Il poeta Wojtyla nei ricordi del cardinale Poupard

Il Papa: “Una cultura si misura dall’immagine che essa dà dell’uomo”

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di Mariaelena Finessi

FIRENZE, lunedì, 11 aprile 2011 (ZENIT.org).- Originale meditazione sul destino dell’uomo, il “Trittico Romano” è uno dei più importanti testi poetici di Karol Wojtyla, uscito nel 2003 e riproposto al pubblico, di fedeli e amanti della letteratura, nel Cenacolo francescano della basilica di Santa Croce a Firenze lo scorso 29 marzo, nell’ambito di una conferenza organizzata dallo Studio teologico per laici e dall’Opera di Santa Croce insieme alla Società dantesca e alla Fondazione Il Fiore.

Un’occasione per ripercorrere la vita e le opere del poeta Karol, anche in vista della sua beatificazione il prossimo primo maggio, carpire l’origine della sua ispirazione e la fonte della sua lirica attraverso un’analisi critica del “Trittico”, affidata a Maria Grazia Beverini Del Santo, presidente della Fondazione Il Fiore. A raccontare invece la passione culturale del pontefice polacco, il cardinale Paul Poupard, presidente emerito del Pontificio Consiglio per la cultura, che di Wojtyla è stato per anni uno stretto collaboratore.

Quello di Giovanni Paolo II è stato un pontificato «caratterizzato sin dai primi momenti da una convinzione profonda, maturata a lungo, ossia che la cultura altro non è se non il modo specifico di essere uomo», spiega il cardinale. «È il cammino essenziale per la sua progressiva umanizzazione. E la promozione della cultura, e del dialogo tra questa e la Chiesa, diventa un tema portante del suo magistero».

Lo afferma Wojtyla stesso nella lettera di fondazione del Pontificio Consiglio per la cultura, nella quale così scrive: «Esiste una dimensione fondamentale, in grado di consolidare o di scuotere fin dalle fondamenta i sistemi che strutturano l’insieme dell’umanità, e di liberare l’esistenza umana, individuale e collettiva, dalle minacce che pesano su di essa. Questa dimensione fondamentale è l’uomo, nella sua integralità. Ora l’uomo vive una vita pienamente umana grazie alla cultura».

Il giovane cardinale polacco ha fatto della persona il centro della sua riflessione intellettuale e nella prima enciclica, “Redemptoris Mater”, afferma: «L’uomo è il cammino della Chiesa». «Da questa attenzione all’uomo e alla sua esistenza concreta – spiega il porporato -, scaturisce la convinzione che il centro di ogni cultura è l’uomo», tanto che «si può misurare l’altezza morale di una cultura, e delle sue realizzazioni, dall’immagine dell’uomo che appare in essa».

Giovanni Paolo II pone dunque l’uomo e la cultura al centro delle sue riflessioni e dei suoi interventi. Propone la centralità di questo tema già alla prima riunione del Collegio dei cardinali che lui, a sorpresa, riunisce in Vaticano il 9 novembre 1979. «Una bella novità – ricorda Poupard – che lui spiega disinvolto e sorridente: “Meglio riunirci tutti insieme ora senza aspettare la morte del Papa”». E così diceva: «Signori cardinali, non vi è poi sfuggito l’interesse che personalmente e con l’aiuto dei miei diretti collaboratori intendo dedicare ai problemi della cultura, della scienza e dell’arte, campi vitali su cui si gioca il destino della Chiesa e del mondo in questo scorcio finale del nostro secolo».

Rivolgendosi poi agli intellettuali europei, convenuti a Roma il 15 dicembre 1983, Wojtyla ribadisce le sue profonde convinzioni sulla cultura: «Voi ben sapete, illustri Signori, come il problema della cultura in sé, ma ancor più quello del rapporto intercorrente tra fede e cultura, sia stato tra quelli che, come studioso, come cristiano, come sacerdote, come Vescovo e oggi come Papa, ho a lungo meditato alla luce delle mie varie esperienze. (…) Se Cristo, mediante la Redenzione, ha compiuto l’opera della salvezza di ogni uomo e di tutto l’uomo, egli ha redento anche la cultura umana».

Per il pontefice “venuto da lontano” il profondo rispetto della Chiesa per ogni cultura è la necessaria conseguenza del profondo rispetto che Cristo stesso ha per ogni concreta persona, per le condizioni della sua esistenza, per il suo stile e modo di vita. «Ovviamente oltre alla dimensione antropologica – chiarisce il cardinale -, la preoccupazione del Papa: la cultura ha una natura essenzialmente salvifica. Per Wojtyla è viva la coscienza che il Vangelo sia un evento creatore di cultura. “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata e non fedelmente vissuta”. Tre affermazioni impegnative che sintetizzano il pensiero di Giovanni Paolo II».

