Wojtyla, il "Papa operaio" che parlò di speranza

Dibattito sulla speciale coincidenza della beatificazione con la festa del lavoro

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di Mariaelena Finessi

ROMA, venerdì, 22 aprile 2011 (ZENIT.org).- Ponte tra due mondi, di Wojtyla si ricorda il suo essere stato mediatore tra l’etica e il lavoro. Un’opinione diffusa, raccontata in un convegno, il 20 aprile a Roma, al Palazzo della Cancelleria. A motivarla, tra gli altri, il cardinale Renato Raffaele Martino, l’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti, il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni e il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi.

Il Papa che ha dato voce all’homo ergaster, simbolicamente – non sfugge la coincidenza – sarà proclamato beato domenica 1 maggio, appunto festa dei lavoratori: evento «eccezionale e inusuale», lo definisce l’ex leader di Rifondazione Comunista, Bertinotti. E in fondo si tratta della beatificazione di colui che, in rete, è definito “prete operaio”: quando le forze di occupazione naziste chiusero l’università, il giovane Karol Wojtyla entrò nella Solvay polacca, lavorando per quattro anni nelle cave di pietra di Zakrzowek, poi alle caldaie di Borek Falecki e Nowa Huta.

Uomo realmente capace di ascolto, «guardava l’altro – continua Bertinotti, che non ha mai nascosto la sua stima per Giovanni Paolo II – come uno da cui imparare. Mi torna in mente una sua frase su Gandhi: “I cristiani potrebbero imparare da lui a essere più cristiani”». Una capacità di sguardo che ha promosso negli altri un atteggiamento di rispetto, attenzione e ascolto: «È questo, secondo me, che ha reso così potente la presenza di questo Pontefice nella storia, in un periodo che non era più lo stato di grazia dell’immediato dopoguerra, parlando dell’Europa occidentale ovviamente, e neanche la fase della “speranza ascendente”».

Wojtyla seppe rilevare l’aspetto profetico nel tempo di crisi, intesa come transizione e smarrimento di senso. «Non ho titolo per parlare dell’uomo della speranza – si giustifica Bertinotti – ma ho creduto di leggervi una grande lezione per tutti gli uomini». Alla fine del Novecento c’è la possibilità di uscire dalla condizione di spogliazione dei popoli. Un nuovo ciclo veniva alla luce e nel 1978 saliva al soglio pontificio un Papa operaio, che ha restituito al mondo, cattolico e laico, ben tre encicliche sul lavoro, la “Laborem exercens”, la “Sollecitudo Rei Socialis” e la “Centesimus Annus”.

Con il pontificato del Papa polacco ha avuto inizio una straordinaria stagione in cui Giovanni Paolo II si è posto contro il macchinismo che spegne la soggettività e, dunque, la dignità. «Dal peccato originale nasce il lavoro come condanna ma non bisogna essere cattolici – conclude l’ex presidente della Camera – per apprezzare la cosiddetta causazione ideale del superamento del lavoro servile». In poche parole cade la possibilità di giustificare l’occupazione servile. Di più, la tesi aristotelica per cui alcuni uomini nascono schiavi viene estirpata alla radice.

Il politico che nel 2000 regalò a Wojtyla, per il compleanno, un catalogo di fine ‘800 delle Società di mutuo soccorso, «punto di incontro tra la carità cristiana e la nostra concezione della dignità del lavoratore», cita la Lettera ai Galati di San Paolo: «Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato (…). E non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo. Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti».

Il cardinale Martino, per 16 anni alle Nazioni Unite in rappresentanza della Santa Sede, ricorda di essere stato scelto da Wojtyla per dare aiuto ai rifugiati, «unica condizione posta al mio mandato», spiega. Gli ultimi, i sofferenti, coloro che non avevano un lavoro erano nel cuore di Giovanni Paolo II, «che ha assunto su di sé la sofferenza degli altri – gli fa eco Bonanni -, avendola provata lui stesso» da operaio e “osservato speciale” nella Polonia dei nazisti prima, e dei comunisti poi.

Da lavoratore, «appena eletto Papa – continua il leader della Cisl – ha reso tante visite alle fabbriche, ai cantieri e alle imprese». Anche se «il dato essenziale nel suo rapporto con il mondo del lavoro – secondo Bonanni –  è stato quello di aver speso per il sindacato parole in piena controtendenza, in un momento in cui molti e agguerriti erano i detrattori del sindacato. Giovanni Paolo II disse una cosa che ci squarciò il cuore, e cioè che il sindacato è connaturato alla natura dell’uomo che questi ha bisogno di difendersi dallo sfruttamento».

Il ministro del Lavoro, da parte sua, collega il tema del lavoro, presente in Giovanni Paolo II, ad un altro tema che ha caratterizzato tanto il Magistero del Papa polacco quanto quello di Benedetto XVI, e cioè il valore della vita. «La possibilità per i nostri giovani di entrare e restare nel mondo del lavoro – chiarisce – non si fonda solo sulle competenze e le conoscenze». Ricordando quanto sia parte dell’essere giovani «sentire l’anelito per ciò che è grande e che va oltre la sicurezza del lavoro», Sacconi spiega che c’è un nesso tra il valore cristiano del sapersi dedicare agli altri e la riuscita nel mondo occupazionale.

«Nel momento in cui si riconosce il valore della persona, si riconosce il valore della vita. Io non vedo possibile – ribadisce il ministro – l’attitudine al senso del lavoro senza il senso della vita». E così «se un giovane, di fronte ad un familiare, un amico o un affetto che vive uno stato di fragilità, si gira dall’altra parte, chiediamoci se può mai essere produttivo nel lavoro. L’assistenza amorevole, l’esserci, il non voltarsi è infatti precondizione per una professionalità e una occupabilità piena che sia fondata sullo sviluppo integrale della persona».

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ZENIT Staff

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