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Cantalamessa: "Che ne facciamo noi cristiani della nostra fede in Cristo?"

Seconda predica di Quaresima di padre Raniero Cantalamessa – Testo integrale

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Proponiamo il testo integrale della seconda predica di Quaresima pronunciata stamattina, 17 marzo 2017, nella Casa Pontificia da padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia.
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  1. La fede di Nicea

Proseguiamo, in questa meditazione, la riflessione sul ruolo dello Spirito Santo nella conoscenza di Cristo. A questo proposito non si può tacere una riprova in atto oggi nel mondo. Esiste da tempo un movimento chiamato degli “Ebrei messianici”, cioè degli Ebrei-cristiani. (“Cristo” e “cristiano” non sono che la traduzione greca dell’ebraico Messia e messianico!). Una stima per difetto parla di 150 mila aderenti, distinti in gruppi e associazioni diverse tra loro, diffusi soprattutto negli stati Uniti, in Israele e in varie nazioni europee.
Sono ebrei che credono che Gesú, Yeshua, è il Messia promesso, il Salvatore e il Figlio di Dio, ma non vogliono assolutamente rinunciare alla loro identità e tradizione ebraica. Non aderiscono ufficialmente a nessuna delle Chiese cristiane tradizionali, perché intendono ricollegarsi e far rivivere la primitiva Chiesa dei giudeo-cristiani, la cui esperienza fu interrotta bruscamente da noti eventi traumatici.
La Chiesa cattolica e le altre Chiese si sono sempre astenute dal promuovere, e perfino nominare, questo movimento per ovvie ragioni di dialogo con l’ebraismo ufficiale. Io stesso non ne ho mai parlato. Ma ora si sta facendo strada la convinzione che non è giusto continuare a ignorarli o, peggio, ostracizzarli da una parte e dell’altra. È uscito da poco in Germania uno studio di diversi teologi sul fenomeno[1]. Se ne parlo in questa sede è per un motivo preciso, attinente al tema di queste meditazioni. A una inchiesta sui fattori e le circostanze che sono state all’origine della loro fede in Gesú, più del 60% degli interessati ha risposto: “una trasformazione interiore ad opera dello Spirito Santo”; al secondo posto c’è la lettura della Bibbia e al terzo, contatti personali [2]. È una conferma dalla vita che lo Spirito Santo è colui che da la vera, intima conoscenza di Cristo.
Riprendiamo dunque il filo delle nostre considerazioni storiche. Finché la fede cristiana rimase ristretta all’ambito biblico e giudaico, la proclamazione di Gesù come Signore (“Credo in un solo Signore Gesú Cristo”), soddisfaceva tutte le esigenze della fede cristiana e giustificava il culto di Gesù “come Dio”. Signore, Adonai, era infatti per Israele un titolo inequivocabile; esso appartiene esclusivamente a Dio. Chiamare Gesú Signore, equivale perciò a proclamarlo Dio. Abbiamo una prova inconfutabile del ruolo svolto dal titolo Kyrios all’inizio della Chiesa come espressione del culto divino attribuito a Cristo. Nella sua versione aramaica Maran-atha (Il Signore viene), o Marana-tha (Vieni, Signore!), esso appare già in san Paolo come formula liturgica (1 Cor 16, 22) ed è una delle poche parole conservate nella lingua della primitiva comunità[3].
Non appena però il cristianesimo si affacciò sul mondo greco romano circostante, il titolo di Signore, Kyrios, non bastava più. Il mondo pagano conosceva molti e diversi “signori”, primo fra tutti, appunto, l’imperatore romano. Occorreva trovare un altro modo per garantire la piena fede in Cristo e il suo culto divino. La crisi ariana ne offrì l’occasione.
Questo ci introduce alla seconda parte dell’articolo su Gesù, quella che fu aggiunta al simbolo di fede nel concilio di Nicea del 325:
“nato dal Padre prima di tutti i secoli:
Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero,
generato, non creato,
della stessa sostanza (homoousios) del Padre”.
Il vescovo di Alessandria, Atanasio, campione indiscusso della fede nicena, è ben convinto di non essere lui, né la Chiesa del suo tempo, a scoprire la divinità di Cristo. Tutta la sua opera consisterà, al contrario, nel mostrare che questa è stata sempre la fede della Chiesa; che nuova non è la verità, ma l’eresia contraria. La sua convinzione a questo riguardo trova una conferma storica indiscussa nella lettera che Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, scrisse all’imperatore Traiano intorno all’anno 111 d.C. L’unica notizia certa che egli dice di possedere nei confronti dei cristiani è che “sono soliti radunarsi prima dell’alba, in un giorno stabilito della settimana, e inneggiare a Cristo come a Dio” (“carmenque Christo quasi Deo dicere”)[4]
