Monsignor Agostino Marchetto, arcivescovo nato a Vicenza, è stato missionario in Africa per circa vent’anni, poi venne nominato Nunzio apostolico prima in Madagascar e nelle altre Isole dell’Oceano Indiano (1985), in Tanzania (1990) e, successivamente, in Bielorussia (1994). E proprio nel corso di quest’ultimo incarico ebbe stretti contatti con Papa Giovanni Paolo II che, nel 2001, lo volle segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti. Marchetto si dimise nel 2010 per dedicarsi completamente allo studio, è un medievista, passando ad occuparsi in particolare della storia e dell’ermeneutica del Concilio Vaticano II. Dal prelato un’immagine di Karol Woytjla di cui oggi ricorre il centenario della nascita.
DOMANDE E RELATIVE RISPOSTE
I°«Un ricordo significativo, è legato alla visita pontificia in Madagascar, ad Antananarivo, in cui fu ospite nella Nunziatura che reggevo. Ricordo tre flash, inizio dal mattino del primo giorno quando andai in cappella per controllare che tutto fosse in ordine. Sapevo che il Papa si alzava presto per pregare. Entrai e lui era già lì, ma non nel banco che avevano preparato le suore, bello, bianco, con cuscini soffici, era all’ultimo posto inginocchiato a terra. L’altro momento alla fine della sua visita, quando, ex abrupto mi disse: “Oggi è il giorno della sua liberazione”, consegnandomi la sua foto con dedica. Sì, liberazione, perché pensava che quando un papa se ne va, dopo una vista ufficiale, si poteva sentire sollievo dalla fatica e dallo stress di giorni intensissimi. Questa osservazione mi toccò profondamente perché si mise nei miei panni, aveva la percezione che la sua presenza avesse comportato anche difficoltà, preoccupazioni, fatica, oltre che grandissima gioia. Infine durante la visita il Santo Padre, che io accompagnavo, ricevette un centinaio di ragazzi che venivano abitualmente ogni altro giorno nella cappella e distribuì pane e marmellata.
II° Ci sono argomenti di cui parlò spesso con il Papa?
Direi che la Bielorussia fu il Paese che più ne offrì l’opportunità. Venni inviato come primo ambasciatore a presentare le Lettere Credenziali al nuovo Presidente Lukashenka. Il papa diciamo che li iniziò con lunghe lezioni di storia; quello Stato, nato grazie alla sua spallata spirituale all’impero sovietico che implose, gli stava particolarmente a cuore per retaggio storico e patriottico, per la religiosità della popolazione, in parte cattolica e in parte ortodossa, – in effetti è il secondo Paese dell’ ex Urss, più cattolico, in percentuale, dopo la Lituania – e con la questione della lingua da usare nelle Liturgie. Si poteva partire dal polacco, nelle zone in cui la maggioranza lo parlava, ma si doveva introdurre il bielorusso, anche se a un certo punto il Governo si inclinò di nuovo per la lingua russa, adottandola come fondamentale nelle scuole. E il Nunzio cosa doveva fare? Si accettò che celebrassi in bielorusso. Mi sfuggì però una volta di salutare in russo all’inizio della Messa: “Pace a Voi” (“Mir vam”), e fu mezzo scandalo.
III° Quale fu il segno più importante del suo pontificato ?
Per un patito del Concilio Vaticano II, il “Magno Sinodo”, così l’ho sempre chiamato, non posso che rilevare il grande interesse che Papa Giovanni Paolo II ebbe per esso. Stiamo ancora cercando, e posso dire che è una pena grande per me il fatto di non accettare, molti, la sua corretta spiegazione. Noto peraltro che per il Magistero la questione è assodata; per tutti i Pontefici la spiegazione, l’esegesi, la ermeneutica, come si dice in termine più proprio, ma più difficile, non è “nella linea della rottura, e della discontinuità, ma della riforma e del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa”. Beh, Papa Wojtyla ebbe un posto importante, in materia, quando ancora non era cardinale, come membro della Commissione che si occupava della Chiesa nel mondo contemporaneo. E ricordo bene i suoi interventi, e gli apprezzamenti che facevano i suoi “Colleghi”. Prima pensarono che arrivassero dall’intera Polonia, poi da Cracovia, e infine capirono che erano di Karol Wojtyla. Egli sottolineava molto la necessità di porre in rilievo il tema della salvezza, della redenzione, insomma della croce.
IV°Giovani, famiglia sono stati grandi segnali di apertura?
Certamente per i giovani, e lo dimostra il grande inizio delle Giornate Mondiali della Gioventù, uno stimolo, un simbolo di pastorale giovanile. E poi per la famiglia. Sto correggendo le ultime bozze del mio libro dal titolo “Giovanni Paolo II, il Papa della Famiglia”. Lo dichiara lo stesso Vescovo di Roma Francesco, e lo ha ripetuto, e poi ha aggiunto al suo nome il titolo di Magno; dunque ”il Papa della Famiglia”, questo dice molto della sua importante “devozione”. E dimostra la necessità che anche noi abbiamo di riprendere la pastorale della famiglia, nella continuità e negli arricchimenti che può avere.
