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Concilio pan-ortodosso: divisioni antiche e nuove

Cosa ha spinto alcune Chiese a non partecipare allo storico evento dell’Ortodossia? Quali i motivi dei contrasti tra Costantinopoli e Mosca? Una lettura del prof. Morini, esperto del tema

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Era da cinque decenni che rappresentanti delle Chiese ortodosse ci stavano lavorando. E dopo quasi mille anni dallo Scisma d’Oriente del 1054, tra molteplici difficoltà negli ultimi mesi avevano finalmente trovato l’accordo sull’indizione dell’agognato “Santo e Grande Concilio della Chiesa ortodossa”.
Era accaduto a gennaio, nel corso di una riunione a Chabésy, in Svizzera. È qui che i Patriarchi delle 14 Chiese ortodosse autocefale avevano stabilito di svolgere il Concilio a Creta, sotto la giurisdizione di Costantinopoli, con inizio il 19 giugno, festa di Pentecoste per gli ortodossi.
All’approssimarsi di quella data, tuttavia, una coltre di nubi ha iniziato ad addensarsi sopra lo storico evento. Alcune Chiese hanno inopinatamente deciso di non partecipare. E poi, negli ultimi giorni, il Patriarcato di Mosca, che conta circa cento milioni di fedeli, ha chiesto in via ufficiale di rimandare il Concilio proprio a causa della defezione di alcuni. Di tutta risposta il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, che ha il primato d’onore sulle altre Chiese ortodosse, ha annunciato che il Concilio pan-ortodosso si terrà, come stabilito in Svizzera.
Per capire cosa sta accadendo nel “polmone orientale dell’Europa”, ZENIT ha intervistato un esperto di mondo ortodosso: il prof. Enrico Morini, che insegna Storia del Cristianesimo e delle Chiese all’Università di Bologna.
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Prof. Morini, che valore assume la decisione russa?
Era una decisione quasi scontata, dopo la defezione del Patriarcato di Bulgaria. Tanto più che nel frattempo erano intervenute le defezioni dei Patriarcati di Antiochia e di Georgia. Infatti la dinamica stessa, che le Conferenze conciliari preparatorie avevano stabilito per questo concilio, era tutta impostata sul criterio, ravvisato come essenziale, dell’unanimità: si è stabilito infatti che i documenti, per essere promulgati, debbano ricevere l’unanimità dei consensi. Ogni assenza, infatti, inficia questa unanimità, che si è voluta imporre proprio perché la Chiesa ortodossa possa esprimere il suo magistero nella più perfetta unità. Se si considera poi che ad ulteriore salvaguardia di questa unità, si è deciso che i documenti vengano approvati non con il voto di tutti i partecipanti, ma di ogni singola Chiesa (cioè ogni Chiesa ortodossa esprime un voto solo, indipendentemente dalla sua importanza storica, dall’estensione territoriale e dal numero dei fedeli), si capisce come la defezione di quattro Chiese su quattordici rappresenti una pesantissima ipoteca sull’autorevolezza del Concilio stesso, considerando, tra l’altro, che tra gli assenti c’è ora anche una Chiesa, come il Patriarcato di Mosca, che da sola rappresenta più della metà dell’intera Ortodossia.
Oltre a una questione di principio – l’assenza di alcune Chiese ortodosse – dietro la decisione russa sembra forse emergere anche una spaccatura dottrinale tra il Patriarcato di Mosca e il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli?