La fede nella divinità di Cristo esisteva dunque già ed è solo ignorando completamente la storia che qualcuno ha potuto affermare che la divinità di Cristo è un dogma voluto e imposto dall’imperatore Costantino nel concilio di Nicea. L’apporto dei Padri di Nicea e in particolare di Atanasio, fu, più che altro, quello di rimuovere gli ostacoli che avevano impedito fino allora un riconoscimento pieno e senza reticenze della divinità di Cristo nelle discussioni teologiche.
Uno di tali ostacoli era l’abitudine greca di definire l’essenza divina con il termine agennetos, ingenerato. Come proclamare che il Verbo è vero Dio, dal momento che esso è Figlio, cioè generato dal Padre? Era facile per Ario stabilire l’equivalenza: generato, uguale fatto, cioè passare gennetos a genetos, e concludere con la celebre frase che fece esplodere il caso: “Ci fu un tempo in cui non c’era!” (en ote ouk en). Questo equivaleva a fare di Cristo una creatura, anche se non “come le altre creature”. Atanasio risolve la controversia con una osservazione elementare: “Il termine agenetos fu inventato dai greci perché non conoscevano ancora il Figlio”[5] e difese a spada tratta l’espressione “generato, ma non fatto”, genitus non factus, di Nicea,
Un altro ostacolo culturale al pieno riconoscimento della divinità di Cristo, sul quale Ario poteva appoggiare la sua tesi, era la dottrina di una divinità intermedia, il deuteros theos, preposto alla creazione del mondo. Da Platone in poi, essa era diventata un dato comune a molti sistemi religiosi e filosofici dell’antichità. La tentazione di assimilare il Figlio, “per mezzo del quale erano state create tutte le cose”, a questa entità intermedia era rimasta strisciante nella speculazione cristiana (Apologisti, Origene), anche se estranea alla vita interna della Chiesa. Ne risultava uno schema tripartito dell’essere: al vertice, il Padre ingenerato; dopo di lui, il Figlio (e più tardi anche lo Spirito Santo); al terzo posto, le creature.
La definizione del “genitus non factus” e dell’homoousios , rimuove questo ostacolo e opera la catarsi cristiana dell’universo metafisico dei greci. Con tale definizione, una sola linea di demarcazione è tracciata sulla verticale dell’essere. Esistono due soli modi di essere: quello del creatore e quello delle creature e il Figlio si colloca dalla parte del primo, non delle seconde.
Volendo racchiudere in una frase il significato perenne della definizione di Nicea, potremmo formularla così: in ogni epoca e cultura, Cristo deve essere proclamato “Dio”, non in una qualche accezione derivata o secondaria, ma nell’accezione più forte che la parola “Dio” ha in tale cultura.
È importante sapere cosa motiva Atanasio e gli altri teologi ortodossi nella battaglia, da dove, cioè, viene loro una certezza così assoluta. Non dalla speculazione, ma dalla vita; più precisamente, dalla riflessione sull’esperienza che la Chiesa, grazie all’azione dello Spirito Santo, fa della salvezza in Cristo Gesú.
L’argomento soteriologico non nasce con la controversia ariana; esso è presente in tutte le grandi controversie cristologiche antiche, da quella antignostica a quella antimonotelita. Nella sua formulazione classica esso suona così: “Ciò che non è assunto non è salvato” (“Quod non est assumptum non est sanatum”)[6]. Nell’uso che ne fa Atanasio, esso può essere così inteso: “Ciò che non è assunto da Dio non è salvato”, dove la forza è tutta in quella breve aggiunta “da Dio”. La salvezza esige che l’uomo non sia assunto da un intermediario qualsiasi, ma da Dio stesso: “Se il Figlio è una creatura – scrive Atanasio – l’uomo rimarrebbe mortale, non essendo unito a Dio”, e ancora: “L’uomo non sarebbe divinizzato, se il Verbo che divenne carne non fosse della stessa natura del Padre”[7].
Occorre tuttavia fare una precisazione importante. La divinità di Cristo non è un “postulato” pratico, come è, per Kant, l’esistenza stessa di Dio[8]. Non è un postulato, ma la spiegazione di un dato di fatto. Sarebbe un postulato – e dunque una deduzione teologica umana – se si partisse da una certa idea di salvezza e da essa si deducesse la divinità di Cristo come l’unica capace di operare tale salvezza; è invece la spiegazione di un dato se si parte, come fa Atanasio, da una esperienza di salvezza e si dimostra come essa non potrebbe esistere se Cristo non fosse Dio. In altre parole, non è sulla salvezza che si fonda la divinità di Cristo, ma è sulla divinità di Cristo che si fonda la salvezza.

