L'educazione oggi: oltre le ideologie al servizio della persona / 2

Intervento del prof. Belardinelli al Simposio “Educazione e nuova evangelizzazione” (Testo completo)

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Riprendiamo di seguito il testo integrale dell’intervento tenuto ieri, venerdì 31 gennaio 2014, dal professor Sergio Belardinelli, dell’Istituto Redemptor Hominis, al Simposio “Educazione e nuova evangelizzazione”, in corso a Roma.

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L’educazione conosce oggi una crisi che forse non ha precedenti. Venuti meno certi automatismi del passato che la rendevano una sorta di processo meccanico, visto che era chiaro a tutti – maestri, genitori, allievi – chi dovesse fare che cosa, l’educazione sembra essere sprofondata in una sorta di magma indifferenziato. La crescente individualizzazione che ha contrassegnato lo sviluppo della società moderna ha prodotto senz’altro una maggiore attenzione alla libertà e all’autonomia delle persone, ma anche la generale frammentazione che caratterizza la nostra tarda modernità. L’indebolimento dei legami sociali in generale e una libertà declinata come libertà di fare ciò che ci piace, senza guardare alla responsabilità e all’importanza di sapere perché voglio fare una determinata cosa, ha fatto sì che anche sul piano educativo si incominciasse pirandellianamente a recitare a soggetto. Famiglia e scuola sono state lasciate per anni nel loro spaesamento educativo dal potere pubblico, ma oggi, specialmente in Europa, registriamo una sorta di riscossa ideologica da parte degli stati, sempre più desiderosi di riprendersi il monopolio educativo, esautorando le famiglie e cercando di dare alle scuole un fastidioso compito “laicista”. Credo insomma che ce ne sia abbastanza per essere preoccupati. Ma c’è purtroppo qualcosa di più preoccupante ancora, specialmente per chi ha a cuore l’educazione e l’evangelizzazione.  Sotto la pressione degli eventi  cui ho fatto cenno, sembra essersi eclissata, infatti, sia la concezione dell’uomo, dalla quale, pur con alterne vicende e con errori a volte clamorosi, la pratica educativa ha tratto per secoli il suo significato, sia il contesto socio-relazionale all’interno del quale la vita umana appare come la vita di un “io”, che non è soltanto un “cittadino”, un fascio di ruoli, o una qualche “abilità professionale”, ma una vita unitaria, una vita intera, una biografia valutabile come un “tutto” (1).

L’epoca tardomoderna nella quale viviamo ha frantumato sia l’unità del contesto socio-culturale all’interno del quale ognuno di noi agisce, sia l’unità del nostro io. Come ha mostrato Niklas Luhmann, la società odierna è una società “differenziata”, dove i diversi sistemi sociali tendono a operare in modo sempre più autoreferenziale, sempre più chiusi l’uno rispetto agli altri. Si tratta di un processo che indubbiamente ha portato con sé innumerevoli vantaggi materiali e funzionali, come pure un aumento di libertà individuale. Ma oggi ciò che sembra vacillare è proprio la centralità dell’uomo e della sua libertà. La società differenziata in modo funzionale è una società i cui sistemi parziali funzionano sempre di più in modo autopoietico, sono sempre più chiusi l’uno rispetto all’altro; soprattutto il loro funzionamento sembra guidato sempre più da codici che non hanno nulla a che fare con l’”umano”. Come dice espressamente Luhmann, “l’uomo non è più il metro di misura della società”. In quanto sistema autopoietico, l’uomo vive nell’ambiente del sistema sociale, non fa più parte della società. Siamo quindi di fronte a un processo paradossale che esprime assai bene quella che potremmo definire come l’irresistibile ascesa e la conseguente rovina del soggetto moderno. Cerco di spiegarmi brevemente.

Almeno nelle sue varianti più note, il soggetto moderno vuole essere sempre più “individuo”, sempre più autonomo e libero da qualsiasi legame sociale che inibisca la sua spontaneità e la sua creatività; la sua libertà si configura soprattutto come emancipazione dai cosiddetti legami tradizionali. Ebbene è come se Luhmann ci dicesse che questo soggetto ha coronato oggi, nella società differenziata, il suo sogno. Egli in effetti è sempre più libero di fare quello che gli pare su ogni fronte della sua vita, a cominciare da quando va a scuola, dove, almeno in apparenza, a nessuno viene più in mente di frenare la sua spontaneità. Il prezzo che però deve pagare è la sua solitudine, il suo spaesamento e la sua crescente irrilevanza sociale. La società funziona come se il soggetto non esistesse.

