ROMA, lunedì, 18 aprile 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito una riflessione di padre Paolo Martinelli, frate minore cappuccino, successore di monsignor Luigi Padovese come Preside dell’Istituto Francescano di Spiritualità della Pontificia Università Antonianum di Roma, consultore dal 2006 della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e dal 2009 della Segreteria del Sinodo dei Vescovi.
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Il beato Francesco Spinelli ci invita ad adorare il mistero dell’Eucaristia come realtà nella quale Gesù, figlio di Dio incarnato, si dà a noi nel nascondimento. Proprio la percezione positiva che ci è data di tale velarsi del Mistero in relazione alla libertà dell’uomo ci porta a contemplare in ciò una forma peculiare di donazione. Il nascondimento non appare qui come una sottrazione, ma come modalità con la quale Dio si rende a noi accessibile nella fede. Nelle comuni relazioni umane il nascondersi non appare immediatamente come segno di comunicazione. Cercarsi un nascondiglio potrebbe essere indizio di una volontà che intende uscire da una relazione, di un atteggiamento di difesa, per esempio davanti ad una minaccia.
Qui, invece, il fatto che Gesù si nasconda nell’Eucaristia è segno di una peculiare forma di rapporto. Darsi nel nascondimento ci porta inevitabilmente a mettere a tema l’interessante binomio velamento e svelamento. Il nascondersi appare qui come un velarsi, un darsi attraverso un velo. Essere di fronte ad un velo, che innanzitutto sembra separare, rivela una presenza misteriosa ed inesauribile, che non si dà immediatamente ma attraverso dei segni, che rivelano e velano nello stesso tempo. Da una parte, occorre dire, non sarebbe umano, non rispetterebbe la dinamica della libertà, una forma di conoscenza che pretendesse di cogliere la realtà nuda, senza alcun velo. Dall’altra parte, è proprio del mistero il comunicarsi attraverso la dialettica tra velamento e svelamento. Von Balthasar afferma che “il velamento non si pone contro lo svelamento come una barriera che blocca da fuori, ma piuttosto come una forma o proprietà inerente allo stesso svelamento. Le cose sono di fatto svelate in quanto velate e in questa forma esse diventano oggetto di conoscenza”. Conoscere la realtà è sempre un’avventura inesauribile. Ogni tratto che il mistero svela di sé risulta sempre essere una introduzione ad un mistero ancora più grande. Ogni conoscenza puramente oggettuale e misurabile non sarebbe umana e non sarebbe nemmeno vera conoscenza. Il Mistero che sta a fondamento di tutte le cose si dà alla nostra conoscenza solo mediante segni. L’invisibile mistero si rende percepibile mediante realtà visibili che per loro natura rimandano continuamente ad una ulteriorità. Non possiamo mai attingere direttamente al fondamento ineffabile di tutte le cose. Il fondamento appare attraverso il velo della realtà: il Mistero si svela nel velo delle cose.
Paradigmaticamente questa relazione si dà nella tensione che sperimentiamo antropologicamente tra la dimensione spirituale e corporale della nostra esistenza. La realtà del corpo risulta immediatamente percepibile ai nostri sensi e può essere descritta in molti modi. Lo spirito di una persona, invece, non può essere misurabile allo stesso modo e tuttavia non può esserne negata l’esistenza. Per quanto si possa cercare di ridurre un aspetto all’altro, secondo le varie forme di spiritualismo o di materialismo, l’esperienza umana ci riporta sempre a questa dialettica insuperabile. La realtà spirituale di una persona si esprime attraverso la sua realtà corporale. La persona si rivela attraverso il velo della sua corporeità. Allo stesso modo chi conosce, incontrando un’altro, proprio attraverso la sua manifestazione visibile è portato ad andare oltre, a cogliere la realtà personale che nelle parole udibili e nei gesti visibili si svela e cela nello stesso tempo.
Se questa dinamica è vera in ogni autentica esperienza di conoscenza, tanto più questa viene mantenuta ed esaltata in relazione al modo con cui Dio personalmente si rende presente alla nostra vita. Inevitabilmente sovvengono qui le espressioni giovannee: “Dio nessuno lo ha mai visto” (Gv 1,18; 1Gv 4,12). Il Mistero ultimo, fondamento trascendente di tutte le cose, è in se stesso invisibile. Qui occorre ricordare l’affermazione imponente dell’Antico Testamento: Dio non lo si può vedere senza morire (Es 33,20).
