È in scena a Roma al teatro Vittoria, fino al 20 novembre, «Nessi», scritto e interpretato da Alessandro Bergonzoni, diretto insieme a Riccardo Rodolfi.
Chi conosce lo stile unico del grande artista, maestro del calembour, sa quanto sia difficile descrivere la trama dei suoi spettacoli. Eppure in questo caso, in un’opera che parla di nessi, cioè di connessioni, ci accorgiamo al termine che l’andamento apparentemente disordinato delle parole (che ci trascinano dalla Russia al Giappone, dall’Honduras a Malpensa, da dove arrivano i “malpensanti”) ha costruito sotto i nostri occhi una trama, nel più genuino senso della parola: fili che si intrecciano per ridisegnare un tessuto, quello umano.
Un occhio al microscopio vede bene la pelle, i muscoli, i tessuti dell’uomo. Ma è l’artista a volte che vede il tessuto più profondo della natura umana: l’etica è veicolata dalla poetica. Ed ecco che Bergonzoni traccia uno spettacolo che non solo ha una trama, ma ha persino un ordito, perché il fili orizzontali del racconto si raccordano invisibilmente a fili verticali che ci portano verso l’altezza e la profondità della realtà umana.
La sua inconfondibile voce calda rende duttile ogni parola, e così la può plasmare, trasformare, consentendole nuovi modi per veicolare concetti e temi importanti, seppur sempre fra tante risate: la paternità, la morte, l’a-socialità delle insufficienti connessioni virtuali dei moderni social network. «Commemoriamo come moriamo, e non pensiamo a come viviamo … si può morire di colpo, si può morire di colpe, si può morire senza accorgersene, e chi glielo dice allora ai tanti che credono di essere vivi e invece sono già morti?».
Per questo è tempo, per l’artista, di celebrare «un funerale ai vivi», è arrivato il momento non già di prepararsi alla morte, ma alla vita; non per caso, Bergonzoni è accompagnato in scena da tre incubatrici: è tempo di prepararsi a nascere, non da un uovo ma di nuovo.
Bergonzoni ci rende Bergon-nessi. Ci uniamo a lui, e a fine spettacolo (quando finalmente ci decidiamo ad andar via, dopo lunghi ed esilaranti ‘bis’) ci ritroviamo a pensare come lui: il surreale ci porta sul reale. E ci convinciamo che dovremmo aver paura non della morte apparente né di un morto tra i parenti, ma di una vita apparente, di un vivo tra parentesi: viviamo in una bolla, ma non una bolla di accompagnamento, piuttosto una bolla di isolamento. Viviamo così quando pensiamo di esser soli e invece dobbiamo essere ‘sole’, che illumina e dà energia.
Viviamo così, tornando allo spettacolo, quando celebriamo in lontananza l’eroismo di chi compie il dovere che gli spetta e dimentichiamo che l’eroismo è piuttosto fare il dovere che non ci spetta: «Siamo tutti, o dovremmo essere tutti, Falcone».
Viviamo così, quando pensiamo con orrore ai danni della bomba atomica, e non a quelli che provochiamo con la nostra «bomba anatomica», col nostro vivere isolati, dimentichi dei fili che ci legano gli uni agli altri, ieri e oggi. Non è una questioni di emozioni, ma di emanazioni, non è questione di feeling, ma questione di fili, come disse un altro maestro della parola (Frankie Hi-NRG). Viviamo d’istanti, moriamo distanti.
Bergonzoni non fa semplice retorica, lui che per primo ha ricostruito connessioni dove esistono pesanti apparenti separazioni: disconnessioni sociali, avendo a cura la situazione dei carcerati, o disconnessioni vitali, occupandosi di persone in coma, o con la sindrome locked-in.
Come entrare in relazione con questi stati di coscienza minima? Bergonzoni ha trovato che per entrare in questi stati, come per entrare in tutti gli stati, occorre il passaporto: il passaporto dell’amore, il documento di riconoscimento di ogni Uomo, dove nei segni particolari si deve indicare non tanto il fatto di essere leali, quanto quello di avere le-ali.
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"Con-Nessi" si vive veramente
Continua la tournee teatrale dell’artista Alessandro Bergonzoni, a Roma fino al 20 novembre