Non c’è tra Mosca e Costantinopoli alcuna spaccatura dottrinale: sulle questioni di fede c’è, e c’è sempre stata, quella consonanza, sulla quale si fonda l’unità gerarchica e sacramentale della Chiesa ortodossa. Non altrettanto si può dire sul piano geo-ecclesiologico: le rivalità tra le sedi patriarcali c’erano già, per motivi di precedenza, nel V secolo tra Costantinopoli ed Alessandria. Ora l’antitesi tra la preminenza canonica di Costantinopoli, stabilita dai concili ecumenici, e quella di Mosca, per estensione territoriale della sua giurisdizione, numero di fedeli e ruolo nel Paese, ha portato all’elaborazione di due diverse visioni ecclesiologiche. Infatti, mentre Costantinopoli sostiene che l’ordinamento della Chiesa esige sempre una primazialità effettiva – che per motivi storico-canonici spetta al Patriarcato ecumenico (ecco perché viene accusata di “papismo”) -, Mosca riconosce un valore solo onorifico alla primazialità di Costantinopoli e, parallelamente, ridimensiona l’esigenza stessa di una primazialità nella Chiesa, a favore della conciliarità. Ritengo tuttavia che porre in primo piano, nelle formidabili difficoltà che va incontrando questo Concilio, la rivalità Mosca-Costantinopoli – come vanno facendo in questi giorni anche autorevoli commentatori – sia una forzatura.
Secondo Lei quali sono i contrasti che hanno determinato queste defezioni?
Sono contrasti di ordine diverso. Quella macroscopica, perché più grave e più spinosa, è la rottura della comunione ecclesiale tra i due patriarcati apostolici di Antiochia e di Gerusalemme: quest’ultimo ha costituito una nuova diocesi nel Qatar, dove c’è stata una forte immigrazione, per motivi di lavoro, di suoi fedeli, di origine palestinese. Ma il Qatar, nella penisola arabica, è un territorio che appartiene storicamente alla giurisdizione territoriale del Patriarcato di Antiochia. Le altre Chiese ortodosse si sono attivate per una mediazione, ma il tentativo di conciliazione è stato programmato dopo la conclusione dei lavori del Concilio. Come potevano partecipare ad un Concilio, immagine dell’unità della Chiesa, due Chiese non in comunione tra loro? I due Patriarchi, di Antiochia e di Gerusalemme, non avrebbero potuto nemmeno concelebrare la liturgia di apertura del sinodo.
I malumori intorno ai documenti preparatori da promulgare al Concilio sono sorti anche all’interno della sede di Costantinopoli. Penso ad esempio ai vescovi del Monte Athos…
L’affermazione preliminare del documento preparatorio, secondo cui esistono, a fronte dell’Ortodossia, altre Chiese e confessioni cristiane, è stata furiosamente impugnata all’interno del Patriarcato ecumenico dalla comunità monastica del Monte Athos, nella Chiesa greca, da un numero rilevante di vescovi ed ha determinato il rifiuto ufficiale dei patriarcati di Bulgaria e di Georgia di partecipare al Concilio. I contestatori affermano che, poiché la Chiesa è teologicamente una ed è quella ortodossa, non si può attribuire ad altre aggregazioni cristiane il titolo di Chiesa, senza contraddire un articolo fondamentale della professione di fede: “Credo nella Chiesa, una, santa…”. Probabilmente il tumulto mediatico, che si è scatenato, ha indotto queste due Chiese a sconfessare questo documento ed ha indubbiamente avuto un ruolo indiretto la volontà del Patriarcato di Mosca che tutti i documenti preparatori fossero resi noti anticipatamente, per un maggiore coinvolgimento di tutto il popolo di Dio nella preparazione del Concilio.
Malgrado il motivo di contrasto che ha appena spiegato, Lei esclude che quanto sta avvenendo sia anche la cifra di una divisione dottrinale. Ritiene dunque inadatto l’accostamento con ciò che accadde a Roma, nel 1962, all’inizio del Concilio Vaticano II, con la nascita del Coetus Internationalis Patrum (la fazione di cardinali d’ispirazione conservatrice) o persino, successivamente, con lo strappo dei lefebrviani?
La spaccatura all’interno del Concilio Vaticano II, se non sbaglio, passava attraverso tutti gli episcopati nazionali e diede vita ad una “Internazionale conservatrice” trasversale rispetto ai raggruppamenti linguistici (anche se c’erano ovviamente episcopati nazionali nel complesso più tradizionalisti ed altri decisamente innovatori). Nell’ambito ortodosso invece, in questo momento, le diverse posizioni nei confronti dei documenti preparatori hanno dato vita a due schieramenti di Chiese – con altre, come quella greca, profondamente divise al loro interno – e questo è indubbiamente ancor più pericoloso per l’unità dell’Ortodossia. Tanto più che la Chiesa russa, decidendo di non partecipare al Concilio – ma anche, in precedenza, approntando emendamenti ai documenti preparatori, che indubbiamente fanno proprie le riserve avanzate dagli ambienti più critici – si è posta implicitamente, con tutto il suo peso preponderante, alla guida di questo schieramento della conservazione.