  1. “Voi, chi dite che io sia?”

Ma è tempo di venire a noi e cercare di vedere cosa possiamo imparare oggi dall’epica battaglia sostenuta a suo tempo dall’ortodossia. La divinità di Cristo è la pietra angolare che sorregge i due misteri principali della fede cristiana; la Trinità e l’incarnazione. Essi sono come due porte che si aprono e si chiudono insieme. Esistono edifici o strutture metalliche così fatti che se si tocca un certo punto, o si leva una certa pietra, tutto crolla. Tale è l’edificio della fede cristiana, e questa sua pietra angolare è la divinità di Cristo. Tolta questa, tutto si sfalda e prima di ogni altra cosa la Trinità. Se il Figlio non è Dio, da chi è formata la Trinità? Lo aveva già denunciato con chiarezza sant’ Atanasio, scrivendo contro gli ariani:
“Se il Verbo non esiste insieme con il Padre da tutta l’eternità, allora non esiste una Trinità eterna, ma prima ci fu l’unità e poi, con il passare del tempo, per aggiunta, ha cominciato ad esserci la Trinità” [9].
Sant’ Agostino diceva: “ Non è gran cosa credere che Gesù è morto; questo lo credono anche i pagani, anche i giudei e i reprobi; tutti lo credono. Ma è cosa veramente grande credere che egli è risorto. La fede dei cristiani è la risurrezione di Cristo” [10]. La stessa cosa, oltre che della morte e risurrezione, si deve dire dell’umanità e divinità di Cristo, di cui morte e risurrezione sono le rispettive manifestazioni. Tutti credono che Gesù sia uomo; ciò che fa la diversità fra credenti e non credenti è credere che egli sia Dio. La fede dei cristiani è la divinità di Cristo!
Dobbiamo porci una domanda seria. Che posto occupa Gesù Cristo nella nostra società e nella stessa fede dei cristiani? Penso si possa parlare, a questo riguardo, di una presenza-assenza di Cristo. A un certo livello – quello dello spettacolo e dei mass-media in generale – Gesù Cristo è molto presente. In una serie interminabile di racconti, film e libri, gli scrittori manipolano la figura di Cristo, a volte sotto pretesto di fantomatici nuovi documenti storici su di lui. È diventato ormai una moda, un genere letterario. Si specula sulla vasta risonanza che ha il nome di Gesú e su quello che egli rappresenta per larga parte dell’umanità, per assicurarsi larga pubblicità a basso costo. Io chiamo tutto questo parassitismo letterario.
