Il libro di mons. Antonio Staglianò dal titolo “Maria di Nazaret da conoscere e amare” edito dalla (LEV), fornisce molti spunti di riflessione e ci dà l’occasione di parlare con l’Autore per approfondire la struttura del volume e conoscere da vicino Maria, donna ebrea, primo tabernacolo e modello di umanità.
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Eccellenza, il libro da Lei scritto ed edito dalla LEV, dal titolo Maria di Nazaret da conoscere e amare è un manuale di mariologia per teologi ed addetti ai lavori o è un testo di carattere divulgativo?
Proprio di carattere divulgativo non è, anche se c’è tutta una seconda parte abbastanza corposa, dedicata alla poetica e all’omiletica, che intenterebbe rivolgersi sicuramente ad un pubblico molto più ampio. Mentre tutta la prima parte dedicata alla teologia (anche quella dedicata alla devozione) è di alta divulgazione scientifica. Però c’è da dire che molte pagine sono approcciabili da persone di media cultura.
Le considerazioni conciliari su Maria, quanto hanno influito nel Suo testo?
Bisogna considerare che la riflessione su Maria, prima del Concilio Vaticano II, apparteneva alla riflessione sull’uomo. Infatti, la mariologia era un capitolo dell’antropologia teologica che si interessava di mostrare chi era l’uomo risorto in Cristo. Alla fine indicava Maria come apice della creazione umana. Maria era la donna, cioè l’essere umano che costituiva, in Gesù, il modello dell’umanità piena, realizzata e perfetta. Il Concilio Vaticano II pone Maria dalla riflessione antropologica (capitolo VIII della Lumen gentium) a modello e tipo della Chiesa. Dopo il Concilio, la mariologia tende a sposarsi maggiormente con l’ecclesiologia, cioè con la riflessione sulla Chiesa e non più direttamente con la riflessione sull’uomo. Maria di Nazaret, nello stesso tempo, ha a che fare con l’uomo e con la Chiesa, che è sacramento dell’unità degli essere umani con Dio e perciò degli esseri umani tra di loro. Non dimentichiamoci che la Chiesa è nel mondo per rivelare l’unità di tutti gli esseri umani, nella misura in cui tutti gli esseri umani sono uniti con Dio. Direi che il mio testo è totalmente conciliare. La sua presunzione è quella di elaborare una mariologia ecumenica partendo dai dogmi cattolici (dell’Immacolata e dell’Assunzione, anche detti “dogmi moderni”) che, come è noto, sembrano essere proprio gli ostacoli principali al dialogo ecumenico. Il dialogo ecumenico su Maria vive su due assiomi: la Maria biblica ci unisce, mentre “le mariologie” ci dividono. Questo testo è stato configurato in maniera tale da interrogare, stuzzicare e mettere in crisi questo assioma, chiedendo: ma è proprio vero? Pone interrogativi di carattere epistemologico su Maria. Per esempio: la Maria biblica non è essa stessa una mariologia? Se le confessioni della nostra fede ci diversificano è chiaro che si differenziano anche nell’approccio alla lettura di Maria nel Testo Sacro. L’evangelista Luca, leggendo Maria come la offre nel Vangelo, non ci dà una sua mariologia? Ormai gli studi di teologia, a livello epistemologico, l’hanno accertato. Leggiamo biblicamente il dogma dell’Assunzione e dell’Immacolata, a partire da una possibile apertura di senso, iniziando dai dogmi, e lavoriamo sulla Maria biblica. In definitiva vorrei dire: vediamo se è possibile trovare unione proprio partendo dai dogmi e non prescindendo da essi, poi andiamo alla Maria biblica. Anche perché, se un cattolico legge la Maria biblica ha già la forma mentis dei dogmi. Non può prescindere da essi. Quindi: invece di prescindere lavoriamo proprio su di essi.
All’interno del libro ci sono dei testi poetici. Qual è il motivo per cui ha deciso di inserirli?
Perché questo è un testo teologico. Come disse Martin Heidegger “l’ultimo esito della filosofia è la poesia”. Si comprende che il filosofare è riflessione intensiva, raziocinio critico. La riflessione degli esseri umani non è solo quella del concetto. Tanto più la riflessione filosofica, razionale, critica, argomentativa, come quella teologica, che ha a che fare con Dio, non può essere ridotta ad un concetto. Noi comprendiamo che i temi teologici sono disponibili alla nostra riflessione critica ma non si può razionalizzare il mistero. Si può esplicare il mistero, ma non si può spiegare, nel senso di ridurlo ad un ragionamento sillogistico nella forma aristotelica. Si può, a limite, capire il ragionamento, ma capire Dio, conoscere Maria in Dio, significa entrare in una profondità di senso che riguarda la mia vita e tutta la storia, ma tutto questo non è esprimibile attraverso il concetto. Il rendere ragione della nostra fede nella forma critica della teologia è soltanto un percorso, non un fine. Sant’Agostino affermò che “noi non diciamo tanto per dire, ma per non essere condannati a tacere”. Il Vescovo d’Ippona dice tanto, ma è consapevole che, nonostante tutto, resta il mistero da adorare. Chiediamoci, a questo punto: qual è il registro linguistico umano che può aiutare anche la teologia a collocarsi innanzi al mistero in adorazione? È la poesia! Il registro poetico, in quanto non prescinde dalla razionalità, si pone in maniera sintetica come un’evocazione ed invocazione, come un dialogo. La teologia, attraverso la poesia, resta teologia pur essendo poesia.
