di padre John Flynn, LC
ROMA, domenica, 21 agosto 2011 (ZENIT.org).- Mentre si avvicina il 10° anniversario degli attentati dell’11 settembre, si continua a discutere sul ruolo della religione nei conflitti e nella politica.
Un valido contributo su questo argomento viene da un recente libro dal titolo “Religion, Identity, and Global Governance: Ideas, Evidence, and Practice” (University of Toronto Press), a cura di Patrick James, della University of Southern California. Esso contiene gli atti di una conferenza che si è svolta nell’ottobre del 2007.
In uno degli interventi riportati nel libro, Jonh F. Stack, docente della Florida International University, mette in discussione la teoria sulle relazioni internazionali. Secondo Stack, già prima degli eventi dell’ultimo decennio era chiaro che la religione, lungi dall’essere scomparsa, rappresenta ancora una potente forza globale.
Nell’ambito degli Stati Uniti, per esempio, l’influenza protestante ed evangelica ha svolto un ruolo primario nella politica interna. La religione è tornata nei Paesi dell’ex Unione sovietica dopo il crollo del comunismo e l’influenza dell’Islam è evidente in Africa, Asia ed Europa.
Ciò nonostante, Stack osserva che la scienza delle relazioni internazionali ha ampiamente ignorato il ruolo della religione. In molti casi, prestigiosi studiosi di scienze sociali, nel XX secolo, teorizzavano che la religione fosse non solo irrilevante, ma che sarebbe progressivamente scomparsa.
La persistenza della religione e la sua evidente influenza nella politica ha poi costretto a modificare questa aspettativa. La religione è rilevante – spiega Stack – poiché costituisce una dimensione fondamentale della vita umana, che si manifesta nella cultura, nella tradizione e nella visione del mondo.
“La fede religiosa può non essere gradita agli scienziati sociali occidentali che studiano il comportamento di individui, gruppi, movimenti sociali o Stati, ma essa risuona profondamente nei valori fondamentali e nelle scelte”, afferma Stack.
Detto questo, egli ammette che è talvolta difficile valutare il ruolo specifico della religione e discernere i casi in cui la religione è una mera copertura di altri fattori come quelli etnici, culturali o di gruppi di potere.
Contraccolpo
Nell’ultimo decennio vi è stata certamente un’esplosione nella ricerca sulla religione e sugli affari internazionali, sostiene Ron E. Hassner nel suo contributo. Hassner, ricercatore presso l’Università della California Berkeley, afferma che dopo l’11 settembre sono stati pubblicati più libri sull’Islam e la guerra che in tutto il periodo precedente sin dall’invenzione della stampa.
Egli deplora ciò che definisce un “rabbioso contraccolpo laicista”, che ha caratterizzato un buon numero di libri.
“Liquidare la religione come una pericolosa forma di demenza collettiva non è solo irragionevole, ma è anche inutile perché non si può allo stesso tempo rigettare e comprendere la religione”.
Autori come Richard Dawkins, Sam Harris, e Christopher Hitchins mostrano un impudente doppio registro, accusa Hassner. Ovunque la religione è associata alla guerra, questi autori affermano l’esistenza di un nesso causale. Allo stesso tempo liquidano come inconsistente qualunque associazione tra la religione e la promozione dell’etica, della cultura o della scienza.
Nel suo contributo, Cecilia Lynch, docente dell’Università di California, propone un approccio allo studio della religione nettamente diverso da quello di Dawkins e altri. È importante considerare la pratica della religione e non solo la dottrina, afferma.
Bisogna anche capire che gli orientamenti etici che la religione fornisce lasciano sempre spazio per interpretazioni diverse. Le dottrine e le tradizioni religiose – afferma Lynch – non possono mai coprire tutte le eventualità, nell’indirizzare il comportamento.
Inoltre dovremmo considerare la fede e l’azione religiosa come plasmata dalle circostanze e tradizioni storiche, oltre che dai fattori economici e sociali contingenti.
Un ambito della religione su cui si incentra Lynch è il suo coinvolgimento nell’attività umanitaria. A causa di alcuni conflitti che negli ultimi decenni hanno coinvolto cristiani e musulmani, le rispettive organizzazioni umanitarie hanno iniziato a lavorare insieme.
Inoltre, gruppi laici hanno dovuto adattarsi per poter lavorare nelle società a maggioranza musulmana. Tuttavia, sin dagli eventi del 2001, alcuni Paesi guardano con sospetto alle organizzazione umanitarie islamiche.