Da un certo punto di vista possiamo dunque dire che Gesù Cristo è molto presente nella nostra cultura. Ma se guardiamo all’ambito della fede, al quale egli in primo luogo appartiene, notiamo, al contrario, una inquietante assenza, se non addirittura rifiuto della sua persona. In cosa credono, in realtà, quelli che si definiscono “credenti” in Europa e altrove? Credono, il più delle volte, nell’esistenza di un Essere supremo, di un Creatore; credono che esiste un “aldilà”. Questa però è una fede deistica, non ancora una fede cristiana. Diverse indagini sociologiche rilevano questo dato di fatto anche in paesi e regioni di antica tradizione cristiana. Gesù Cristo è in pratica assente in questo tipo di religiosità.
Anche il dialogo tra scienza e fede porta, senza volerlo, a una messa tra parentesi di Cristo. Esso ha infatti per oggetto Dio, il Creatore. La persona storica di Gesú di Nazareth non vi ha alcun posto. Succede lo stesso anche nel dialogo con la filosofia che ama occuparsi di concetti metafisici, e non di realtà storiche, per non parlare del dialogo interreligioso in cui si discute di pace, ecologismo, ma certo non di Gesù.
Basta un semplice sguardo al Nuovo Testamento per capire quanto siamo lontani, in questo caso, dal significato originale della parola “fede” nel Nuovo Testamento. Per Paolo, la fede che giustifica i peccatori e conferisce lo Spirito Santo (Gal 3,2), in altre parole, la fede che salva, è la fede in Gesù Cristo, nel suo mistero pasquale di morte e risurrezione.
Già durante la vita terrena di Gesù, la parola fede indica fede in lui. Quando Gesù dice: “La tua fede ti ha salvato”, quando rimprovera gli apostoli chiamandoli “uomini di poca fede”, non si riferisce alla fede generica in Dio che era scontata tra ebrei; parla di fede in lui! Questo smentisce da solo la tesi secondo cui la fede in Cristo comincia solo con la Pasqua e prima c’è solo il “Gesù della storia”. Il Gesù della storia è già uno che postula fede in lui e se i discepoli l’hanno seguito è proprio perché avevano una certa fede in lui, anche se tanto imperfetta prima della venuta dello Spirito Santo a Pentecoste.
Dobbiamo lasciarci investire in pieno viso dunque dalla domanda che Gesú rivolse un giorno ai suoi discepoli, dopo che questi gli hanno riferito le opinione della gente introno a lui: “Ma voi, chi credete che io sia?”, e da quella ancora più personale: “Credi tu?” Credi veramente? Credi con tutto il cuore? San Paolo dice che “con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rm 10,10). “È dalle radici del cuore che sale la fede”, esclama sant’Agostino[11].
In passato, il secondo momento di questo processo – cioè la professione della retta fede, l’ortodossia – ha preso a volte tanto rilievo da lasciare nell’ombra quel primo momento che è il più importante e che si svolge nelle profondità recondite del cuore. Quasi tutti i trattati “Sulla fede” (De fide) scritti nell’antichità, si occupano delle cose da credere, e non dell’atto del credere.