Come ho già detto, abbiamo perduto il “contesto” della nostra vita, ossia il legame costitutivo di ciascuno di noi con la storia o le storie che contraddistinguono ciò che siamo. In una parola, abbiamo perduto la costituzione relazionale del nostro essere uomini, la consapevolezza che abbiamo bisogno di educazione, non per soddisfare questo o quel principio ideologico, ma per il semplice fatto di essere nati uomini. Abbiamo bisogno di educazione, non per diventare buoni cattolici o buoni cittadini, ma semplicemente per trovare la nostra strada, per sentirci a casa nel mondo che abitiamo e diventare ciò che siamo: uomini, appunto; persone, la cui irripetibile unicità si esprime sempre in un tessuto di relazioni costitutive.

In una società “ipotetica”, orgogliosa della propria “debolezza” normativa e intellettuale, quale è quella in cui viviamo, la libertà di ciascuno di orientare a piacimento la propria vita è diventata una sorta di dogma da far valere in ogni ambito della vita individuale e sociale, quindi anche nelle istituzioni educative, le quali, proprio per questo, si pensi alla famiglia e alla scuola, sono finite per navigare a vista, senza una rotta precisa, né un obbiettivo sociale da raggiungere. La maggiore libertà di cui tutti godiamo, i grandi mezzi di comunicazione di cui disponiamo avrebbero esigito soprattutto maggiore responsabilità da parte di tutti i soggetti coinvolti nei diversi processi educativi. Invece abbiamo abdicato proprio su questo punto, generando una situazione paradossale e drammatica. Mai come oggi l’educazione è stata tanto necessaria, visto che, essendo tutti più liberi e più bombardati da tante “informazioni”,  siamo anche più esposti, specialmente i ragazzi e i giovani, al rischio di non venire a capo della nostra vita; e mai come oggi l’educazione è stata un bene tanto scarso. “Viviamo in una società del’informazione che ci satura indiscriminatamente di dati, e finisce per portarci a una tremenda superficialità al momento di impostare le questioni morali. Di conseguenza, si rende necessaria un’educazione che insegni a pensare criticamene e che offra un percorso di maturazione nei valori”, si legge nella Evangelii gaudium (n.64) di papa Francesco.

In questi anni abbiamo parlato molto di amicizia tra genitori e figli e tra maestri e allievi, molto di tecniche educative, ma troppo poco di educazione, ossia di responsabilità, serietà, doveri (anche da parte dei figli e degli allievi); abbiamo parlato troppo poco di bellezza, di passione, di questioni sostanziali collegate ai valori, alle convinzioni, alle tradizioni culturali dei popoli, senza accorgerci che in questo modo stavamo semplicemente fuggendo da noi stessi. E oggi lo scontiamo in termini di spaesamento, sradicamento, disagio sempre più profondo sia da parte degli adulti che dei giovani: i primi sempre più impauriti di fronte alle loro responsabilità, sempre più accondiscendenti e incapaci di testimoniare alcunché; i secondi sempre più esigenti, capricciosi e più esposti al rischio di cadere vittime di nuove forme di autoritarismo.

Proprio come hanno scritto Miguel Benasayag e Gérard schmit, siamo di fronte a una società che “oscilla costantemente tra due tentazioni: quella della coercizione e quella della seduzione di tipo commerciale. Così alcuni insegnanti cercano a volte di ottenere l’attenzione dei loro allievi mediante astuzie e tecniche di seduzione, perché la sola idea di dire “Mi devi ascoltare e rispettare semplicemente perché io sono responsabile
 di questa relazione” sembra ormai inammissibile. In nome della presunta libertà individuale, l’allievo o il giovane assumono il ruolo di clienti che accettano o rifiutano ciò che l’adulto-venditore propone loro. E quando questa strategia fallisce, non rimane altra via d’uscita che quella di ricorrere alla coercizione e alla forza bruta” (2).

