Monte Tabor / Wikimedia Commons - אלי זהבי, CC BY

Alzatevi, non abbiate paura

Commento sul Vangelo della II Domenica del Tempo di Quaresima (Anno C) — 21 febbraio 2016

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“Non sapeva quello che diceva”: come i tre apostoli sul Monte Tabor all’entrare nella nube, anche noi restiamo sovente infilzati a uno stupore pieno di paura; essa ci attanaglia di fronte all’abisso della nostra debolezza, dell’assoluta inadeguatezza, quando la verità ci si spalanca dinanzi e ci lascia di sasso. Quando appare nitida la sproporzione tra quello che dovremmo essere e quello che realmente siamo. Madri, padri, preti, assolutamente impreparati, infarciti di debolezze e peccati. Incoerenti e pieni di contraddizioni.
La paura che ha intontito i tre discepoli alla vista del loro Maestro trasfigurato. Una luce improvvisa, mai vista, lo sfolgorare d’una vita inattesa, proprio lì, da dentro la carne del loro amico. Uno squilibrio, un miracolo, s’era dato di nuovo il prodigio di quel giorno quando, sul Sinai, il Santo consegnò la Torah a Mosè. Il cielo era sceso sulla terra, avevano visto Dio, ed erano rimasti vivi. 
E allora, spontaneo, sorge in Pietro il desiderio di issare subito tre tende, per coagulare quel momento prodigioso e così bello nella precarietà della vita; proprio come nella festa di Succot, quando si preparano le capanne, le tende come segno della permanenza del popolo nel deserto. Dalla stessa “nube” che aveva guidato gli israeliti durante i quarant’anni dell’Esodo, la voce del Padre ripete agli Apostoli quello che aveva annunciato nel deserto: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”. 
Tra una mormorazione e l’altra, tra le maglie di una debolezza infinita, ogni ebreo aveva fatto l’incomparabile esperienza di poter (e dover) vivere del solo cibo della Parola di Dio, capace di trasformare la roccia in acqua. E quel cibo ora risplendeva nella carne trasfigurata di Gesù. Pietro, attento ai segni come ogni buon ebreo, aveva saputo riconoscere in quell’evento il compimento dell’Esodo del suo Popolo; su quel Monte Dio aveva di nuovo parlato, ed era di una “bellezza” mai contemplata. Era “bello” quel momento, era “bello” starci dentro, era “bella” anche la precarietà, l’infinita distanza tra l’uomo e Dio, perché in Gesù essa era colmata, e benedetta: per questo Pietro non sapeva e non poteva dire altro che di fare tre tende per estendere a tutta l’esistenza la “bellezza” di quel momento; tre tende per entrare ogni giorno nella precarietà strappata al timore, nella debolezza circonfusa di luce, nella carne redenta dall’incorruttibilità.
Sul Tabor era accaduto quello che appare nelle icone orientali, la cui luce si diffonde dal centro del dipinto, ti attira e ti mette immediatamente in comunione con il soggetto, facendoti suo interlocutore in virtù dello squarcio di luce che ti raggiunge. Non a caso il primo soggetto che devono dipingere gli iconografi è proprio la Trasfigurazione. “La contemplazione delle icone, e in genere dei capolavori dell’arte cristiana, c’introduce in un percorso interiore, che è la via del superamento, e in questa purificazione dello sguardo, che è purificazione del cuore, ci di svela la bellezza, o almeno qualche suo raggio. E la bellezza ci mette in relazione con la forza della verità” (Joseph Ratzinger, Ferito dal dardo della bellezza).
Il percorso che siamo chiamati a compiere è dunque quello della contemplazione, che si dà nell’ascolto e nella visione, nell’esperienza. Sperimentare il perdono, la riconciliazione, la possibilità di ricominciare come una persona nuova, è questa la bellezza che rivela la forza della verità. la forza di Cristo, amore puro, amore infinito, amore bello.