  1. Chi è che vince il mondo

Dobbiamo ricreare le condizioni per una fede nella divinità di Cristo senza riserve e senza reticenze. Riprodurre lo slancio di fede da cui nacque la formula di fede. Il corpo della Chiesa ha prodotto una volta uno sforzo supremo, con cui si è elevato, nella fede, al di sopra di tutti i sistemi umani e di tutte le resistenze della ragione. In seguito, è rimasto il frutto di questo sforzo. La marea si è sollevata una volta a un livello massimo e ne è rimasto il segno sulla roccia. Questo segno è la definizione di Nicea che proclamiamo nel credo. Bisogna però che si ripeta la sollevazione, non basta il segno. Non basta ripetere il Credo di Nicea; occorre rinnovare lo slancio di fede che si ebbe allora nella divinità di Cristo e di cui non c’è stato più l’eguale nei secoli. Di esso c’è nuovamente bisogno.
Ce n’è bisogno anzitutto in vista di una nuova evangelizzazione. San Giovanni, nella sua Prima Lettera, scrive: “Chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? (1 Gv 5,4-5). Dobbiamo capire bene cosa vuol dire “vincere il mondo”. Non vuol dire riscuotere più successo, dominare sulla scena politica e culturale. Questo sarebbe piuttosto l’opposto: non vincere il mondo, ma mondanizzarsi. Purtroppo non sono mancate epoche in cui si è caduti, senza rendersene conto, in questo equivoco. Si pensi alle teorie delle due spade o del triplice regno del sovrano pontefice, anche se dobbiamo sempre stare attenti a non giudicare il passato con i criteri e le certezze del presente. Dal punto di vista temporale, avviene piuttosto il contrario, e Gesú lo dichiara in anticipo ai suoi discepoli: “Voi piangerete e gemerete, ma il mondo si rallegrerà” (Gv 16,20).
È escluso dunque ogni trionfalismo. Si tratta di una vittoria di ben altro tipo: di una vittoria su quello che anche il mondo odia e non accetta di se stesso: la temporalità, la caducità, il male, la morte. Questo, infatti, è ciò che significa, nella sua accezione negativa, la parola “mondo” (kosmos) nel Vangelo. È in questo senso che Gesú dice: “Abbiate coraggio: io ho vinto il mondo” (Gv 16, 33).
Come ha vinto il mondo Gesú? Non certo sbaragliando i nemici con “dieci legioni di angeli”, ma piuttosto, come dice Paolo “vincendo l’inimicizia” (cf. Ef 2, 16), vale a dire tutto ciò che separa l’uomo da Dio, l’uomo dall’uomo, un popolo da un altro popolo. Perché non ci fossero dubbi sulla natura di questa vittoria sul mondo, essa viene inaugurata con un trionfo tutto speciale, quello della croce.
Gesú ha detto: “Io sono la luce del mondo, chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12). Sono le parole più spesso riprodotte nella pagina del libro che il Pantocrator tiene aperto tra le mani nei mosaici antichi, come in quello famoso della cattedrale di Cefalù. Di lui l’evangelista afferma: “In lui era la vita  e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4). Luce e vita, Phos e Zoè: queste due parole hanno in greco la lettera centrale (un omega) in comune e spesso si trovano incrociate, scritte una orizzontalmente e l’altra verticalmente, a formare un potente e diffusissimo monogramma di Cristo.
Che cosa desidera maggiormente l’uomo se non queste due cose: luce e vita? Di un grande spirito moderno, Goethe, si sa che morì mormorando: “Più luce!”. Forse egli si riferiva alla luce naturale che voleva entrasse in misura maggiore nella sua stanza, ma alla frase è stato sempre attribuito, giustamente, un significato anche metaforico e spirituale. Un mio amico che è tornato alla fede in Cristo dopo aver attraversato tutte le esperienze religiose possibili e immaginabili, ha raccontato la sua vicenda in un libro intitolato “Mendicante di luce”. Il momento cruciale fu quando, nel bel mezzo di una sua meditazione profonda, sentì rimbombare nella sua mente, senza che potesse farle tacere, le parole di Cristo: “Io sono la via, la verità e la vita”[12]. Sulla falsariga di quello che l’apostolo Paolo disse agli ateniesi nell’Areopago, noi siamo chiamati a dire con tutta umiltà al mondo d’oggi: “Quello che voi cercate, andando come a tentoni, noi ve lo annunciamo” (cf. Atti 17, 23.27).
“Datemi un punto di appoggio – avrebbe esclamato l’inventore della leva, Archimede – e io vi solleverò il mondo”. Chi crede nella divinità di Cristo è uno che ha trovato questo punto di appoggio. “Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia” (Mt 7,25).

  1. “Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete!”