Presi da una sorta di accidia educativa (Francesco, nellaEvangelii gaudium, n.82, parla di “accidia pastorale”), ci siamo erroneamente illusi che l’educazione potesse essere una materia da delegare a presunti “esperti”, dimenticando così le poche e semplici evidenze elementari su cui, da sempre, si fondano tutte le vere relazioni educative: convinzioni profonde, amore, esempio e, soprattutto, nessuna pretesa di essere padroni della situazione. Un progetto educativo, come del resto l’evangelizzazione, non è, non può essere, un progetto tecnico; è un processo di generazione di una persona e quindi sempre esposto al rischio della libertà che ciascuno di noi è (3). “L’ansia odierna di arrivare a risultati immediati- si legge sempre nella Evangeli gaudium, n. 82, fa sì che gli operatori pastorali non tollerino facilmente il senso di qualche contraddizione, un apparente fallimento, una critica, una croce”.

“La vita è ciò che accade mentre stai facendo altro”, cantava John Lennon. Non sono sicuro che avesse ragione. Ma certamente ci sono buone ragioni per pensare che la cosa valga per l’educazione. Davvero questa accade mentre stiamo facendo altro. Se ci pensiamo bene, le persone che hanno influito di più sulla nostra vita, lo hanno fatto grazie a ciò che, con l’esempio, con la parola, con uno sguardo, ci hanno insegnato implicitamente, non esplicitamente. Per questo è estremamente difficile e sbagliato trasformare l’educazione o, peggio ancora, l’evangelizzazione, in un protocollo da seguire.

Elusa la questione del significato vero dell’educare, di fatto abbiamo eluso anche la vera posta che è in gioco nell’educazione: un ideale di umanità, un ideale antropologico, tutta una tradizione, una storia, che ci interpellano e di cui dobbiamo farci carico, ognuno con la nostra libertà. Anziché puntare alla formazione della persona, ci siamo affidati alle metodologie, ai “saperi” da trasmettere, alla neutralità delle nozioni e dei valori insegnati, generando così disinteresse psicologico e relativismo ideologico, ma nessuna vera formazione. Non è casuale che in questo processo siano andati in crisi sia la funzione educativa della famiglia, sia il significato della tradizione, sia la figura del “maestro” chiamato ad attualizzarla con intelligenza, partecipazione e passione. Quanto ai nostri figli, essi non solo non sanno più nulla di storia, ma non conoscono più nemmeno il passato delle loro famiglie, il nome dei loro nonni. E’ venuto meno insomma il senso di appartenenza a una catena generazionale e, con esso, il senso di responsabilità di chi educa nei confronti di colui che viene educato, diciamo pure, il carattere “generativo” dell’educazione, vera chiave di volta di ogni proposta educativa degna del nome (4).

