Association football (soccer)

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Il calcio che deprime ed il calcio che guarisce

Il 35% degli atleti in attività soffre del “male di vivere”. Ma c’è una speranza…

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Nella settimana della giornata Mondiale per la Salute Mentale (sabato 10 ottobre) i quotidiani sportivi hanno riportato, forse casualmente, un dato del sindacato mondiale dei calciatori apparentemente allarmante: un calciatore su tre soffre di depressione.

Il dato numerico parla del 38% di ex calciatori e del 35% di calciatori in attività sofferenti di sintomi depressivi ed ansiosi rilevanti, il 23% in associazione con disturbi del sonno ed il 28% con abuso di alcol (fortunatamente solo l’8% di quelli attualmente in campo). Questi dati sono raccolti in paesi diversi dall’Italia, ma sono fortemente rappresentativi di una realtà comune a tutto il mondo, tanto nel calcio quanto al di fuori. 

La depressione colpisce nel mondo 125 milioni di persone, condizionandone la capacità di lavoro e di relazione. Nella sua forma più grave può portare al suicidio ed è responsabile di 850.000 morti ogni anno.

Il 15% dei soggetti che vivono nei paesi ricchi ha probabilmente sofferto di depressione nella loro vita contro l’11% degli abitanti dei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo. La percentuale di chi ha riferito un episodio di depressione nell’ultimo anno è del 5,5 %. In Francia, nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti, la percentuale arriva al 30%.

I dati ci dicono quindi che la depressione non guarda in faccia a nessuno e non risparmia il calciatore, malgrado nella sua immagine stereotipa ci appaia bello, felice, ricco, idolatrato. La realtà è quindi diversa da ciò che si possa pensare. La depressione colpisce indistintamente tutti coloro che, impegnando le proprie risorse psicofisiche, si ritrovino ad esaurirle. Le cause possono essere addebitate ad un eccesso di stress emotivo o ad una particolare sensibilità individuale. Spesso i sintomi di esaurimento delle energie mentali si accompagnano ad un segno d’allarme, l’ansia, che segnala in anticipo ed in maniera soggettivamente amplificata la condizione di disagio e di potenziale debito di risorse. 

Il calciatore professionista è certamente una persona sottoposta a pressioni emotive notevoli: da parte del coach, della società, dei compagni, dei tifosi, della stampa. Molto spesso è cresciuto lontano dalla famiglia e quasi sempre passa la vita professionale cambiando città di residenza e viaggiando mediamente ogni due settimane. Quei giocatori che manifestano qualità di resilienza minori, la capacità di resistere agli stimoli di adattamento alle situazioni, presentano un maggior rischio di depressione malgrado lo sport… anzi a causa dello sport. E questo è lo spunto di riflessione. Lo sport nasce per la salute, ci mette a confronto con i nostri limiti, fisici e mentali e ci permette di allenarci e confrontarci con essi. Spesso lo sport professionistico spinge l’atleta a superare questi limiti in nome del successo o del record e questo superamento è fattore di rischio per lo sviluppo della depressione.

In questa settimana, lo stesso sabato 10 ottobre, si è celebrata un’importante ricorrenza: 10 anni fa nasceva a Roma la realtà del Calciosociale. Un gruppo di ragazzi della Parrocchia di Nostra Signora di Coromoto decidevano di riscrivere le regole del calcio per riscrivere le regole della vita: ad arbitrare sono i capitani, un giocatore non può segnare più di tre gol a partita, le squadre sono miste, il rigore viene tirato dal calciatore di minor livello. Sono solo alcune delle regole speciali del torneo e il miracolo è che funziona: per chi lo pratica (io tra quelli) il Calciosociale non è solo un modello di gioco, ma diventa uno stile di vita improntato ai valori dell’accoglienza, della giustizia e dell’amore per se stessi e per l’altro, che viene visto come “dono”.

L’obiettivo, pienamente riuscito, era di creare un modello di società più giusto trasformando i campi di calcio in palestre di vita dove l’integrazione avviene quando le persone disagiate entrano a diretto contatto con gli altri. 

In questi 10 anni centinaia di persone hanno giocato al Calciosociale, a Roma ed in diverse parti d’Italia, combattendo la depressione, integrati con altri ragazzi ed adulti che hanno condiviso con loro gioie e sofferenze. Sono stati partecipi di un miracolo: il trionfo dei valori dello sport in una società che discrimina le persone con problemi di salute mentale negando loro i diritti più semplici… compreso quello a fare sport per la salute del corpo e della mente.

Mondi lontani il calcio professionistico e quello del Calciosociale: uno che genera stress e depressione e a volte passioni malate, l’altro che cura, integra e ci promette un futuro migliore… anzi una storia vincente ed un presente luminoso.

 

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ZENIT Staff

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