Brutte notizie per i copti dell'Egitto post-Mubarak

Chiese nel mirino dei fondamentalisti nella guerra dei permessi edilizi

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di Paul De Maeyer

ROMA, giovedì, 14 aprile 2011 (ZENIT.org).- Nell’Egitto post-Mubarak, le cose per la comunità cristiana non sembrano prendere una buona piega. Lo suggerisce una serie di aggressioni contro obiettivi cristiani segnalate nei giorni scorsi dall’Assyrian International News Agency (AINA).

In un articolo pubblicato sabato 9 aprile, l’agenzia riporta tre attacchi lanciati di recente da gruppi o elementi salafiti – una corrente fondamentalista – contro altrettante chiese copte. L’ultima aggressione è avvenuta martedì 5 aprile nel villaggio di Kamadeer, nei pressi di Samalout, nel governatorato di Minya, quando un gruppo di musulmani ha occupato la chiesa di San Giovanni l’Amato. Lo scopo dell’azione era di impedire l’avvio dei lavori di manutenzione e riparazione dell’edificio, rimasto danneggiato dalle violente piogge del gennaio scorso.

Come ha raccontato padre Estephanos Shehata, della diocesi copto-ortodossa di Samalout, a lanciare l’appello all’occupazione del luogo di culto è stato lo sceicco salafita Mohamad Saleh. Alla comunità musulmana non è andato giù il fatto che i cristiani abbiano ottenuto dalle autorità tutti i necessari permessi per effettuare i lavori alla chiesa fatiscente, situata a pochissima distanza (appena cinque metri) da una nuova moschea. I salafiti volevano che la chiesa (anche se precedente alla moschea) venisse spostata.

Una riunione non ufficiale di “riconciliazione” si è conclusa giovedì 7 aprile con la firma di un accordo, che prevede la costruzione di una nuova chiesa a circa duecento metri di distanza dal vecchio luogo di culto e dall’adiacente moschea. L’accordo suona come una beffa. L’edificio dovrà essere alto solo un piano e non due come quello precedente, e neppure essere riconoscibile come chiesa, cioè dovrà essere privo di cupola, croce e campanile. Per gli attivisti copti, si tratta di uno sviluppo per nulla benaugurante. “Creerà un precedente in Egitto”, così teme Nader Shoukry, che ha parlato di riconciliazioni non ufficiali “alla beduina”.

Domenica 27 marzo una folla di quasi 500 salafiti armati di spade, bastoni e coltelli ha impedito l’uscita dei fedeli dalla chiesa di Santa Maria, ad Imbaba, nel governatorato di Giza. Secondo i manifestanti, che hanno bloccato le porte e chiesto la chiusura dell’edificio, “questa è un’area musulmana e qui non dovrebbe essere permessa nessuna chiesa”. La chiesa, frequentata da circa 800 famiglie copte, fa parte di un complesso che ospita anche un asilo e un consultorio medico.

Anche se l’attività è stata autorizzata nel dicembre scorso dall’allora State Security Intelligence o SSI (ribattezzato National Security in seguito alla “Rivoluzione del 25 gennaio”), due sceicchi salafiti della zona sostengono infatti che il centro Bashtil – così si chiama – non abbia i permessi necessari. Anche in questo caso le autorità locali hanno fatto ricorso all’ormai nota formula della “riconciliazione” extralegale, finita nuovamente in modo beffardo. In attesa di una nuova autorizzazione, la comunità cristiana ha accettato di sospendere i servizi liturgici nella chiesa.

Tre giorni prima si era verificato nella cittadina di Beni Ahmad, a sette chilometri a sud di Minya, nell’omonimo governatorato, un terzo episodio di intimidazione da parte di gruppi salafiti. Anche questa volta a provocare l’intervento dei fondamentalisti era una questione di permessi edilizi. Anche se già tre anni fa la comunità copta del villaggio aveva ricevuto l’autorizzazione per ampliare la chiesa edificata un secolo prima e di costruire un centro sociale, sotto la minaccia di distruggere la chiesa i salafiti hanno ottenuto la sospensione dei lavori. Una richiesta di intervento è stata respinta dall’esercito egiziano, secondo l’attivista copta Mariam Ragy, segno che “le autorità hanno venduto i copti ai salafiti”. Quest’ultimi esigevano anche la cacciata del parroco e una “donazione” per un presunto centro di emodialisi.

Sempre nel governatorato di Minya – considerato spesso il centro dell’opposizione fondamentalista -, una “gang” musulmana tiene sotto scacco la comunità copta dei villaggi di Badraman e Nazlet el Badraman. Secondo quanto riferito il 6 aprile dall’agenzia AINA, un “bullo” ed informatore della polizia locale, Ali Hussein, soprannominato “Holaku” (un temuto condottiere mongolo), terrorizza dal 28 gennaio scorso – cioè più o meno dall’inizio della rivolta anti-Mubarak – la popolazione copta dei villaggi. A capo della sua banda, Ali Hussein non esita a stuprare donne copte e a rapire cristiani, anche bambini, per chiedere un riscatto.