Lasciati a loro stessi, come aveva ben intuito Durkheim, gli uomini sono destinati a cadere vittime dei loro desideri senza fine (5). Proprio per questo ci vuole l’educazione e ci vogliono maestri capaci di insegnare. Ma è difficile avere l’una e gli altri se non c’è un patrimonio di valori e di saperi, diciamo pure, una tradizione, ritenuta degna di essere tramandata, per la quale, essendo considerata appunto un “bene”, è giusto esigere rigore, fatica, disciplina e, incredibile dictu, fiducia nel futuro. Proprio così: fiducia nel futuro. Il principio vitale della tradizione, infatti, non è tanto e non è solo il passato, la memoria, ma la capacità di assicurare continuità alle nostre vite, predisponendole al futuro e quindi alla speranza. Esattamente ciò di cui oggi abbiamo estremo bisogno. Si pensi soloalla nostra crisi demografica. Una società che non mette più al mondo i figli non è soltanto una società che invecchia, ma una società disperata, una società disperatamente aggrappata al presente e per questo, tra le altre cose, terrorizzata dalla vecchiaia e dalla morte. La nostra narcisistica indifferenza, se non addirittura disprezzo, nei confronti degli anziani e delle generazioni future, esprime emblematicamente la crisi antropologica di una cultura che ha perduto il senso del legame sociale, della sua tradizione e che quindi ha rinunciato al futuro, svuotando in questo modo la pratica educativa di ogni significato “formativo” per la persona. Non a caso, per dirla con le parole di Christopher Lasch, qualsiasi tentativo di avvicinare qualcuno a un determinato orizzonte di valoririschia oggi di venire considerato come un “attentato alla sua ‘libertà di scelta’”(6). A meno che non si tratti di propagandare “neutralità etica”, scientismo di varia natura, ma comunque sempre ostile alla tradizione antropologica dell’Occidente, o di rilanciare una pericolosa tentazione “statalista” sull’educazione. In questi casi, infatti,  si ritiene addirittura che sia giusto battersi, affinché certi valori vengano diffusi e assimilati. Si pensi a quanto accade in paesi come la Francia, dove, dopo l’approvazione della famosa “Charte de la laicité”, predisposta dal ministro Peillon, ci si prepara a introdurre nei licei, a partire dal 2015, un’ora di insegnamento di “morale laica”, oppure agli effetti che incomincia ad avere nei sistemi educativi europei i cosiddetti “Standard per l’educazione sessuale in Europa”, ispirati per lo più all’ideologia del gender, nonché all’idea che “Le principali fondi di informazione e di educazione sono: la scuola, i libri, i pieghevoli, i volantini e i CD-ROM educativi, i siti internet educativi, i programmi educativi e le campagne promozionali per radio e televisione, e d infine i servizi (sanitari)” (pp. 10-11). Come si può vedere, tutti sono potenziali educatori, meno che la famiglia. E la cosa è tanto più grave, proprio perché non si tratta di aritmetica, geometria o storia, ma di educazione sessuale. Quanto poi agli effetti concreti di questi documenti, è di martedì 10 dicembre 2013 la bocciatura, per un pelo (334 voti contro 327, con 35 astenuti appartenenti ai gruppi progressisti), da parte del Parlamento Europeo della famosa “risoluzione Estrela” (dal nome della parlamentare portoghese che l’ha elaborata), già bocciata il 22 ottobre 2013, secondo la quale, in nome della cosiddetta “salute sessuale e riproduttiva”, aborto e fecondazione per le coppie lesbiche diventano diritti umani, al pari dell’educazione alla contraccezione fin dalla più tenera età, dell’introduzione di corsi obbligatori sulla teoria del gender e la rieducazione degli insegnati renitenti, con l’ovvio corollario della limitazione dell’obiezione di coscienza. E, come se non bastasse, alle porte vediamo bussare con sempre maggiore insistenza l’ideologia del “postumanesimo”.

Per usare una distinzione di Nietzsche, questi segnali fanno pensare davvero che stiamo passando da una fase di “nichilismo passivo”, diciamo pure di indifferenza, a una fase di “nichilismo attivo”, ossia di imposizione di nuovi valori e modelli di comportamento. Lo spaesamento e la rinuncia a educare di ieri sta lasciando il posto a una strategia aggressiva, in nome della laicità e della libertà, ma non della libertà di educare, ad esempio. Un’ideologia sempre più arrogante ritiene che sia lo stato a stabilire in che cosa consista l’educazione e la scuola dovrebbe diventarne una sorta di braccio armato, dove, da un lato, si impara la laicità come ideologia e, dall’altro, si dice che ciò che conta è solo la comunicazione di saperi, come se la Bildung fosse riducibile a questi.  

Invece, proprio se abbiamo a cuore la libertà dei nostri giovani, c’è bisogno che l’educazione, la Bildung, torni ad essere veramente una “relazione ed
ucativa”, con l’unico scopo di aiutare l’uomo a essere stesso. Come disse Hannah Arendt, “la scuola deve essere conservatrice per preservare quanto c’è di rivoluzionario e di nuovo in ogni bambino”(7).

A differenza degli altri animali, gli uomini hanno bisogno di molto tempo per “trovarsi”, per imparare a dire “io”, per condurre una vita all’insegna dell’autonomia, della libertà e della responsabilità; hanno bisogno di relazioni significative con altre persone che li amino e, amandoli, sappiano schiudere loro la bellezza del mondo e della vita. Ciò che siamo, lo ripeto, dipende in primo luogo dalle persone che ci hanno amato e dall’educazione che abbiamo ricevuto. Ma proprio per questo mi sembra importante non dimenticare mai il significato di una vera relazione educativa.

