Giovedì prossimo, 27 ottobre, ricorreranno i trent’anni dal primo grande raduno interreligioso di Assisi. Questo tipo di incontri sono ormai all’ordine del giorno, a vari livelli ma nel 1986 un confronto pacifico e fraterno tra tutte le religioni costituiva una novità assoluta, specie in un mondo allora ancora segnato dalla guerra fredda e dall’incubo di un conflitto nucleare.
Artefice di quella straordinaria iniziativa fu la Comunità di Sant’Egidio, con il benestare di papa Giovanni Paolo II, che, intuitane la portata profetica, si recò di buon grado ad Assisi.
Tra i presenti, in quello storico 27 ottobre 1986, vi era un giovane attivista di Sant’Egidio, diventatone poi il presidente: Marco Impagliazzo. Romano, 54 anni, Docente di storia contemporanea all’Università per stranieri di Perugia, Impagliazzo ha spiegato a ZENIT in che modo lo “Spirito di Assisi” si è attualizzato in questi trent’anni, contribuendo a cementare la coesione di tutte le grandi religioni mondiali per la pace e per lo sviluppo.
Prof. Impagliazzo, cosa le rimase più impresso di quel giorno di fine ottobre di trent’anni fa?
Il mio è il ricordo di un evento del tutto eccezionale e fuori dal comune, con un viavai di uomini e donne di religioni diverse che rappresentavano tradizioni antichissime ed abiti di tutti i colori, riuniti per un incontro non folcloristico ma di sostanza perché si metteva al centro il tema della pace. Questo mi colpì molto, così come mi colpì il clima di intensa partecipazione spirituale – fu anche una giornata di digiuno – e il desiderio di conoscersi tra uomini di fedi diverse. In quel momento storico, c’era la minaccia nucleare e il mondo era diviso in due blocchi.
Qual è il primo sintetico bilancio che si può trarre, a trent’anni dallo Spirito di Assisi?
Il principale spunto che si può trarre, a trent’anni di distanza, è che la pace è davvero entrata nel cuore delle preoccupazioni delle varie religioni. Inoltre, ci siamo conosciuti meglio, apprezzandoci nelle nostre diversità. Ricordo le grandi distanze che sussistevano all’inizio, in particolare tra ebrei e musulmani, a partire dalla questione politica palestinese, ma fondate anche su pregiudizi reciproci. Si è quindi superato questo clima di diffidenza e, ultimamente, si è anche capito che si può lavorare insieme su alcune necessità come quelle dello sviluppo o della pace tra i popoli.
Come giudica la situazione generale del mondo islamico in questi anni cruciali di lotta al terrorismo jihadista?
Con l’Islam ci troviamo a un punto di svolta, in quanto il mondo islamico è sfidato al suo interno dal terrorismo e dall’estremismo religioso. Oggi l’Islam si sente più vulnerabile e ha bisogno di riscoprire il rapporto con gli altri, affinché questa unità contro il terrore diventi una protezione e un superamento di certe logiche. Non pochi musulmani devono superare una certa ambiguità che li rende sospettosi verso l’Occidente, come se l’Occidente fosse dominato ancora da una volontà di conquista di questo mondo. Oggi, però, non è più questo il problema. Oggi il problema è trovare insieme i mezzi per costruire un mondo pacifico e non violento in varie aree del mondo, anche qui in Occidente, nelle nostre periferie. Quindi c’è bisogno di un lavoro comune.
Un altro aspetto cresciuto notevolmente è stato il dialogo cattolico-ortodosso…
È vero. E di questo, mi preme sottolineare tre punti di unione in particolare. In primo luogo l’ecumenismo dei martiri: al di là delle piccole differenze teologiche o di giurisdizione tra le varie Chiese, abbiamo scoperto di essere molto più uniti di quel che credevamo, proprio grazie al sangue dei martiri. Nel martirio, i cristiani hanno vissuto una profonda unità, sono morti insieme per la stessa causa, quella del Vangelo. Secondo motivo che ci unisce è l’ecumenismo della carità. Ci sono tante opere comuni che fanno dell’amore per i poveri una vera frontiera di carità tra i cristiani, perché i cristiani vogliono un mondo migliore, più giusto e lo vogliono insieme. Il terzo punto è relativo all’ecumenismo dell’ecologia: ad Assisi, lo scorso 20 settembre, abbiamo festeggiato i 25 anni di patriarcato di Bartolomeo I di Costantinopoli, non a caso definito il “patriarca verde”, un campione dell’impegno cristiano nell’ecologia, tanto è vero che anche nella Laudato Sì papa Francesco ha inserito ripetute citazioni del pensiero di Bartolomeo.
