Domani, 22 ottobre 2015, saranno passati 71 anni dalla deportazione di Giovanni Palatucci nel campo di concentramento di Dachau, dove morì il 10 febbraio 1945. La figura di questo poliziotto italiano, come tante altre che vissero in prima persona gli eventi tumultuosi della storia durante la seconda guerra mondiale, è oggetto ancora di accesi dibattiti.
Commissario di Polizia a Fiume dal 1939 al 1944, Palatucci è stato celebrato per 50 anni come colui che salvò centinaia di ebrei dalle deportazioni. Giusto tra le nazioni per Israele e Medaglia d’oro al merito civile per la Repubblica Italiana, Palatucci è inoltre Servo di Dio per la Chiesa Cattolica, la quale nel 2002 ha aperto per lui anche la causa di beatificazione.
Nel giugno 2013, tuttavia, la pubblicazione di un’inchiesta da parte del “Primo Levi Center” di New York gettò un’ombra sull’operato di Palatucci. L’inchiesta tentò di sfatare il “mito” intorno alla sua figura, dipingendolo invece come un collaboratore dei nazisti.
La delegittimazione di Palatucci ha fatto breccia in molti ambienti culturali, fin quando, nell’aprile scorso, lo storico della Chiesa Pier Luigi Guiducci ha pubblicato i risultati delle sue ricerche svolte “dal gennaio 2010 al marzo 2015”. Si tratta di un dossier di 39 pagine in cui lo storico rilegge libri, testimonianze, lettere per sostenere la tesi di Palatucci come di un Giusto che salvò centinaia di ebrei. Il prof. Guiducci ne parla nell’intervista che segue.
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Professore, quale fu l’atteggiamento di Palatucci, assegnato all’Ufficio stranieri della Regia Questura di Fiume, dopo le leggi per la “difesa della razza italiana” del 1938?
Palatucci, per la formazione ricevuta, e per un carattere spontaneamente aperto, era “lontano” dalla logica intransigente di quei provvedimenti. Vari testimoni hanno ricordato i suoi positivi rapporti con ebrei, la correttezza con la quale li riceveva, l’affettuosa amicizia con una giovane ebrea (che poi salvò insieme alla madre).
I superiori di Palatucci sapevano di questo sua negligenza rispetto a tali provvedimenti?
La valutazione reale dei dirigenti di Fiume su Palatucci non fu mai favorevole. Da una parte, essi rilasciarono delle formali note positive (così da non generare “allarme”), dall’altra iniziarono a far controllare i suoi movimenti. Come ho ricordato a una corrispondente del New York Times, Palatucci fu trasferito da Genova a Fiume con provvedimento disciplinare (aveva criticato i metodi della PS del tempo). Non gli furono mai affidati compiti operativi nel territorio (l’ufficio stranieri richiedeva un’attività amministrativa). Inoltre, Palatucci subì un’ispezione ministeriale che riscontrò irregolarità. Studiando il rapporto dell’ispettore (conservato in fascicolo), molto critico verso Palatucci, si comprende che quest’ultimo aveva deviato dagli ordini ricevuti.
Risulta che Palatucci abbia chiesto più volte il trasferimento da Fiume, ma invano. Tuttavia a un certo punto, malgrado ne avesse finalmente ottenuta la possibilità, scelse di restare. Come mai?
Palatucci chiese di essere trasferito perché aveva preso consapevolezza di una realtà che non condivideva (emerge anche dalle lettere, pur attente alla censura). I suoi superiori, specie il prefetto Testa, furono responsabili di atti inescusabili verso gli ebrei. Alla fine, però, restò al suo posto a Fiume. Un motivo è legato al fatto che la situazione interna volgeva al peggio. Per i poliziotti della Questura e per gli stessi civili si stavano avvicinando delle ore drammatiche. Palatucci non abbandonò il posto di lavoro, anche se altri si erano dileguati. Tale volontà emerge pure da sue relazioni di servizio (pubblicate).
Come si arrivò alla sua cattura e alla sua morte?
Palatucci aveva già subìto dei controlli. Nell’ultima perquisizione, che riguardò la sua abitazione e lo stesso ufficio, fu arrestato con l’accusa di intesa con il nemico. Tale imputazione servì a coprire il vero motivo: aveva deviato dalle direttive antisemite. I delatori (sono emersi alcuni nomi) avevano informato gli ufficiali nazisti. Il reato attribuitogli (possesso di un documento che faceva riferimento a una futura autonomia di Fiume) era passibile di condanna a morte. Palatucci fu prima interrogato (e non rivelò dati compromettenti terzi), e poi trasferito nel carcere di Trieste, tristemente noto per le sevizie praticate. A questo punto, si mosse a suo favore il conte Marcel Frossard de Saugy, di nazionalità svizzera. Era direttore tecnico di fabbriche di munizioni. La moglie era una von Bülow. Palatucci non fu fucilato ma deportato a Dachau, ove morì.
Possibile individuare un numero orientativo di ebrei salvati da Palatucci?