Quando Hannah Arendt esorta la scuola a essere conservatrice, non vuol dire che la scuola deve tornare alle chiusure, agli autoritarismi e agli schematismi del passato; ci mette semplicemente in guardia dal rischio che la scuola si faccia troppo “sperimentale” e che, in questo modo, essa possa contribuire a creare sradicamento, mancanza di senso di ciò che si insegna e si fa. Può sembrare banale, ma ciò che contraddistingue un qualsiasi “esperimento” è la possibilità che esso fallisca. Quando si fanno esperimenti bisogna sempre mettere il fallimento nel conto. La scienza, si sa, impara proprio dai suoi errori; cresce addirittura grazie a questi. Ma non è così quando si parla di educazione. Un esperimento educativo fallito è una catastrofe senza compensi. La scienza pedagogica potrebbe trarne certo qualche insegnamento, ma per il bambino che ne ha fatto le spese è una perdita secca, una perdita irrimediabile, visto che non avrà più la possibilità di ripeterlo, di ritornare a scuola in un altro modo. 

E’ per preservare ciò che di “rivoluzionario” che c’è in ogni bambino, diciamo pure la sua “novità”, la sua capacità di trasformare il mondo nel quale arriva, che la scuola deve essere “conservatrice”. La nostra vita quotidiana, specialmente oggi, ci costringe a fare continuamente “esperimenti” d’ogni tipo. La maggiore libertà che ci siamo conquistati rende la vita individuale e sociale sempre più rischiose. Ma proprio per questo è diventata tanto importante l’educazione. Sono precisamente coloro che hanno avuto la fortuna di sperimentare autentiche relazioni educative ad avere maggiori possibilità di riuscita nelle nostre società complesse, trasformando gli “esperimenti” sociali quotidiani in opportunità di vita autonoma e libera; sono precisamente coloro che sentono di appartenere a una storia, a una trama generazionale, ad avere, non sembri paradossale, maggiori capacità di sfruttare al meglio le grandi opportunità del nostro tempo; sono coloro che hanno acquisito coscienza di sé, del proprio “io”, ad essere più capaci di incontrare e dialogare con gli altri.

A differenza di quanto sostiene un autore come Ulrich Beck, non credo che alla base della nostra capacità inclusiva nei confronti degli altri debba stare la “virtù della mancanza dell’orientamento”(8). Che le nostre vite siano diventate sempre più “policentriche”, che cioè si debba vivere perennemente “in viaggio in molti mondi (in senso proprio e figurato)”(9), oppure che si debba sviluppare “una cultura della disponibilità al rischio e alla creatività”(10); tutto questo possiamo anche assumerlo come un dato di fatto incontestabile, e Beck fa senz’altro bene a rimarcarlo, purché non significhi, però, che le nostre identità debbono diventare sempre più labili, mobili, flessibili e, in ultimo, indifferenziate. La flessibilità, la mobilità, la disponibilità al rischio e alla creatività sono infatti risorse di valore inestimabile per gli individui e per le società; ma, lo ripeto, solo chi ha un’identità, ossia convinzioni forti, riesce a sfruttarle a pieno senza disorientarsi; riesce a operare quelle “distinzioni inclusive” che per Beck sono il tratto di una capacità interculturale all’altezza dei tempi, senza scadere in uno sterile e vuoto indifferentismo. Il disorientamento non produce apertura; può produrre tutt’al più timore, incapacità di comprendere veramente sia ciò che è “altro”, sia ciò che ci è proprio e familiare, preparando così il terreno ideale per la chiusura e l’intolleranza.  Tanto più avremo invece consapevolezza della nostra identità e tanto più ci sarà facile dialogare autenticamente con tutti, praticare cioè quell’”universalismo-sensibile-alle-differenze”(11) di cui parla Habermas, capace di includere l’altro, salvaguardandone contemporaneamente la diversità. Se dunque ci pensiamo bene, anche questa nostra capacità inclusiva dipende dall’educazione, a dimostrazione di quanto l’educazione sia centrale per qualsiasi tema che abbia rilevanza antropologica.

Prima di concludere, vorrei sollevare un’ultima questione che riguarda specificamente l’evangelizzazione.  

