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1. Verità-libertà: l’educazione alla prova
Nel riflettere sul nesso tra libertà religiosa, verità ed educazione può essere utile fare un breve riferimento al dibattito, in atto nell’odierna società plurale italiana, sui consistenti processi migratori e sulle loro incidenze nel processo di riforma della scuola. Sebbene i media tendano a non cogliere, o almeno a non approfondire, tutte le implicazioni connesse alla relazione tra le due questioni, la reazione suscitata dalla proposta di creare nelle scuole delle classi destinate ad ospitare solo studenti stranieri è un test convincente della scottante attualità del loro nesso.
Non intendo entrare ora nel merito di queste vicende. Sottolineo soltanto che mi stupisce, e devo dire mi preoccupa, vedere come, in proposito, si discuta molto di aspetti organizzativi, disciplinari e di ordine pubblico, o si finisca per scadere in opposizioni ideologiche spesso desuete, ma venga data erroneamente per scontata o del tutto rimossa la questione dell’educazione, intesa in senso pieno.
Educare significa mettere consapevolmente in relazione la persona con la realtà[1] e quindi provocare incessantemente la sua libertà per farla entrare in un rapporto integrale con gli altri, le cose, le circostanze ed i processi in cui si imbatte. Educare è pertanto l’arte di accompagnare l’inevitabile tensione della libertà delle persone ad “adeguare” la realtà. E quindi, quando è rettamente intesa, l’educazione è apertura alla verità. Come afferma Sant’Agostino: «Quid enim fortius desiderat anima quam veritatem?»[2], l’uomo è fatto per la verità, è orientato ad essa. Oltre al cristianesimo non cessano di ricordarlo le religioni e in modo particolarmente insistente lo richiama la fede musulmana[3].
Per questo il tema della libertà religiosa non è un aspetto particolare dell’educazione alla e nella libertà, ma ne rappresenta il culmine.
Conosciamo bene l’obiezione di certa cultura post-moderna a questa convinzione. Contro di essa si avanza la tesi dell’inconciliabilità tra un’autentica libertà umana ed un fondamento veritativo. Scrive per esempio Vattimo: «Se c’è una natura vera delle cose, c’è anche sempre un’autorità – il papa, il comitato centrale, lo scienziato oggettivo, ecc. – che la conosce meglio di me e che può impormela anche contro la mia volontà». In fondo «a che altro serve insistere sulla oggettività e la “datità” del vero, se non a garantire qualche autorità a qualcuno?»[4].
È lo stesso paradosso che, chiaramente da un’altra posizione, ha messo in risalto il Rabbino David Novak in una lezione sulla libertà religiosa nell’ebraismo tenuta a Princeton[5],: «C’è un paradosso – dice Novak – nel fatto che i membri di comunità religiose rivendicano “libertà” in una società secolare. Il paradosso diviene ancora più forte quando la rivendicazione della libertà religiosa viene sostenuta filosoficamente come un diritto accordato da Dio. Il paradosso sta nel fatto che quanto più una comunità religiosa è tradizionale – cioè quanto più essa si percepisce come sottoposta all’autorità divina – tanto minore sembra essere la libertà di cui godono i membri all’interno dei confini quella stessa comunità»[6].
Possiamo tranquillamente rispondere a Novak (e a Vattimo) affermando che il paradosso di cui si parla non è tale perché si fonda acriticamente su una doppia riduzione. La prima è legata alla concezione della verità. Essa viene concepita in modo razionalistico, dedotta come un sistema completo e coerente di proposizioni concettuali. Ma in questo caso la verità diventa una forma di gnosi idolatrica perché pretende che il limitato sguardo umano possieda la compiuta fisionomia del fondamento (Dio). La seconda riduzione si riferisce alla libertà. Questa viene snaturata perché ricondotta ad una libertà di coscienza supposta capace di stabilire “creativamente” (in senso equivoco) da se stessa cosa sia il bene ed il male (cfr VS, 54). Questa doppia riduzione di verità e libertà e del loro rapporto genera un grave fraintendimento circa la vera natura della libertà religiosa.
La Chiesa, con la dichiarazione Dignitatis Humanae del Concilio Vaticano II, non ha affermato la libertà assoluta dell’uomo di aderire a qualsiasi religione o credenza, né ha inteso negare la sua consolidata convinzione che davanti a Dio l’errore non ha alcun diritto. Essa ha piuttosto inteso, da un lato, indicare che la Verità stessa essendo in Cristo Gesù assoluta ma vivente e personale, domanda per attestarsi all’uomo l’atto della sua decisione. D’altra parte ha voluto limitare il potere degli Stati e la possibilità di una loro azione coercitiva nei confronti della libera ricerca della verità da parte delle persone e delle comunità. Affermazioni che non annullano in alcun modo il dovere incombente per l’uomo di non sottrarsi alla ricerca della verità alla quale è destinato (DH 2; 14). In questa luce è svelata la profondità delle domande poste da Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio: «Si può rifiutare Cristo e tutto ciò che egli ha portato nella storia dell’uomo? Certamente si può. L’uomo è libero. L’uomo può dire a Dio: no. L’uomo può dire a Cristo: no. Ma rimane la domanda fondamentale: è lecito farlo? E in nome di che cosa è lecito?»[7]. La domanda finale, pur riconoscendo proprio in nome della libertà religiosa il pieno diritto dell’uomo a rifiutare la verità, gli mostra anche che la libertà non è tale se non percorre fino in fondo la strada della ricerca del significato ultimo della vita.