Eppure se ci fermassimo qui non sarebbe possibile alcuna esperienza del Mistero ed ultimamente delle cose. In realtà, Colui che è trascendente si è reso immanente, tuttavia senza cessare di essere il Mistero santo; colui che è fondamento di tutte le cose appare nelle cose e tuttavia senza cessare di essere mistero inaccessibile. Colui che per natura sua è invisibile si rende visibile senza smettere di essere il “Totalmente altro”. Infatti, se è vero che Dio nessuno lo ha mai visto, altrettanto vero è che il Figlio ce lo ha rivelato (Gv 1,18). Il Padre si dona nel suo unigenito Figlio; è talmente reale questa donazione che chi vede il Figlio “vede il Padre” (Gv 14,9). Gesù stesso, dunque, la sua umanità, il suo corpo è questa espressione visibile del Dio invisibile. E non vi è altro accesso al mistero invisibile di Dio che la visibilità del Figlio, non vi è ingresso alla trascendenza del Padre che attraverso l’immanenza del Figlio (Gv 14,6-9).
La tensione tra vedere e non vedere, velamento e svelamento, si fa più intensa, quanto più Dio si rende presente. Come una luce, che proprio perché si fa più forte tende a “saturare” la nostra capacità di poter starvi di fronte. Che il Figlio eterno del Padre si manifesti prendendo un corpo umano, che ci comunichi la gloria di Dio morendo per noi sulla croce, tutto ciò è massimo svelamento del mistero di Dio e contemporaneamente massimo velamento. Mai Dio si era svelato come nel Figlio che muore sulla croce, fino alla trafittura del costato (Gv 19,34). Lì sta la manifestazione estrema dell’amore trinitario per noi. Ma nello stesso momento, nello stesso avvenimento, troviamo il velo più fitto. Più intensa si fa l’immanenza di Dio tra noi e più acuta si fa la percezione della sua trascendenza. Anche il luminosissimo mistero della risurrezione non abolisce questa dialettica insuperabile. Proprio nel momento in cui egli è riconosciuto si sottrae alla loro misura: “Non mi trattenere” (Gv 20,17), dice Gesù alla Maddalena dopo aver riconosciuto la voce del Maestro che la chiama per nome. Oppure, dopo essere stato riconosciuto nello spezzare il pane dai discepoli di Emmaus “sparì dalla loro vista” (Lc 24,31). Anche l’evento della risurrezione non abolisce il velamento e la trascendenza. Anzi, ne costituisce la forma definitiva. Il Cristo risorto, infatti, è nello stesso tempo colui che ascende alla destra del Padre e che rimane presente nell’unità dei credenti e nella celebrazione della Memoria Jesu. Come ricorda Leone Magno, dopo l’ascensione “quello che era visibile del nostro Redentore è passato nei riti sacramentali”.
L’Eucaristia è, dunque, il sacramento di questo farsi visibile di colui che rimane invisibile. Perciò nell’adorazione della divina Eucaristia riscopriamo la dinamica della nostra fede: accogliere l’infinito mistero che ci raggiunge nella finitezza di una realtà contingente. Nel rapporto tra il mistero eucaristico e la nostra libertà scopriamo ultimamente la dinamica della relazione tra la rivelazione di Dio e la fede. Non può che colmarci di stupore il fatto che il Figlio eterno del Padre abbia assunto una umanità reale per rivelarci la vita divina. Egli è diventato carne, ha assunto un corpo da quella giovane ragazza di Nazareth e questo corpo ce lo ha donato, mettendolo nelle nostre mani. Il sacramento della sua kenosi consiste in un corpo donato: egli non ci ha detto “prendete, queste sono le mie idee che vi ho fatto imparare”, ma “questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi, questo è
il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza versato per voi e per tutti”. Il mistero di Dio si offre nel corpo sacrificato e nel sangue versato. Nell’adorazione di questo mistero siamo posti di fronte ad una presenza che si pone e rimane in mezzo a noi: non solo si pone, ma si espone; non solo si “dona”, ma si “abban-dona”, egli si dà in dono fino all’abbandono.
Velamento e svelamento, trascendenza ed immanenza, nascondimento e rivelazione: sono tutte parole che trovano la loro espressione sacramentale nel mistero dell’Eucaristia. Dio ha voluto manifestarsi, darsi e dirsi in modo che fossero esaltati contemporaneamente il mistero di Dio ed il mistero della nostra libertà. La fede appare qui come la forma con la quale la nostra libertà accoglie il rivelarsi di Dio nell’esistenza, morte e risurrezione di Cristo. Solo la fede, come forma autentica della libertà, sa conoscere lo svelarsi dell’amore di Dio nel velo dell’Eucaristia.
[Tratto da: Paolo Martinelli, L’umiltà di Dio. Eucaristia: mistero di una presenza, Ed. Porziuncola, Assisi 2011]