Le forze di sicurezza sono state avvertite subito dopo l’inizio del terrore, ma – come ha dichiarato l’attivista Nader Shoukry – “hanno chiuso un occhio”. Secondo Shoudry, che ha portato alla luce la vicenda, Hussein “si è atteggiato a governatore dei due villaggi nonostante la presenza di due sindaci”. Dopo un fallito tentativo per arrestarlo, avvenuto domenica 3 aprile, la banda ha rincarato la dose. Terrorizzati, i copti si sono rivolti direttamente all’attuale uomo forte dell’Egitto, il generale Mohammed Tantawi, capo del Consiglio supremo militare. Con il sostegno di varie organizzazioni per i diritti umani, gli abitanti di Badraman hanno consegnato mercoledì 6 aprile anche un rapporto al Procuratore generale del Cairo.

Sui rapporti tra musulmani e copti continua a pesare la vecchia storia di due presunte convertite all’islam – Camelia Shehata e Wafa’ Costantine -, che sarebbero tenute prigioniere in monasteri copti. La vicenda, che era già stata all’origine di due sanguinosi attacchi anticristiani – quello del 31 ottobre 2010 contro una chiesa siro-cattolica a Bagdad (Iraq) e l’attentato suicida del primo gennaio scorso ad Alessandria d’Egitto -, è stata definita dal noto islamologo, padre Samir Khalil Samir, “completamente falsa”. Come ha ricordato il gesuita su AsiaNews (3 gennaio), “lo stesso defunto capo di Al-Azhar, Tantawi, ha decretato che non c’è la prova della loro conversione”.

Come riferito da AINA, centinaia di musulmani hanno organizzato mercoledì 30 marzo un “sit-in” davanti agli uffici del Consiglio di Stato, durante il quale hanno annunciato il lancio di una nuova alleanza a sostegno dei “nuovi musulmani”, la Coalition for the Support New Muslims. Secondo i capi della coalizione, sarebbero quasi 70 i convertiti all’islam “detenuti” dai copti. Il giorno prima del lancio, martedì 29 marzo, è stata diffusa inoltre su internet la minaccia che ogni donna senza velo o con il capo scoperto sarebbe stata uccisa. L’annuncio ha spinto la Egyptian Union of Human Rights Organization a sporgere denuncia.

Secondo quanto riportato dalle fonti, la violenza sta spingendo un numero crescente di cristiani a lasciare l’Egitto. Secondo Naguib Gabriel, noto avvocato e capo della Egyptian Federation of Human Rights, il suo ufficio riceve almeno 70 chiamate a settimana di gente che desidera emigrare. “Ogni giorno le persone vengono a cercarmi per chiedermi come possono rivolgersi alle ambasciate di Stati Uniti o Canada. Insistono per lasciare l’Egitto perché è troppo rischioso rimanere” (AINA, 12 aprile). “Siamo ad un crocevia”, sostiene Gabriel. “Molti cristiani hanno paura del futuro a causa dei fanatici nelle moschee”. Anche se l’ambasciata canadese al Cairo ha dichiarato di non essere in grado di fornire cifre attendibili, secondo Sam Fanous – che gestisce una società che assiste coloro che fanno richiesta per emigrare in Canada -, il suo ufficio è “bombardato” dalle richieste.

Parlando con AsiaNews (12 aprile), padre Rafic Greiche, capo ufficio stampa della Chiesa cattolica egiziana, ha ammesso che l’attuale situazione in Egitto è molto critica specialmente per le comunità cristiane. “Nel Paese sono emersi molti gruppi estremisti, come i Fratelli musulmani, ma stanno prendendo piede anche gruppi più radicali tra cui l’Islamic Jihad Movement e i salafiti”, così ha detto. “Molti cristiani stanno andando via perché non sanno quello che
accadrà in futuro e preferiscono emigrare”, ha aggiunto padre Greiche, che teme i militari. “Anche se l’esercito dice di non voler appoggiare nessuno, tutta sappiamo che i militari egiziani hanno la tendenza a favorire l’Islam”, ha dichiarato il sacerdote, ricordando che durante la rivoluzione del 1952 – conclusasi con l’abdicazione del re Faruq I – molti dei soldati golpisti erano vicini ai Fratelli musulmani.

Anche padre Luciano Verdoscia non nasconde certi timori. Anche se il messaggio fondamentalista non ha attecchito tra i giovani della “Rivoluzione del 25 gennaio” – così spiega il missionario comboniano -, c’è un divario tra questi giovani e gli strati più ignoranti della popolazione egiziana. Quest’ultimi “possono essere facilmente influenzati dai predicatori islamici, come si è visto con il recente referendum costituzionale, presentato come una scelta tra ‘essere pro o contro Dio'”, ha confidato a Fides (13 aprile).

Tuttavia, proprio questo giovedì è giunta dall’Egitto anche una bella notizia. Come rivela AsiaNews, nel villaggio di Soul (30 km a sud del Cairo) è stata celebrata mercoledì 13 aprile la prima messa nella chiesa ricostruita di San Mina e San Giorgio. La veloce ricostruzione dimostra che l’esercito egiziano sa anche essere di parola. Come ricorda l’agenzia missionaria, i militari avevano promesso infatti il 13 marzo scorso di ricostruire la chiesa prima di Pasqua. L’edificio era stato distrutto da una folla di musulmani nella notte tra venerdì 4 e sabato 5 marzo. Ad innescare la violenza era stata una relazione sentimentale fra un uomo cristiano ed una donna islamica (ZENIT, 7 marzo).

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ZENIT Staff

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