o della madre perché vittime incolpevoli della separazione dei loro genitori, i giovani costretti a vivere ancora nella casa paterna perché non hanno un lavoro o, nelle migliori delle ipotesi, ne hanno uno precario che non li consente di abitare da soli. E ancora, i tossicodipendenti e gli alcolisti rimasti intrappolati all’interno dei paradisi artificiali che accrescono progressivamente lo stato di disperazione e di solitudine, i migranti ed i profughi che hanno lasciato la loro terra martoriata dalla fame e dalla guerra per trovarsi in un luogo di alloggio malfamato, precario e pericoloso.
Qual’è la chiave per aprire le porte di queste carceri e restituire libertà e dignità ai tanti oppressi dei nostri tempi? La risposta è semplice ma la cecità interiore ci impedisce di vedere e comprendere le possibili soluzioni. Essere portatori ed annunziatori della misericordia di Dio attraverso un impegno concreto, significa diventare insieme allo Spirito Santo, portatori di quella grazia che non si esprime solo con  parole e discorsi, ma con l’accoglienza, la condivisione, l’ascolto e la solidarietà.
Visitare i prigionieri si trasforma allora nell’uscire dal guscio delle consuetudini della vita per passare più tempo con il proprio figlio che sta soffrendo nel periodo dell’adolescenza, cercare di rinvigorire il rapporto tra marito e meglio che sempre necessità di attenzione reciproca, visitare i nonni per condividere il proprio tempo e coinvolgerli negli appuntamenti gioiosi della vita familiare, aprire le porte per l’accoglienza ai tanti migranti che attendono di avere quella dignità che nasce dallo stare insieme.
Visitare i carcerati significa ricordarsi di non lasciare solo il cappellano carcerario, le associazioni ed i volontari che dedicano il loro tempo e le loro energie per ascoltare le storie di uomini e donne che hanno commesso errori nella vita, già lasciati soli dalla famiglia o dalla società che non ha offerto loro un’istruzione adeguata, una formazione professionale e un lavoro dignitoso.
Ascoltare, comprendere ed accogliere con cuore misericordioso, elimina il rischio del giudizio perché aiuta a riflettere come sia difficile vivere in certi contesti di vita. Quindi visitare i carcerati è una opera di misericordia non solo da donare agli altri ma riguarda anche noi stessi: solo crescendo nella conoscenza e nell’accoglienza della misericordia di Dio possiamo diventare noi stessi strumenti, portatori e testimoni veritieri dell’amore di Dio.

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Osvaldo Rinaldi

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