È proprio questa insopprimibile ricerca ad esigere un’educazione della libertà perché resti incessantemente spalancata alla verità senza accontentarsi di verità fasulle.
Che la verità per attestarsi all’uomo esiga l’assenso della sua libertà viene riconosciuto dalla risposta che Novak offre per risolvere il paradosso di cui ho parlato prima. È illuminante seguire sinteticamente il suo argomentare. Domandandosi con quale grado di libertà il popolo ebraico avesse accettato la liberazione dall’Egitto e poi la Legge, Novak mette in evidenza come alcuni rabbini ed il Talmud stesso abbiamo avanzato il dubbio di un’apparente negazione della libertà umana[8]. Il dilemma morale circa la relazione tra libertà umana e legge di Dio si scioglierebbe solo osservando il comportamento di Israele durante l’esilio babilonese successivo alla distruzione del primo tempio. È infatti in esilio che il popolo di Israele, ridotto a due delle originarie dodici tribù, «conferma liberamente quello che esso aveva accettato originariamente sotto costrizione nel deserto»[9]. In questo modo «con la decisione di ri
costituirsi per essere una nazione legata al patto e governata secondo la legge divina rivelata nella Torah, il popolo ebraico ha esercitato collettivamente la libertà religiosa»[10]. Ma – si era chiesto prima Novak – «perché questo popolo ha prima dovuto subire l’imposizione di una legge piuttosto che ricevere, più tardi e in modo persuasivo, l’offerta di tale legge da accettare o rifiutare liberamente […]? Si potrebbe rispondere che il popolo non poteva a ragione scegliere una legge della cui autorità non aveva ancora fatto esperienza»[11]. Non voglio ora entrare nella delicata discussione teologica che queste riflessioni aprirebbero. Mi limito a constatare che per sviluppare il tema della libertà religiosa in maniera compiuta Novak convoca la dimensione dell’esperienza sempre storicamente determinata, a dimostrazione che la verità si offre all’uomo in maniera assoluta ma personale, come un appello che chiama la sua libertà a coinvolgersi.
In sintesi non si può cogliere il rapporto verità-libertà senza chinarsi sul nesso amoroso tra libertà infinita di Dio e libertà finita dell’uomo. Su queste basi si può ben comprendere come la validità di una proposta educativa trovi nel rapporto dinamico tra verità e libertà il suo decisivo banco di prova.
2. Educazione, comunità e storia
Un ulteriore aspetto emerge dalle considerazioni di Novak. La decisione con cui Israele sceglie di aderire alla legge non è un’opzione di singoli, bensì di un popolo. Questo fatto ci spinge a riflettere sulla dimensione comunitaria della libertà religiosa. E qui sorge un altro apparente paradosso.
Secondo le grandi religioni “monoteiste”, la libertà che muove l’uomo alla ricerca della verità possiede una insopprimibile dimensione personale, ma la verità che si attesta alla persona apre ad una dimensione comunitaria. Ciò è vero, come abbiamo visto per gli ebrei, ma è lo altrettanto per i cristiani, che incontrano la Verità nella realtà concreta della Chiesa, e per i musulmani, per i quali l’edificazione della Umma resta un ideale inseparabile dalla ricezione della rivelazione coranica.
L’obiezione che viene rivolta a questa posizione afferma che l’aspetto comunitario non realizza la libertà del singolo, semmai la limita: “La mia libertà finisce dove inizia la libertà dell’altro”. In questo senso la libertà del singolo deve essere protetta dalle pressioni della comunità. Questa visione delle cose trascura la natura intrinsecamente relazionale della persona. Persona-comunità, come anima-corpo e uomo-donna rappresenta una delle polarità costitutive di un’antropologia adeguata. Essa postula un’unità duale perché è per sua natura drammatica in quanto l’uomo è sempre in azione. Solo nella relazione l’uomo scopre pienamente la sua natura e perciò solo all’interno della comunità egli può esercitare in modo pieno la sua libertà. L’educazione allora è adeguata solo se tiene conto di questo aspetto profondo della natura umana. Essa possiede una intrinseca dimensione comunitaria e per questo, in un certo senso, non può che essere un fatto di popolo. Qui nasce però un’obiezione legittima: cosa succede quando la scelta dei singoli mette in discussione l’identità comunitaria? E fino a che punto la comunità può intervenire per preservare la sua identità minacciata dalla scelta di singoli? Capiamo bene l’urgenza di queste domande se consideriamo il caso serio della libertà religiosa: la libertà di conversione. Se consideriamo ad esempio quello che sta succedendo in Algeria[12] dove lo Stato ha preso una serie di misure gravemente restrittive della libertà religiosa e di culto di fronte al crescere delle conversioni di musulmani al cristianesimo evangelico, è ovviamente essenziale riconoscere che l’identità comunitaria non può spingersi fino a violare la libertà della coscienza del singolo e quindi impedirgli di passare ad un’altra religione. Tuttavia questa delicata questione non deve condurre a contrapporre soggetto personale a soggetto comunitario. Infatti anche quest’ultimo deve fare i conti con la storia per aderire alla verità.