Guerra giusta
James L. Heft, sacerdote marianista e professore della University of Southern California esamina la dottrina della guerra giusta e di come è stata interpretata dal Papa Giovanni Paolo II.
Secondo Heft, Giovanni Paolo II ha sviluppato un’idea di guerra giusta che ha reso più difficile giustificare la guerra e l’ha anche collocata nell’ambito di un quadro etico che dà priorità ai mezzi pacifici di risoluzione dei conflitti.
Questa tendenza è iniziata ben prima di Giovanni Paolo II, spiega Heft. Dopo che la Chiesa cattolica ha perso i territori del suo potere temporale, è diventata più libera di difendere in pienezza i diritti degli altri e di opporsi maggiormente alla guerra. Questa evoluzione è particolarmente evidente nell’enciclica del Papa Giovanni XXIII “Pacem in terris”, pubblicata nel 1963.
Il 4 ottobre 1965, Papa Paolo VI, rivolgendosi alle Nazioni Unite, ha esclamato “Non più la guerra, mai più la guerra”.
Arrivando a Giovanni Paolo II, Heft ricorda come, sia nelle sue encicliche che nei suoi discorsi, il Papa ha ripetutamente difeso i diritti umani e contrastato la guerra. Non ha del tutto escluso la guerra, ma l’ha maggiormente limitata e circoscritta.
Gli eventi del 1989, che hanno visto la liberazione dell’Europa orientale in modo pacifico, hanno confermato la convinzione del Papa nei metodi non violenti, afferma Heft. Cosa che ha illustrato dettagliatamente nella sua enciclica “Centesimus annus”. Qualche anno dopo Giovanni Paolo II ha fortemente osteggiato l’invasione dell’Iraq.</p>
Eppure – sottolinea Heft – Giovanni Paolo II ha sostenuto, con prudenza, il rovesciamento del Governo talebano in Afghanistan. Nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace 2002 ha detto che esiste un diritto a difendere se stessi dal terrorismo. Egli ha inoltre sostenuto l’intervento umanitario nei territori dell’ex Yugoslavia.
Nell’insieme la consapevolezza di Giovanni Paolo II delle conseguenze della guerra l’hanno reso molto riluttante ad appoggiare le azioni di forza, ma non è corretto dipingerlo come un pacifista, conclude Heft.
Mediazione
Riguardo al tema della pace, Robert B. Lloyd tratta l’argomento dell’approccio religioso alla risoluzione dei conflitti. Lloyd, professore della Pepperdine University, sottolinea che personalità come l’ex Segretario di Stato USA, Madleine Albright, hanno affermato che la diplomazia religiosa è uno strumento utile della politica estera.
Lloyd incentra la sua attenzione sul Cristianesimo. Nel mondo non mancano i mediatori – sottolinea – ma quelli cristiani si differenziano dagli altri per le particolari caratteristiche della comunità religiosa in cui ricevono la loro formazione.
Riguardo alla Chiesa cattolica, Lloyd ne ricorda la lunga storia di mediazione. Il Trattato di Tordesillas, del 1494, mediato da Papa Alessandro VII, ha posto fine al conflitto tra Spagna e Portogallo sul controllo delle nuove terre scoperte in Asia, Africa e le Americhe.
Più di recente, nel 1984 è stato firmato un trattato tra il Cile e l’Argentina per risolvere una controversia sulle isole le Canale di Beagle. La mediazione della Chiesa ha contribuito a risolvere un conflitto che ha visto i due Paesi sull’orlo della guerra.
Lloyd ricorda anche l’azione della Comunità di Sant’Egidio di Roma, che ha svolto un ruolo chiave nella conclusione del conflitto durato 15 anni in Mozambico.
Esistono degli elementi caratteristici propri della mediazione cristiana? Lloyd ne identifica alcuni. I cristiani pongono l’accento sulla riconciliazione o sulla costruzione di nuovi rapporti dove prima non ne esistevano.
Un’altra caratteristica è quella di cercare un esito che sia giusto. Il grande tema della giustizia che si fonda nelle Scritture fornisce ai cristiani una forte motivazione rispetto agli altri mediatori.
Una terza caratteristica individuata da Lloyd è la preferenza dei cristiani per la negoziazione e in particolare per l’instaurazione di canali di comunicazione tra le parti in conflitto.
Come i loro colleghi laici, i mediatori cristiani non sempre riescono nei loro intenti, ma secondo Lloyd l’evidenza dimostra come una forte identità religiosa non sia solo fonte di conflitto ma anche strumento di pace e riconciliazione.