«La nostra epoca è più insensata e arrogante di qualsiasi epoca storica: rendiamo il divino un capro espiatorio con il solo scopo di diffamarlo».
Così René Girard, antropologo francese, teorico del rapporto tra violenza e religione, rispondeva all’interrogativo posto dal teologo Wolfang Palaver sul terrorismo religioso. Parole di tremenda attualità, che tornano tuttavia utili non solo per la loro validità, quanto anche per ricordare un grande costruttore di pace, Albino Luciani, di cui nei giorni scorsi, il 26 agosto, è ricorso il trentottesimo anniversario dell’elezione al soglio di Pietro.
Nel 1978, alla fine dell’Angelus del 24 settembre, l’ultimo di un mese del suo pontificato breve ma intenso, Papa Luciani, dinanzi all’ennesimo episodio di violenza che «continuamente travagliano questa povera e inquieta nostra società», lasciò quasi il suo testamento: «Non la violenza può tutto, ma l’amore».
Cosa fare, si chiedeva Papa Giovanni Paolo I, per migliorare la società? La soluzione è semplice ma al contempo complessa e ardimentosa, spiegava: «Ciascuno di noi cerchi lui di essere buono e di contagiare gli altri con una bontà intrisa di mansuetudine e dell’amore insegnato da Cristo. Questo è cristianesimo, questi sarebbero sentimenti che messi in pratica aiuterebbero tanto la società».
Quanto vero risulti essere pure oggi quell’insegnamento lo attestano i fondamentalismi che hanno scosso e insanguinato il mondo e che adesso si ripropongono sotto le spoglie del terrorismo islamista e di una ancor più diffusa e generale intolleranza mista ad egoismo, che inquina i rapporti interpersonali e rende difficile la convivenza nello stesso condominio, figurarsi in paese e città e con uomini e donne di diversa etnia e credo religioso, in fuga a milioni da Paesi martoriati da fame, carestie e guerre.
Il Vangelo e Cristo, secondo Albino Luciani, avrebbero dovuto essere la bussola dell’umanità. Perché, sottolineava, «messo da parte il Vangelo, si ritorna per forza all’“homo homini lupus” e al “bellum contra omnes”» E ancora: «Respinto il magistero della chiesa, vengono a mancare i punti sicuri di riferimento, ciascuno interpreta il Vangelo come vuole e si fabbrica il Cristo che più gli piace».
Insomma, messa da parte la fede nel messaggio evangelico, si lascia aperta la porta alla violenza. A volte ammantata di ideologia pseudoreligiosa.
La fede, quella genuina, è invece lasciare l’iniziativa a un Dio fatto uomo perché l’uomo fosse deificato; la religione senza fede è lasciare che l’uomo agisca in nome di Dio pur senza Dio. Ma una religione senza fede sarebbe brutta e triste. Soprattutto, sarebbe deleteria per l’umanità e minaccia per lo stesso futuro del pianeta.
Di qui l’invito alla riscossa dei cuori e delle coscienze, riassumibile in un messaggio. Quello spesso dimenticato, quasi inascoltato, lanciato l’8 dicembre 1965 dai Padri conciliari in chiusura del Vaticano II: «Il mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza come la verità è ciò che mette la gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all’usura del tempo, che unisce le generazioni e le congiunge nell’ammirazione».
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Non la violenza può tutto, ma l’amore
Scrisse Giovanni Paolo I: “Ciascuno di noi cerchi lui di essere buono e di contagiare gli altri con una bontà intrisa di mansuetudine e dell’amore insegnato da Cristo”