Da quanto sono venuto dicendo, risulta chiaro come il clima culturale del nostro tempo renda l’evangelizzazione assai difficile. Se è vero che siamo di fronte a una vera e propria emergenza antropologica, ciò non può non intaccare le stesse condizioni di possibilità dell’evangelizzazione. Eppure, come mi capita di dire assai spesso, viviamo in un tempo che, per quanto difficile, è anche assai propizio per la fede cristiana. Ancora con le parole di Nietzsche, anche se in un senso radicalmente antitetico al suo, sembra davvero che dovevamo passare attraverso il nichilismo per comprendere veramente quale fosse il valore della tradizione cristiana dell’Occidente.

Individualismo, relativismo, ostilità nei confronti del ruolo pubblico della religione appaiono certo come i tratti dominanti della nostra cultura tardo moderna. Non vorrei tuttavia che si dimenticasse come tutto questo rappresenti in primo luogo una minaccia per l’individuo stesso, il quale, scardinato dalle sue relazioni costitutive e ridotto a pura autoreferenzialità, potrebbe trovare proprio nella fede cattolica un puntello prezioso per ritrovare la sua dimensione relazionale, familiare e personale. A sua volta, dal confronto con l’individualismo moderno la fede cattolica potrebbe essere aiutata, come peraltro è successo in questi anni, a valorizzare la centralità della persona umana, a farne una sorta di via privilegiata della chiesa e il fondamento stesso del proprio ruolo pubblico, nonché ad accantonare qualsiasi pretesa che la religione possa affermarsi contro la volontà degli individui, dei popoli e delle nazioni.

Ciò che voglio dire è che, proprio all’interno della chiesa cattolica, la crescente centralità della persona umana sta facendo crescere una evidente e promettente consapevolezza circa la centralità della questione educativa. Evangelizzazione ed educazione camminano insieme. E questo fa apparire sempre di più la stessa chiesa, fuori e dentro il mondo cattolico, come una sorta di ultimo baluardo a difesa della dignità e della libertà dell’uomo, nonché della migliore tradizione antropologica dell’Occidente.

Come ebbe a dire Benedetto XVI, nella sua Lettera alla Diocesi di Roma del 21 gennaio del 2008, le odierne difficoltà ad educare dipendono “da una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita”.

Si tratta pertanto di ricordarci sempre come sullo sfondo di ogni vera pratica educativa stia una domanda fondamentale: in che cosa consiste il bene dell’uomo? Educare è in ultimo un farsi carico di fronte ai nuovi venuti di questa domanda; è un assumersi una grande responsabilità, di fronte alla quale non possiamo fuggire dicendo che magari sarà il bambino a s
cegliere da grande in che cosa consisterà il suo bene. Questo infatti avverrà comunque. Ma il modo in cui avverrà dipenderà moltissimo, anche se, per fortuna, non in modo esclusivo, dall’educazione che avranno ricevuto.

A tal proposito qualcuno dirà che, in una società pluralista, esistono diverse concezioni del “bene” e che quindi non ha alcun senso che una di queste possa essere considerata il criterio da seguire nelle pratiche educative, senza che a rimetterci siano proprio il pluralismo, l’autonomia, la libertà e, quindi, la felicità degli individui. In fondo in questi ultimi anni ci siamo illusi che pluralismo e autonomia potessero significare una sorta di legittimazione di qualsiasi stile di vita La fatica dell’educazione ha lasciato il posto alla capricciosa spontaneità del desiderio. Ma oggi incominciamo a renderci conto che tale criterio non funziona più o almeno non è più sufficiente per garantire, sia sotto il profilo individuale che sociale, una vita soddisfacente. Proprio se abbiamo a cuore una società migliore, un maggior grado di benessere, una migliore qualità della vita individuale e sociale, non possiamo più rinviare una discussione di fondo sulle idee di vita buona o di felicità che intendiamo perseguire. A maggior ragione quando esse coincidono, come nel caso del cristianesimo, con la ricerca del “bene del prossimo”, della “felicità degli altri” (Evangelii gaudium, n. 272). Non discutere di queste idee, perché in una società pluralista esse stanno diventando sempre più controverse, significa fare come gli struzzi per non vedere quella che certamente è una delle cause non secondarie dell’odierna crisi dell’educazione, dell’evangelizzazione e dell’odierno malessere sociale. Ma per fortuna intorno a noi non mancano testimoni che con la loro vita ci dicono che un’altra strada è possibile.