V° Punti d’incontro tra Giovanni Paolo II e Francesco?
Sicuramente papa Francesco sente i giovani e la famiglia come temi importanti, ma ha una specialissima opzione preferenziale per i poveri, gli emarginati, i lontani, i periferici in tutti sensi, i bisognosi particolari di misericordia. E’ un’opzione preferenziale “non esclusiva, né escludente” (espressione di Giovanni Paolo II), che mette insieme la mobilità umana (Migranti ed Itineranti, per esempio), i diritti umani e la necessità che la Chiesa risponda adeguatamente al segno dei tempi che ci interpella. Entrambi i Papi hanno comunque la caratteristica comune dello zelo pastorale, straordinario, struggente, che li sfinisce, li sfianca. Edificante, che consuma nella ricerca, nel fervore per le anime e per i corpi. Su questo punto una risposta alle critiche verso Papa Francesco l’ha data qualche giorno fa Adriano Sofri, su “Il Foglio”, trovandola nella parabola del Figliol prodigo, detto anche ora del Padre misericordioso, e indicando gli oppositori nel fratello che rimane accanto al padre e si sente dimenticato, in fondo maltrattato. Così è anche oggi perché molti dei “ben pensanti” si sentono lasciati da parte, a causa di questo zelo verso i derelitti. E non è evangelico questo zelo? E’ ideologia questa? E dove mettiamo la Dottrina sociale della Chiesa e il Bene comune della famiglia umana?
VI° E il segno più importante di Wojtyla nel suo pontificato?
La spallata spirituale e solidale che dette contro la mancanza di libertà, dei diritti umani rubati per decenni al popolo e alle élites dalla ideologia imperante ed opprimente e persecutoria dei paesi dell’Est prima del crollo del muro di Berlino. Il suo “Non abbiate paura!”. E poi, ripeto, il senso dell’ universalità e della famiglia, formata di persone…con attenzione anche alla Dottrina, e dietro ci stava l’aiuto leale di chi poi diventerà papa Benedetto XVI.
VII° Come ricorda gli ultimi giorni di Wojtyla?
Le immagini della sofferenza e quel pugno sul leggìo all’Angelus, poco prima di giorni fatidici, per non poter parlare, mentre ce l’aveva fatta qualche minuto prima. Anche un Papa è condizionato dalle sue emozioni! Al riguardo ricordo il vezzo del Pontefice, nei primi tempi dell’uso del bastone, durante i quali lo faceva anche roteare, soprattutto quando incontrava i giovani. Specialmente all’inizio, poi, entrando in una sala, lo depositava subito in un angolo e continuava imperterrito a camminare, come poteva. Ricordo l’ultimo Venerdì Santo del Papa, seduto, con la croce, sorretta dalle sue mani e poggiata con la base posta davanti a Lui. Così vi era anche visivamente identificato. La croce la portò, ed essa lo portò ed egli decise di non scendervi, ma invocò, quando non ne poteva più: “Lasciatemi andare nella casa del Padre”.
VIII° Com’è cambiata la Chiesa da allora?
La risposta sarebbe un libro, forse più di uno. Vedo che anche qui si guarda di più – mi sembra- al cambio, in fondo le novità, che è l’altro aspetto della continuità e fedeltà al Messaggio integrale. Ciascuno potrà rispondere alla domanda, ma mi fermo alla formula finale a cui tutti i Papi postconciliari aderiscono, e cioè che il Concilio Ecumenico Vaticano II, per l’interpretazione, la esegesi, l’ermeneutica [ecco la parola difficile] “non è una rottura, nella discontinuità (certo non nel senso di trasformazioni legittime e approvate consensualmente), ma riforma e rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa”. Di conseguenza la “ricezione” del Concilio (la sua applicazione) deve andare per tale cammino, altrimenti essa diventa ricezione di noi stessi, del nostro pensiero individualistico, della tendenza teologica o ideologica che abbiamo, e non di comunione e di consenso, di concilio e collegialità, di sinodalità, rettamente intesi.
IX° Parliamo della frattura di sacerdoti tradizionalisti e quelli più aperti che seguono il Papa nella quotidianità dei poveri e dei migranti?
C’è una distinzione, che generalmente non si rileva, e cioè il distinguere fra tradizionalisti e tradizionali. Tutti dobbiamo essere tradizionali, nel giusto senso, ma anche accoglienti [la più grande apertura sono le braccia di Cristo in croce] “della riforma e del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa”, cioè nel vero senso conciliare del consenso quasi unanime che si riuscì finalmente a trovare grazie soprattutto all’opera indefessa di Paolo VI. I due elementi che lei pone in contraddizione non devono esserlo, e penso che di fatto in molti che si occupano, (“seguendo il Papa, nella quotidianità”) dei poveri e dei migranti vi è rispetto anche per la Tradizione (con inizio in maiuscolo). Penso che nei 10 anni di servizio ai Migranti e agli Itineranti ho pagato di persona l’impegno ecclesiale a loro favore e ritengo che posso anche essere considerato parte di coloro che sono Tradizionali (nel senso della Tradizione)nella Chiesa, certo non tradizionalista. Una visione personale, ma forse atta a chiarire un punto difficile, ma necessario.