Nell’episodio della Trasfigurazione è svelato, come una profezia, il miracolo più grande, immagine della vittoria sulla morte che di lì a poco Gesù avrebbe compiuto nell’esodo di cui discorreva con Mosè ed Elia. La Legge e i Profeti lo avevano annunziato in varie forme: la luce della Pasqua avrebbe brillato nelle tenebre del sepolcro. Lo splendore della vita immortale, la bellezza di Cristo crocifisso e risorto si svelava così, già sul monte Tabor, attraverso la Parola annunciata e ascoltata dai Tre protagonisti di quell’evento unico: Cristo trasfigurato appare sempre nella stoltezza dell’annuncio.
Proprio il Vangelo, infatti, è la Trasfigurazione, la Buona notizia che ha messo in cammino Abramo verso una terra che non conosceva, qualcosa di assolutamente nuovo, un pezzo di paradiso, la terra promessa qui sulla terra delle lacrime. Il Vangelo è la luce purissima nella carne votata alla morte. Tutto di noi ci parla di fine, di ineluttabilità, di morte. Prima o poi scenderà la saracinesca sul lavoro, sulla famiglia, sulla nostra stessa vita. E’ la realtà alla quale tentiamo di sfuggire e che si ripresenta ad ogni angolo della nostra esistenza. La vita di ogni uomo, infatti, è un andare a Gerusalemme. 
Le tende che Pietro, a nome di tutta la Chiesa, voleva costruire, erano la profezia della Croce che lo Spirito Santo gli aveva ispirato. Esse ricordano il cammino che la comunità dei redenti ha da percorrere: non è il Tabor la meta, ma Gerusalemme. Ma è proprio nel cammino che ci conduce alla Croce che l’annunzio del Vangelo apre il cielo della Verità: ogni giorno la “nube” della presenza – shekinà di Dio ci attira e ci “copre con la sua ombra”, come si è adagiada sulla Vergine Maria generando in Lei il Figlio di Dio, Colui che avrebbe vinto la morte. Il Padre ci ha donato il seme della vita eterna, lo Spirito Santo effuso dal Signore risorto, la sua stessa vita che risplende nella Parola del Vangelo. 
Ogni giorno dalla nube che ci spaventa, il Padre ci indica “il suo Figlio eletto” e ci invita ad “ascoltarlo”: “Shemà Israel, Ascolta Israele!”. Ascoltare è amare l’unico Dio con tutta la mente, tutto il cuore e tutte le forze, l’unico cammino che conduce alla Vita eterna nella storia di ogni giorno, quando restiamo “soli con Gesù” come gli Apostoli al termine della Trasfigurazione. Ascoltare per vivere nell’amore che ci fa cittadini del Cielo mentre dimoriamo sulla terra. La nostra vita trasfigurata, infatti, è una vita evangelizzata, illuminata dalla Buona notizia. Il Vangelo annunciato nel paradosso delle nostre debolezze e inadeguatezze.
Nel parallelo del Vangelo di Matteo, Gesù dice ai discepoli: “Alzatevi, non abbiate paura”. Il suo amore brilla esattamente nella nostra più totale debolezza, la luce della vita immortale risplende in noi dalla ferita più infamante, il suo perdono dov’è abbondato il peccato. Alzatevi!, infatti, è lo stesso verbo usato a proposito della resurrezione: ci si può rialzare solo se caduti, risuscitare solo se morti. La presenza di Gesù nella nostra vita, sottolineando la nostra natura ferita e concupiscente, illuminando anche i peccati su cui vorremmo sorvolare, ci rivela che l’insoddisfazione, la paura e la frustrazione che sperimentiamo, sono accenni alla morte che incombe in noi come salario del peccato.
Ma, proprio situandoci nella verità, simboleggiata nel “sonno” che “opprimeva” i tre apostoli, incapaci di sostenere nella carne l’infinito di Dio, Gesù ci tende la sua mano di misericordia per attirarci nella sua trasfigurazione. Non è fuggendo o sforzandoci per cambiare noi stessi e il mondo che gusteremo la felicità autentica; essa è, invece, un dono della Grazia di Dio. E’ questa la notizia che aspetta ogni uomo, capace di trasfigurare in una luce di Pasqua anche l’esistenza più compromessa. La notizia che strappa dalla morte e trasfigura il volto e il cuore del peccatore più incallito. Oggi, e ogni giorno, il Vangelo è la salvezza, è la Vita, è la bellezza.
“E’ bello stare con il Signore”, proprio come diceva Pietro, e noi, nell’esperienza della Pasqua, possiamo ripeterlo e annunciarlo, perché stiamo imparando che la via alla Gloria deve passare per la Croce, dallo scorrere delle lacrime che purificano, perché di compunzione, di tenerezza e di stupore; le lacrime che sgorgano dalla “pietra” del cuore squarciata nell’incontro con un amore così grande, così bello, così infinito. Dice sant’Efrem: “Un volto lavato da tali lacrime è di una bellezza imperitura“. 
E’ bello davvero stare con Gesù, anche in questa tenda che è la nostra carne, con le sue debolezze, con le pesantezze di ogni giorno. E’ bello stare con Lui, dimorare nel suo amore, pellegrini e stranieri su questa terra, cercando e desiderando la Patria celeste, il luogo che Lui ci ha preparato. Essa è la tenda eterna, non fatta da mano d’uomo, la vita che non muore, trasfigurata eternamente.  
Comprendiamo così quale sia il cammino che ci indica la liturgia di questa domenica: quello di un pellegrino che compie l’esodo che lo conduce alla Terra promessa, la Vita eterna con Cristo. Un cammino impregnato di nostalgia, costellato di precarietà e debolezza, ma colmo di speranza, quella di coloro che hanno il cuore ferito dall’amato: “…esseri umani che nutrono in sé un desiderio tanto possente che supera la loro natura, che bramano più di quanto all’uomo sia lecito attendersi, costoro sono stati feriti dallo Sposo, che ha colpito i loro occhi con un raggio della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela quale sia lo strale, l’intensità del desiderio lascia intuire chi abbia scoccato il dardo» (Cabasilas). 
Questa intuizione è l’esperienza della Trasfigurazione, quella che ci attende ogni giorno. E’ vero che seguire il Signore è essere con Lui crocifissi. E’ vero che ad ogni passo le stigmate del dolore ci trapassano il cuore. E’ vero il male, è vero il peccato, è vera la morte. Ma è vera anche la Trasfigurazione di tutto, è vera la bellezza che supera e dà senso ad ogni cosa: “Nella passione di Cristo… l’esperienza del bello riceve una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la “Bellezza in sé” si è lasciato percuotere sul volto, coprire di sputi, incoronare di spine: la sacra Sindone di Torino ci racconta tutto ciò in maniera toccante. Ma proprio in quel volto sfigurato appare l’autentica, estrema Bellezza dell’ Amore che ama “sino alla fine”, mostrandosi così più forte di ogni menzogna e violenza. Soltanto chi sa cogliere questa bellezza comprende che proprio la verità, e non la menzogna, è l’estrema “affermazione” del mondo… Ma ad una condizione: che assieme a Lui ci lasciamo ferire, fidandoci di quell’ Amore che non esita a svestirsi della bellezza esteriore, per annunciare proprio in questo modo la Verità della Bellezza” (Joseph Ratzinger, Ferito dal dardo della bellezza). La bellezza crocifissa, la bellezza trasfigurata, la sua bellezza che è la nostra bellezza.

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Antonello Iapicca

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