La scelta del Concilio Vaticano II di rappresentare la Chiesa, nel secondo capitolo della Costituzione Dogmatica Lumen gentium, con l’immagine del Popolo di Dio si rivela in questo particolarmente feconda. Infatti non solo permette di includere gradualmente nella prospettiva evangelica, secondo la famosa immagine dei cerchi concentrici coniata da Paolo VI nella Ecclesiam Suam[13], ebrei, uomini delle religioni e uomini di buona volontà, ma soprattutto perché mostra l’inevitabile carattere storico del cammino della Chiesa. Questo fatto è così vero che persino i dogmi, cioè uno degli aspetti della vita della Chiesa che più scandalizzano la cultura contemporanea perché considerati illegittime attestazioni autoritative di una verità, sono proposti all’interno di una storia. Ciò non significa che tale formulazioni siano realtà in continuo divenire e quindi soggette ad ulteriori riformulazioni che abbandonino il dettato definito. Al contrario, in quanto espressioni di verità rivelate definite dal Magistero solenne della Chiesa, sono indisponibili. Ma i dogmi aiutano l’incessante approfondirsi della Rivelazione che è all’opera nella storia. Come scriveva l’allora professor Ratzinger interrogandosi sulla possibilità di una considerazione storica del dogma: «Per tradizione non si deve intendere una somma di asserti ben strutturati e da tramandare intatti, ma l’espressione della progressiva assimilazione attraverso la fede della Chiesa del fatto testimoniato nella scrittura […] Identità e trasformazione costituiscono dunque l’essenza della storia […]: dove c’è pura identità non è avvenuto nulla, dove c’è semplice diversità altrettanto non si può parlare di storia»[14].
E anche l’Islam, nonostante l’immagine che tende a rappresentarlo come un blocco monolitico e immutabile, ha spesso tentato, soprattutto attraverso il diritto, di tradurre il messaggio della rivelazione nella concretezza delle circostanze storiche e dei contesti sociali sui quali si innestava, elemento senza il quale non si spiegherebbe la sua diffusione universale[15].
3. Testimoni del Vero-Bene
L’impegno della libertà umana nei confronti della verità è la coordinata che deve guidare il cammino dei cristiani nel mondo e nell’incontro con i fratelli delle altre religioni. Questo domanda a tutte le comunità cristiane un’instancabile compito educativo. Il modo più fecondo per attuarlo è percorrere la strada della testimonianza. Il testimone infatti è colui che paga di persona per documentare la forza salvifica della verità. Così facendo coinvolge, con tenace energia, la libertà dell’altro nella preziosa avventura del riconoscimento del volto splendente della Verità quale Bene di ogni circostanza e di ogni rapporto. «Vagliate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Ts 5, 21): l’invito di Paolo ai Tessalonicesi è il manifesto del libero assenso cristiano alla verità che è Gesù Cristo, centro del cosmo e della storia.
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[1] Ho approfondito questo argomento in: A. Scola, Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Marsilio, Venezia 2007, 99-109.
[2] Agostino, Tractatus in Io 26, 5.
[3] In essa, tanto è avvertita la decisività del nesso tra l’uomo e la verità che l’orientalista tedesco Franz Rosenthal ha potuto descrivere l’intera civiltà arabo-islamica a partire dalla categoria di “conoscenza”: cfr. F. Rosenthal, Knowledge Triumphant, E. J. Brill, Leiden 1970.
[4] G. Vattimo, I lumi soffusi e deboli così li preferisco, in La Repubblica 4 gennaio 2001.
[5] Alcuni estratti della quale saranno pubblicati nel numero 8 di Oasis, dedicato appunto al tema della libertà religiosa.
[6] D. Novak, The Theological Claim to Religious Liberty, Princeton University, James Madison Program in American Ideals and Institutions, Lectures on Religious Liberty, 22 novembre 2004, pro manuscripto, 1.
[7] Giovanni Paolo II, Redemptoris missio 7
[8] Novak, op. cit., 7-10.
[9] Ibid., 10
[10] Ibid., 13
[11] Ibid., 12
[12] Anche questo tema sarà trattato sul numero sul numero 8 di Oasis attraverso la preziosa testimonianza di S.E. Mons. Teissier, Arcivescovo emerito di Algeri
[13] Cfr. Ench. Vat. 2, nn. 200-206.
[14] J. Ratzinger, Il problema della storia dei dogmi nella teologia cattolica, in Natura e compito della teologia, Jaca Book, Milano 20052, 122-123.
[15] In questo senso ho trovato molto felice un’espressione utilizzata dal Prof. Francesco Botturi, che nel giugno scorso ad Amman, in occasione del Comitato Scientifico di Oasis, ha parlato della libertà come «storia della verità».