Il Sinodo del Patriarcato di Mosca aveva chiesto la convocazione, entro il 10 giugno, di una riunione pan-ortodossa, preconciliare, per valutare gli emendamenti elaborati dalle Chiese nazionali sui documenti da promulgare durante il Concilio pan-ortodosso. Avendo respinto questa richiesta, non ritiene che Costantinopoli abbia limitato la sinodalità tipica delle Chiese Ortodosse?
Il Patriarcato di Costantinopoli ha respinto la proposta di un nuovo incontro dei primati di tutte le Chiese ortodosse venerdì 10 giugno, non per disistima verso la sinodalità, ma per più motivi. In primo luogo perché anche i documenti contestati erano stati approvati – nell’ultimo incontro dei primati di tutte le Chiese ortodosse a Chambésy del gennaio 2016 – da quelle Chiese che ora li respingono (a parte i patriarcati di Antiochia e di Georgia che non avevano firmato quello sugli impedimenti matrimoniali) e perché proprio in quella sede, con il consenso anche della Georgia, era stato solennemente convocato il Concilio per il 18 giugno a Creta. In secondo luogo Costantinopoli ha osservato che proprio la sede conciliare è quella istituzionalmente appropriata per discutere ed eventualmente emendare i documenti preparatori. In sostanza, ha fatto notare il Patriarcato ecumenico, quello che si è chiesto di fare venerdì scorso è ciò che si dovrebbe fare a Creta la settimana prossima, con l’apporto di tutti.
Incide nella decisione del Patriarcato russo il timore che Costantinopoli stia sostenendo le richieste di una Chiesa ortodossa ucraina indipendente da Mosca?
Non credo che la problematica questione dell’autocefalia della Chiesa ucraina – problematica in quanto la Chiesa ucraina, pur essendo dal XVII secolo inglobata in quella russa, ha la sua Chiesa-madre non in Mosca, ma in Costantinopoli – abbia avuto alcun peso nella presa di posizione russa. Le pressioni, non solo degli ambienti ecclesiastici locali, ma dello stesso attuale governo ucraino, per ottenere da Costantinopoli il riconoscimento dell’autocefalia sono fortissime, ma Costantinopoli presumibilmente non lo farà mai, perché questo comporterebbe una rottura della comunione con Mosca, cioè uno scisma esiziale per l’Ortodossia, incomparabilmente più grave di quello tra Antiochia e Gerusalemme. Non a caso il tema dei requisiti per l’autocefalia e del modo di proclamarla – che divide Costantinopoli (che ritiene che solo il Patriarcato ecumenico possa concederla) e Mosca (che ritiene invece che sia una prerogativa esclusiva della Chiesa-madre) – è stato per ora tenuto fuori, per unanime decisione, dall’agenda del Concilio.
Quali scenari prevede nel mondo ortodosso a seguito di questo rifiuto da parte di Mosca?
Lo scenario futuro è imprevedibile, anche perché, in questi giorni, muta di ora in ora. A tutt’oggi, poiché per Costantinopoli il Concilio è una priorità (mentre non lo è affatto per Mosca), si aprirà alla data prevista, nonostante le clamorose assenze. Costantinopoli avrebbe deciso di non concludere il Concilio in una settimana – come previsto in un primo tempo – ma di considerare la riunione dal 18 al 27 giugno come la prima sessione del Concilio, nella speranza che alle successive sessioni possano partecipare anche le Chiese assenti. Si tratta di una prassi conciliare usuale nella Chiesa antica, quando un Concilio era ritenuto ecumenico anche se i rappresentanti degli altri patriarcati intervenivano nelle sessioni successive alla prima.

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Federico Cenci

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