E la cultura, spiega Poupard a poche settimane dal battesimo del Cortile dei Gentili, «diventa terreno preferenziale d’incontro tra credenti e no». Oggi, in particolare, sebbene «si tratta di riconoscere più atteggiamenti di indifferenza che di ateismo militante». Nel 1993, quando con il Motu proprio “Inde a Pontificatus” si uniscono in un solo dicastero il Pontificio Consiglio per la Cultura e quello per il dialogo con i non credenti, Giovanni Paolo II scrive: «Ho cercato di promuovere l’incontro con i non credenti sul terreno privilegiato della cultura, fondamentale dimensione dello spirito che mette gli uomini in rapporto fra loro e li unisce in ciò che essi hanno di più proprio, la comune umanità».

E l’umanità è ciò che il pontefice ha riversato nelle sue opere poetiche, come nel “Trittico Romano”, scritto durante un soggiorno estivo a Castelgandolfo, in cui è messa in mostra la triplice dimensione di Wojtyla in quanto poeta, filosofo e teologo. La prima stanza, intitolata “Torrente”, è centrata sull’incanto della natura. La seconda, “Meditazioni sulla Genesi – Dalla soglia della Cappella Sistina”, nasce dall’ammirazione per le immagini sulla creazione di Michelangelo. La terza, infine, “Colle nel Paese di Moira”, descrive il cammino di Abramo, il simbolo della fede in Dio.

«La parola vive prima di essere pronunciata»: Maria Grazia Beverini Del Santo ricorda un’espressione dello stesso Wojtyla – tratto dal volume autobiografico “Dono e mistero” (Libreria Editrice Vaticana) -,  per spiegare l’importanza della poesia nella sua vita. In altri termini, questa è la tesi, dentro ciascuno vi è già un mondo che deve essere solo decifrato: «La parola dà all’esperienza spirituale la possibilità di essere comunicata».

«Era un poeta – continua Beverini Del Santo – anche se la figura gigantesca dell’uomo non poteva mettere in prima fila la grandezza del poeta, che pure egli fu». Consapevole di amare la poesia già ai tempi del Ginnasio e, soprattutto, consapevole di avere «la capacità di scriverla», il giovane Karol matura in quegli anni due vocazioni insieme, «l’una anticipa, l’altra segue, ritarda, poi rincorre la prima». Sono la vocazione letteraria e quella sacerdotale.

Nato nel 1920, anno del famoso miracolo della Vistola, quando i polacchi riescono a liberarsi dell’Armata Rossa, Wojtyla «cresce negli anni del nazismo, al quale poi succederà il comunismo ed è nell’abisso del male che si dedicherà alle letture di natura epica. Riconosce alla letteratura e alla poesia – spiega la presidente della Fondazione Il Fiore – la capacità di reagire al dominio nazista, che stava facendo opera di abbrutimento, mirando a privare il popolo della sua identità. Ecco perché amava tanto la letteratura, ecco perché Karol vi si rifugia con tanta passione».

«È vero che molti pontefici prima di lui sono stati dei grandi umanisti nella storia – commenta Baverini Del Santo -. Molti hanno scritto, progettato, protetto artisti ma per lui è diverso. Ha iniziato il suo percorso alla ricerca dell’uomo, l’ha iniziato come poeta e drammaturgo, poi come filosofo e teologo. Per lui la cultura non è mai stata qualcosa di accessorio o successivo ma di connaturante. Come intellettuale complesso è riuscito a mettere insieme un incontro fra tradizione e modernità, e meditare su quello che i poeti riconoscono a se stessi come loro componente necessaria e ineliminabile, ossia quella capacità di stupirsi che tendiamo ad appannare nel corso della nostra vita e che invece ricono
sciamo naturale nei fanciulli, i quali giungono immediatamente e intuitivamente al cuore delle cose».

E proprio nel “Torrente”, prima stanza del “Trittico Romano”, il Papa si sofferma sull’incanto della natura e fondamentalmente sullo stupore che l’uomo prova davanti alla bellezza del torrente che scorre. Successivamente, nasce il bisogno di scoprire la sorgente di tanto stupore. La meraviglia del resto – conclude Baverini Del Santo – è l’impulso primordiale conoscitivo verso la scoperta. «La nostra mente si dirige intenzionalmente verso l’oggetto che si trova fuori di essa – sono le parole di Wojtyla -, e in tal modo acquisisce numerose conoscenze oggettive, ma allo steso tempo l’uomo come scopritore di tanti misteri della natura rimane “un essere sconosciuto”».

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ZENIT Staff

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