Sul piano dei riscontri ogni calcolo rischia di essere lacunoso. Anche per un motivo-chiave: le operazioni si svolsero in sordina. Dai testimoni del tempo sappiamo che Palatucci seguì più percorsi: nascondimento di ebrei in case “sicure” (ritrovati documenti); attiva partecipazione ai procedimenti amministrativi in grado di far allontanare ebrei da Fiume; attenuazioni di controlli di frontiera (appoggio al cosiddetto “canale” di Fiume); azione diretta a favore di ebrei per risolvere nodi burocratici; accompagno di ebrei fuori Fiume, in zone protette. È solo considerando le azioni dirette e indirette (Palatucci operò sempre con altre persone) che è possibile parlare indicativamente di centinaia di ebrei salvati.
Giovanni Palatucci, per il suo impegno a favore degli ebrei perseguitati, è stato riconosciuto “Giusto” da Israele. Nonostante ciò nel giugno 2013 si iniziò a diffondere, improvvisamente, una teoria diversa circa il suo operato…
Il “Primo Levi Center” di New York, in occasione di un seminario di studi, invitò alcuni autori che avevano in precedenza criticato determinate posizioni a favore di Palatucci. In tale occasione, da un problema legato essenzialmente al numero dei salvati, si passò a una posizione ancor più intransigente. In pratica si affermò che Palatucci era stato un collaborazionista e che aveva partecipato direttamente ad azioni antiebraiche. La direttrice del “Primo Levi Center”, Natalia Indrimi, scrisse che “Giovanni Palatucci non rappresenta altro che l’omertà, l’arroganza e la condiscendenza di molti giovani funzionari italiani che seguirono con entusiasmo Mussolini nei suoi ultimi disastrosi passi”.
Cosa dicono a riguardo i documenti storici?
Palatucci fu emarginato in Polizia perché non si mostrò ossequiente ai “metodi” del tempo (e quindi anche a quelli persecutori). Non collaborò a operazioni anti-ebraiche. I dati utilizzati dalle forze dell’ordine furono forniti da impiegati comunali. Nell’archivio di Palatucci furono rinvenuti fascicoli non recenti e scarsamente utili. Una tecnica di Palatucci (documentata) fu di “eseguire” formalmente gli ordini, dichiarando poi l’irreperibilità dei ricercati. Ciò serviva a complicare le cose poiché non c’era personale sufficiente per indagini a tappeto. Esistono inoltre le testimonianze di persone che furono salvate da Palatucci o che videro Palatucci intervenire a favore di ebrei. Personalmente ho ritrovato un documento presso l’Archivio di Stato di Trieste. È la prova dell’aiuto offerto dall’ex-commissario alla famiglia Milch (fondo Luksich – b. 1, cart. 8). Il dott. Ivan Jeličić ha scoperto altre prove. E lo stesso Yad Vashem ha confermato a Palatucci il titolo di Giusto.
I detrattori di Palatucci chiamano in causa anche suo zio, il vescovo Giuseppe Maria Palatucci. Di cosa fu accusato il monsignore?
Il vescovo Palatucci fu accusato, da talune persone, di non aver difeso gli ebrei e di aver esaltato la figura del nipote per motivi pensionistici a favore del fratello. Si è scritto
che era d’accordo con l’ispettore fascista di zona a togliere il campo di concentramento di Campagna e a spostarlo altrove (rif. a una lettera trasmessa a Roma). I critici non hanno saputo separare gli atti formali dalle operazioni sostanziali. Da un punto di vista formale, l’Ordinario del luogo non volle contrariare l’ispettore del tempo per evitare guai peggiori (ulteriori provvedimenti restrittivi a danno dei prigionieri). Dall’altra parte, mons. Palatucci sapeva che a Campagna sarebbe rimasto il campo per questioni pratiche, e si adoperò per creare una rete di solidarietà, avendo anche la possibilità di chiedere aiuto a conterranei operanti come alti dirigenti presso il Ministero dell’Interno. Anche l’aspetto pensionistico è stato ricondotto a una lettura reale. I primi a parlare di Palatucci furono autori ebrei.
In un articolo del 2013 sull’Osservatore Romano Anna Foa, storica d’origine ebraica, difese Palatucci e ipotizzò che dietro le accuse nei suoi confronti ci fosse l’obiettivo di colpire “la Chiesa di Pio XII”. Cosa ne pensa?
La Foa è una delle voci ebraiche (segue quelle di Settimio Sorani, Teodoro Morgani, Roberto Malini, etc.) che si sono levate per riequilibrare una situazione che rischiava di cancellare documenti e testimonianze a favore di Palatucci. Questa storica ha anche ipotizzato una manovra mirata a collocare la vicenda in una dinamica più ampia: l’attacco alla Chiesa di Pio XII, accusata di essere rimasta passiva in presenza della Shoah. La prof.ssa Foa è potuta intervenire su Palatucci perché conosce le ricerche svolte anche da studiosi non cattolici, ove si esprime una valutazione positiva sull’ex-commissario di Fiume, divenuto in ultimo reggente della Questura.
A che punto si trova il processo di beatificazione di Palatucci, iniziato nel 2002?
Nel 2004 si è conclusa la fase diocesana del processo di canonizzazione. Palatucci è stato proclamato Servo di Dio. Attualmente la Postulazione (presso la Curia Generalizia dei Gesuiti) sta preparando la Positio. Esiste anche una guarigione “non spiegabile scientificamente”, ossia un tumore “scomparso” prima di un intervento chirurgico: una foto di Palatucci era stata poggiata sulla parte da operare.