A che punto è, invece, a suo avviso, il dialogo con i protestanti?
Quando prima parlavo di ecumenismo dei martiri, naturalmente, non mi riferivo solo ai cattolici e agli ortodossi ma a tutte le chiese cristiane. Vale la pena accennare, poi, alla collaborazione di Sant’Egidio con i protestanti italiani per la realizzazione dei corridoi umanitari per i profughi siriani, ma si potrebbero citare molti altri esempi. Restano chiaramente divisioni su come sono concepite le chiese, sul sacerdozio femminile, ecc. Sono comunque questioni che riguardano le singole tradizioni ecclesiali ma che non creano particolari difficoltà di dialogo, anche perché l’amicizia tra i leader – papa Francesco, l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, il patriarca Kirill di Mosca – è cresciuta e anche questo è un segno importante per tutti i fedeli.
Uno dei frutti concreti del vostro dialogo interreligioso sono i corridoi umanitari. Che bilancio se ne può trarre dopo un anno?
Lunedì prossimo arriveranno a Fiumicino altri 130 profughi siriani dal Libano. Noi di Sant’Egidio saremo lì ad accoglierli, poi saranno destinati a varie parrocchie, famiglie e comunità valdesi in giro per l’Italia. I corridoi umanitari non sono solo uno strumento di protezione internazionale per queste persone ma sono anche l’anticamera dell’integrazione, attraverso l’istruzione, lo studio della lingua e della cultura italiana, la formazione al lavoro. Il bilancio è altamente positivo. Anche con il corridoio umanitario aperto dal Papa, quando lui stesso ha portato dei profughi da Lesbo a Roma, abbiamo visto profughi trattati come finalmente come persone: invece di alienarsi per anni nei centri detentivi di accoglienza, oggi hanno la possibilità di integrarsi, i bambini di andare a scuola, i malati di essere curati negli ospedali. Come ricorda papa Francesco, sono le comunità che accolgono. Sono le comunità che dimostrano ai cittadini italiani che queste persone possono trovare una vera via di integrazione.
Un altro frutto dello Spirito di Assisi è il peacekeeping portato avanti da Sant’Egidio, che ha registrato il suo più noto successo in Mozambico, nel 1992. Oggi in quali aree siete più impegnati?
Il nostro lavoro in Centrafrica è proprio nello Spirito di Assisi. Un vescovo cattolico, che giustamente il Papa ha elevato al cardinalato, un pastore protestante e l’imam di Bangui si sono messi insieme per dare un contributo alla pace, potendo contare anche sul nostro sostegno. Ci siamo mobilitati perché la visita del Papa dello scorso novembre si potesse realizzare. Anche quel viaggio è stato un segno di ecumenismo e di dialogo interreligioso, culminato con il Papa in moschea: tutti segni di speranza che hanno cambiato la realtà della guerra in Centrafrica, traghettandola verso la pace. Attualmente stiamo lavorando molto anche in Libia, soprattutto nella parte sud per riconciliare le tribù che sono in lotta e per garantire l’ingresso degli aiuti umanitari. Sono stati firmati due accordi importanti con le tribù del deserto libico della parte sud-occidentale. Siamo poi impegnati in Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, dove è in corso una guerra etnica. La Siria è in una situazione disastrosa, da tanti punti di vista: ormai due anni fa, Andrea Riccardi lanciò un appello per salvare Aleppo, e, se fosse stato ascoltato non ci ritroveremmo di fronte a questa nuova Sarajevo. Dobbiamo quindi ringraziare San Giovanni Paolo II che nel 1986 ebbe questa profetica intuizione: le religioni devono lavorare per la pace.
Attualmente venti di conflitto tornano ad agitarsi tra USA e Russia. Anche in questa crisi diplomatica, le religioni potranno fare la loro parte?
Giusto lunedì scorso, durante la nostra preghiera mensile per la pace a Santa Maria in Trastevere, meditavamo sull’ingresso di Gesù in Gerusalemme: “Io vi dico che se questi non grideranno, grideranno le pietre”. Questo grido è un grido di pace. E le religioni sono un elemento di risveglio e sono interpreti di questa sete di pace. Auspico che uomini e donne di religione gridino la loro volontà di pace di fronte ai governanti e di fronte a chi oggi vuole la guerra. È un’indignazione morale che sale dal profondo delle nostre tradizioni religiose, un’indignazione morale verso la guerra che è la madre di ogni povertà.
Marco Impagliazzo (Foto: Comunità di Sant'Egidio)
Impagliazzo: “Il grido delle religioni è per la pace”
Il presidente della Comunità di Sant’Egidio trae un bilancio di trent’anni di “Spirito di Assisi”