Oltre i fallimenti del mercato e dello Stato

di Flavio Felice*

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ROMA, giovedì, 2 aprile 2009 (ZENIT.org).- In un editoriale pubblicato dal “Corriere della Sera” di lunedì 16 marzo 2009, intitolato “Il mercato nell’angolo”, il professor Angelo Panebianco ha sostenuto la seguente tesi: la decisione del ministro Tremonti di affidare ai prefetti il monitoraggio delle attività del credito per affrontare l’attuale crisi risponde alla ricerca, da parte del Ministro, di un referente culturale nell’ordoliberalismo della scuola di Friburgo.

A questo punto Panebianco, con riferimento alla teoria dell’economia sociale di mercato, sostiene che essa abbia oltre a dei meriti anche una potenziale ambiguità: cioè che in essa l’accento possa cadere, a seconda delle circostanze, sul sostantivo mercato oppure sull’aggettivo sociale e in quest’ultimo caso, essendo al politica chiamata a svolgere un ruolo più attivo, rischia di rendere lo Stato sempre più ingerente. Insomma, c’è il rischio che il mercato rimanga relegato in un angolo e che la sfiducia nell’autonomia cresca sempre più.

Panebianco ha il merito di toccare un nervo scoperto. In particolare, egli riferisce di una disputa avvenuta durante la riunione della Mont Pèlerin Society del 1949. La fonte, in tal caso, è un saggio di Wilhelm Röpke, il quale riporta la cronaca della vivace discussione che intercorse tra Ludwig von Mises ed Walter Eucken, avente per oggetto la visione che i liberali dovrebbero sostenere in merito al problema del monopolio, nonché sul ruolo che il potere esecutivo e la legge dovrebbero svolgere in tale materia. Le due prospettive si fondano su due concetti ben distinti; per quanto riguarda l’austroliberalismo di Mises, l’idea del mercato come un ordine spontaneo “non ostacolato”; per quanto riguarda l’ordoliberalismo di Eucken, l’idea del mercato inteso come “ordine costituzionale”.

Panebianco giudica potenzialmente ambigua la posizione di Eucken, ma ad una riflessione attenta, anche il concetto misesiano di “ostacolo” si presterebbe a qualche ambiguità e sarà il suo stesso allievo Hayek ad evidenziarlo. Sulla scorta della teoria ordoliberale, in materia di misure di politica economica, esistono almeno due tipologie, le misure che consistono nell’intervento all’interno dei processi di mercato e, di contro, quelle che definiscono il quadro istituzionale, fornendo i termini generali in forza dei quali le transazioni del mercato possono regolarmente svolgersi. In particolare, Hayek – a differenza del suo maestro Mises e in maggiore sintonia con l’ordoliberale Eucken – ha enfatizzato la differenza tra queste due tipologie: le “interferenze” e gli “interventi”, le prime incompatibili, le seconde conformi all’ordine di mercato.

Sicché, pur volendo accettare la definizione misesiana e hayekiana di mercato come “gioco catallittico”, l’idea stessa di gioco rinvia a quella di regole, così come quella di giocatore rimanda alla presenza di un arbitro che faccia rispettare le regole. Ne consegue che gli stessi fautori del mercato misesianamente inteso: “non intralciato”, nel momento stesso in cui ammettono che il mercato è come un gioco, devono convenire che non esistono mercati senza regole e non possono non riconoscere che le regole impongono la presenza di qualcuno che vigili e che sanzioni le eventuali infrazioni. In tal modo, il problema appare superato alla radice, in quanto la questione non è più riducibile alla domanda: “intervento si, intervengono no”, “mercato aperto”, “mercato nell’angolo”, ma si tratta di stabilire quali interventi riteniamo opportuni, ossia conformi, in quanto s’inquadrano hayekianamente in un “ordine di mercato non intralciato”, ma non per questo privo di interventi conformi allo stesso mercato.

Tornando all’ambiguità evidenziata da Panebianco, ci chiediamo quando un intervento sarà conforme. È necessario rilevare che per Röpke – ma a questo punto si considerino le analogie anche con il liberalismo sturziano – “conforme” non è sinonimo di “raccomandabile”. Egli intende per “conforme” quegli interventi dello Stato che non sopprimono la “meccanica dei prezzi” e “l’autogoverno del mercato”, ma che al contrario si inseriscono in esso, offrendosi come “nuovi dati”, e che possono essere assimilati dallo stesso mercato. Non conformi saranno quegli interventi che distruggono la meccanica dei prezzi, sostituendola con “un ordine economico programmatico cioè collettivo”. È qui che l’ordoliberalismo incontra il popolarismo di Sturzo.

Un secondo pilastro sul quale poggia l’economia sociale di mercato è la distinzione tra interventi di conservazione e interventi di adeguamento ovvero di assestamento. Come nel caso della distinzione tra interventi conformi e non conformi, anche in merito a questa seconda distinzione, Röpke intende andare oltre i dogmi del laissez-faire e del tradizionale interventismo, tesi a mantenere inalterati gli assetti economici. Mutuando un’analogia di Sturzo del 1928 tra l’internazionalizzazione dei mercati e la potenza del fiume, Röpke sostiene che la cifra della congruità, ovvero della conformità, di un intervento è data dalla sua capacità non tanto di alzare muri che non reggeranno l’onda d’urto del terremoto che si starebbe per abbattere su una realtà economico-produttiva o lasciare che il sisma abbatta tutto ciò che si oppone alla sua forza distruttrice, quanto di guidare, mitigare la forza del sisma, limitandone il più possibile i danni.

Fatto salvo che a nessun teorico dell’economia sociale di mercato sarebbe passato per la mente di mettere l’attività creditizia sotto il controllo prefettizio – semmai in ottemperanza al principio di sussidiarietà avrebbe chiesto l’abolizione delle prefetture –, è lecito affermare che il richiamo di Tremonti all’economia sociale di mercato non sia del tutto chiaro; per gli ordoliberali il mercato è la più alta forma di collaborazione (cum-petere), altro che “mercatismo”! Se da un lato Panebianco ha ragione ad affermare che la teoria dell’economia sociale di mercato è suscettibile di qualche ambiguità, credo che proprio questa ambivalenza possa rappresentare la sua stessa forza. Solo le ricette ideologiche sono rigide ed incontrovertibili, impermeabili alla storia e alla contingenza, specchio di un mondo e di un’economia in “bianco e nero”. L’azione politica è un’arte e l’economia sociale di mercato ha il merito di non ingabbiare il soggetto che agisce negli schemi mentali di “quelli che” il mercato ovvero lo Stato a tutti i costi.

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Il prof. Flavio Felice è docente di Dottrine economiche e politiche alla Pontificia Università Lateranense e di Filosofia dell’Impresa alla LUISS Guido Carli di Roma; è inoltre direttore della Fondazione Novae Terrae e presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton.

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ZENIT Staff

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