Non possiamo però terminare la nostra riflessione senza raccogliere anche l’appello che essa contiene, non solo in vista dell’evangelizzazione ma anche della nostra vita e testimonianza personale. Nel dramma di Claudel “Il padre umiliato”, ambientato a Roma al tempo del beato Pio IX, c’è una scena molto suggestiva. Una fanciulla ebrea, bellissima ma cieca, passeggia di sera nel giardino di una villa romana con il nipote del papa Orian innamorato di lei. Giocando sul duplice significato della luce, quello fisico e quello della fede, a un certo punto, “a voce bassa e con ardore”, ella dice all’amico cristiano:
“Ma voi che ci vedete, che cosa ne fate voi della luce? […] Voi che dite di vivere, cosa ne fate della vita?”[13].
È una domanda che non possiamo lasciar cadere nel vuoto: che cosa ne facciamo noi cristiani della nostra fede in Cristo? Anzi, che cosa ne faccio io della mia fede in Cristo?  Gesú un giorno disse ai suoi discepoli: “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete” (Lc 10,23; Mt 13,16). È una di quelle affermazioni con cui Gesú, in più occasioni, cerca di aiutare i suoi discepoli a scoprire da soli la sua vera identità, non potendo rivelarla in modo diretto a causa della loro impreparazione ad accoglierla.
Noi sappiamo che le parole di Gesù sono parole che “non passeranno mai” (Mt 24, 35), sono, cioè parole vive, rivolte a chiunque le ascolta con fede, in ogni momento e luogo della storia. È a noi perciò che egli dice, ora e qui: “Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete!”. Se non abbiamo mai riflettuto seriamente su quanto siamo fortunati noi che crediamo in Cristo, forse è l’occasione per farlo.
Perché “beati”, se i cristiani non hanno certo più motivo degli altri di rallegrarsi in questo mondo e anzi in molte regioni della terra sono continuamente esposti alla morte, proprio per la loro fede in Cristo? La risposta ce la da lui stesso: “Perché vedete!”. Perché conoscete il senso della vita e della morte, perché “vostro è il regno dei cieli”. Non nel senso di “vostro e di nessun altro” (sappiamo che il regno dei cieli, nella sua prospettiva escatologica, si estende ben oltre i confini della Chiesa); “vostro” nel senso che voi ne siete già parte, ne gustate le primizie. Voi avete me!
La frase più bella che una sposa può dire allo sposo e viceversa, è: “Mi hai reso felice!” Gesú merita che la sua sposa, la Chiesa, glielo dica dal profondo del cuore. Io glielo dico e invito voi, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, a fare altrettanto. Oggi stesso, per non dimenticarcelo.
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[1] Ulrich Laepple (ed.), Messianische Juden. Eine Provokation, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2016.
[2] Laepple, cit., p. 34.
[3] Cf. Didachè, X, 6; in Ap 22, 20, l’esclamazione:  „Vieni, Signore Gesù“ è la traduzione dei Marana-tha.
[4] Plinio il Giovane, Relatio de Christianis ad Traianum,  Epistulae X, 96 (in C. Kirch, Enchiridion Fontium Historiae Ecclesiasticae Antiquae, Herder 1965, p. 23).
[5] S. Atanasio, De decretis Nicenae synodi, 31.
[6] S. Gregorio Nazianzeno, Lettera Cledonio (PG 37, 181).
[7] S. Atanasio, Contra Arianos, II, 69 e I, 70.
[8] I. Kant, Critica della ragion pratica, capp. III, VI
[9] S. Atanasio, Contra Arianos I, 17-18 (PG 26, 48).
[10] S. Agostino, Commento ai Salmi, 120, 6 (CCL 40, p. 1791).
[11] S. Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 26,2 (PL 35,1607).
[12] Masterbee, Mendicante di luce. Dal Tibet al Gange e oltre, San Paolo, Cinisello B.  2006, pp. 223 ss.
[13] Paul Claudel, Le père humilié,  atto I, sc. 3 (Paul Claudel, Le théatre, Paris Gallimard 1956, p.506).

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ZENIT Staff

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