Lei afferma che il mariologo calabrese, P. Stefano De Fiores, è costruttore della mariologia contemporanea. Successivamente riconosce al sacerdote monfortano la nascita del testo che noi oggi possiamo apprezzare. Ci spiega perché?
L’ho sempre guardato come un maestro e come un punto di riferimento. P. Stefano De Fiores non è stato uno “speculativo”. Non ha organizzato una mariologia speculativa. Ma con le sue ricerche, a tutto campo, attraverso la sua produzione, ha elaborato testi che sono il punto di riferimento per chiunque voglia scrivere di mariologia contemporanea. Avendo promosso, attraverso l’associazione internazionale di mariologia, dei congressi a grande impianto ecumenico, è stato, come teologo, conosciuto da tantissimi teologi a livello internazionale, che hanno trovato in lui un motore di ricerca che li ha spinti a pensare. Io stesso devo quest’opera a lui, a doppio titolo. Moltissimi materiali che qui sono convenuti sono frutto di mie relazioni ai diversi congressi internazionali organizzati da P. Stefano, ed ai quali spesso mi ha invitato. Ma ancor di più, questo libro ha in De Fiores l’autore perché fu sua l’idea di realizzarlo. Quando diventai Vescovo, mi venne a trovare dicendomi: “ricordo bene i tuoi interventi ai congressi, perché non pubblichi un volume?” ed io con molta amabilità risposi: “lo faccio volentieri se tu ritieni che siano cose che valgono, ma essendo ora Vescovo ho tempo limitato, se tu mi aiuti si farà” e lui lo fece, costruendo il testo ed indicandomi le parti mancanti e quindi da completare, per rendere l’opera organica come ora lo è. Quando improvvisamente morì, io affidai la cura a don Ignazio Petriglieri (mio vicario episcopale per la cultura) ma ormai eravamo agli sgoccioli.
Nel suo libro si nota come Lei sia rimasto particolarmente colpito da Nostra Signora di Guadalupe. Ci potrebbe aggiungere qualche particolare a tal proposito?
Nostra Signora di Guadalupe è un affronto al razionalismo contemporaneo. La presenza “fisica” di questa immagine, apparsa il 12 dicembre del 1531 ad un indio, Juan Diego (proclamato Santo da San Giovanni Paolo II nel 2002), è una sfida continua al razionalismo scientista contemporaneo! La domanda che questa immagine pone è la seguente: ma tu come spieghi, scientificamente, che io esisto? Considera che l’immagine di Guadalupe è studiata come la Sindone, con diversi approcci. La stessa tilma, costituita da fibre di agave, è rimasta intatta, senza polverizzarsi, nonostante siano passati circa 500 anni. Anzi, manifesta addirittura poteri di autorigenerazione (intorno al 1700 è caduto dell’acido lasciando delle tracce profonde che successivamente si sono diradate). La scienza del XXI secolo non riesce a dare una spiegazione. E come spieghi – questa è un’altra provocazione forte – che l’immagine, da tutti visibile, per lo scienziato risulta bianca al microscopio? Perché non rileva i pigmenti, pur presenti e visibili ad occhio nudo? I colori ci sono, li vedono tutti. A me quello che colpisce maggiormente è il suo volto meticcio. Nel 1531, a Guadalupe,la Madonna ha anticipato di circa un trentennio l’emergenza antropologica del messicano. Assume il volto di un popolo che ancora deve formarsi, nell’incontro futuro tra gli spagnoli e la gente del luogo. Un’altra realtà bellissima è la seguente: noi sappiamo che l’apparizione è avvenuta il 12 dicembre del 1531, e ne veniamo a conoscenza da un codice scritto cinquant’anni dopo l’evento. Oggi, grazie alla scienza, noi sappiamo con esattezza che l’apparizione impressa nella tilma (non disegnata da nessun uomo) è avvenuta alle ore 11:40. Mi chiederai: come si fa a saperlo? Ebbene, le stelle sono collocate sul manto della Madonna così come erano a Città del Messico il 12 dicembre del 1531 alle ore 11:40. Il tutto può essere ricostruito, grazie ad uno studio astronomico, con le mappature delle costellazioni nel cielo. Allora, lo scientismo che afferma “esiste solo ciò che vedi” nega allo stesso tempo ciò che si vede, cioè, Nostra Signora di Guadalupe. È un paradosso. Perché il telo si vede e si tocca (e non si disintegra), e nonostante tutto la scienza nega l’evidenza. Ecco che lo scientismo si contraddice.
Maria di Nazaret da conoscere e amare
Nel suo nuovo libro, edito da LEV, mons. Antonio Staglianò approfondisce teologia, devozione, poetica ed omiletica sulla Vergine Maria