A questo proposito c’è un passaggio nell’ultimo libro di Giovanni Paolo II, Memoria e Identità, che considero di fondamentale importanza proprio per l’educazione e l’evangelizzazione. E’ quello in cui, nell’intento di valorizzare a pieno il ruolo fondamentale della cultura nella vita dei popoli e delle nazioni, veniamo sollecitati, non tanto a elaborare una “teoria della cultura”, quanto a rendere “testimonianza alla cultura”(12). Si tratta di un ulteriore squarcio di luce aperto da questo grande Pontefice su una delle più intricate sfide del nostro tempo: il significato della propria identità e il confronto tra diversi. Il confronto con gli “altri”, con le culture “altre” non è mai soltanto un problema di tolleranza, di reciprocità o di integrazione; è certo anche questo; ma guai se resta soltanto questo, diventando magari un alibi per non mettersi in gioco fino in fondo, per nascondersi. E’ la nostra stessa umanità, l’umanità che condividiamo con tutti gli uomini del mondo, ad esigere che, nel confronto con coloro che la pensano in modo diverso da noi o che provengono addirittura da culture differenti dalla nostra, ciascuno di noi sia in primo luogo se stesso, un testimone creativo della propria identità. Altro che relativismo culturale. E’ su questa capacità di rendere testimonianza in ultimo alla dignità dell’uomo, alla convinzione, che come dice papa Francesco, “ognuno è immensamente sacro e merita il nostro affetto e la nostra dedizione” (E.G., n. 274), che si misura oggi la vera identità, la vera apertura, la vera universalità, al limite, la vera “superiorità” di qualsiasi posizione culturale. Di certo possiamo dire che in questa capacità si incarna la realtà spirituale del Cristianesimo.  E siccome le grandi realtà spirituali, quando esistono, hanno sempre il carattere di un compito da assolvere, credo che oggi (come sempre) il mondo intero abbia un grande bisogno di testimoni.

*

NOTE

1) Riavvicinare il tema dell’educazione al tema antropologico rappresenta forse una delle questioni più urgenti del nostro tempo. La crisi dell’educazione è non a caso anche e soprattutto una crisi antropologica. Cfr. COMITATO PER IL PROGETTO CULTURALE DELLA CEI, La sfida educativa, Bari, Laterza, 2009.

2) M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrielli, Milano 2005, p. 27.

3) Cfr. S. BELARDINELLI, La normalità e l’eccezione. Il ritorno della natura nella cultura contemporanea, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, parte seconda.

4) Il concetto è stato ben esplicitato nel primo capitolo del volume curato dal Comitato per il progetto culturale della CEI, La sfida educativa, cit.

5) Scrive Durkheim: “Quando si considerano i fatti quali sono e quali sono sempre stati, appare evidente che ogni educazione consiste in uno sforzo continuo per imporre al bambino modi di vedere, di sentire e di agire, a cui non sarebbe pervenuto spontaneamente. Fin dai primi tempi della sua vita lo costringiamo a mangiare, a bere, a dormire ad ore regolari, lo costringiamo alla pulizia, alla calma, all’obbedienza; più tardi, gli facciamo imparare a tener conto degli altri, a rispettare gli usi e le convenienze, lo costringiamo al lavoro e così via. Se col tempo questa costrizione non viene più sentita, ciò accade perché a poco a poco dà origine ad abitudini e a tendenze interne che la rendono inutile, ma che la sostituiscono soltanto perché ne derivano” (E. DURKHEIM, Le regole del metodo sociologico, Milano, Edizioni Comunità, 1969, p. 28).

6) Cfr. CH. LASCH, La cultura di massa in questione, in “Futuro Presente”, 1993, n. 4, pp. 77-90.

7) H. ARENDT, Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991, p. 238.

8) U. BECK, Che cos’è la globalizzazione, Firenze, Carocci, 1999, p. 22.

9) Ibid., p. 96.

10) Ibid., p. 176.

11) J. HABERMAS, L’inclusione dell’altro, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 55.

12) GIOVANNI PAOLO II, Memoria e Identità, Milano, Mondadori, 2005, p. 105.

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ZENIT Staff

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