Si dice che il peccato «originale» sia la volontà dell’uomo di essere come Dio. Questo è solo una faccia del peccato. Vi è un volto complementare, quello della volontà di non essere originale del tutto, di non volere la divinizzazione, di non voler diventare secondo la somiglianza di Dio, di non voler giungere al Télos (cf. Gv 13).
Nelle parole di Jürgen Moltmann, «l’altro lato dell’atteggiamento di superbia consiste nella disperazione, nella rassegnazione, nell’indolenza e nella mestizia». E spiega: «La tentazione non consiste tanto nella pretesa titanica di essere come Dio, quanto piuttosto nella debolezza, nella pusillanimità, nella stanchezza di chi non vuol essere ciò che Dio si aspetta da lui».
«Ciò che lo accusa non è il male che egli fa ma il bene che trascura»
Nelle parole di san Giovanni Crisostomo: «Non è tanto il peccato che ci conduce alla perdizione, quanto piuttosto la mancanza di speranza».
Ma perché l’anima si rifugia nella disperazione?
«La disperazione vorrebbe proteggere l’anima dalle delusioni. “Chi troppo spera matto diventa”. Perciò si cerca di rimanere sul terreno della realtà e di “pensare con chiarezza e non sperare più” (A. Camus)».
Ed è qui il volto sottile, pacifico e apparentemente quasi innocuo della disperazione: non è necessario mostrare una faccia disperata, «può trattarsi della semplice e silenziosa mancanza di significato, di prospettiva, di futuro e di scopo», anzi, «può avere l’aspetto della sorridente rassegnazione: bon jour tristesse! Rimane quel certo sorriso di coloro che hanno esaurito le proprie possibilità e non vi hanno trovato nulla che desse loro motivo di speranza».
L’uomo che si ribella a Dio non prende necessariamente le sembianze di Prometeo, ma anche quelle di Sisifo, dell’onesto fallito che si ripiega sui suoi fallimenti e abbraccia accontentandosi l’incompiutezza, il limite, l’assurdo, il nulla…
Ora, però, «la forza che rinnova la vita non sta né nella presunzione né nella disperazione, ma soltanto nella speranza durevole e sicura».
Hanno una forza misteriosa quelle parole di Eraclito: «Ma chi non spera l’inatteso non l’avrà»!
Lungi dall’essere un’illusione, Moltmann ci ricorda che solo la speranza ha diritto di definirsi realistica, perché «essa soltanto prende sul serio le possibilità che sottendono tutta la realtà. […] Le speranze e le anticipazioni del futuro non sono dunque un fulgore di trasfigurazione destinato ad abbellire un’esistenza ingrigita, bensì percezioni realistiche del vasto panorama di reali possibilità esistenti».
Quindi la speranza è ben lontana dall’utopismo. Essa non si protende verso ‘l’isola che non c’è’, bensì «verso ciò che ‘non ha ancora un luogo’, ma può averlo». Anzi, è la disperazione che merita l’accusa di utopismo perché è essa che «si aggrappa alla realtà esistente dubitando delle proprie possibilità» non concedendo al possibile ‘nessun posto’.
Quindi la conclusione di Moltmann è questa: «Le affermazioni della speranza dell’escatologia cristiana devono imporsi anche all’irrigidità utopica del realismo per tener viva la fede e condurre l’obbedienza, esplicantesi nell’amore, sulla via delle realtà terrestri, fisiche, sociali».
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Le varie citazioni sono riprese da J. Moltmann, Teologia della speranza.