Questo pomeriggio, alle ore 15.20 locali (7.20 ora di Roma), il Santo Padre Francesco lascia la Nunziatura Apostolica e si trasferisce in auto al Tokyo Dome. Al Suo arrivo allo Stadio, dopo aver effettuato il cambio di vettura, compie alcuni giri in papamobile tra i fedeli. Alle ore 16.00 locali (8.00 ora di Roma), il Santo Padre celebra la Santa Messa per il Dono della Vita Umana. Dopo la proclamazione del Vangelo, il Papa pronuncia l’omelia. Al termine della Santa Messa, l’Arcivescovo di Tokyo, S.E. Mons. Tarcisius Isao Kikuchi, SV.D., rivolge a Papa Francesco il suo saluto. Quindi, il Santo Padre si trasferisce in auto a Kantei per l’incontro con il Primo Ministro. Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Santo Padre pronuncia nel corso della Celebrazione Eucaristica:
Omelia del Santo Padre
Il Vangelo che abbiamo ascoltato fa parte del primo grande discorso di Gesù: lo conosciamo come il “Discorso della montagna” e ci descrive la bellezza della via che siamo invitati a percorrere. Secondo la Bibbia, la montagna è il luogo dove Dio si manifesta e si fa conoscere: “Sali verso di me”, disse a Mosè (cfr Es 24,1). Una montagna la cui cima non si raggiunge col volontarismo o il carrierismo, ma solo con l’attento, paziente e delicato ascolto del Maestro in mezzo ai crocevia del cammino. La cima si trasforma in pianura per regalarci una prospettiva sempre nuova su tutto quello che ci circonda, centrata sulla compassione del Padre. In Gesù troviamo il culmine di ciò che significa l’umano e ci indica la via che ci conduce alla pienezza capace di sorpassare tutti i calcoli conosciuti; in Lui troviamo una vita nuova, nella quale sperimentare la libertà di saperci figli amati.
Tuttavia siamo consapevoli del fatto che, lungo il cammino, questa libertà filiale potrebbe vedersi soffocata e indebolita quando restiamo prigionieri del circolo vizioso dell’ansietà e della competitività, o quando concentriamo tutta la nostra attenzione e le nostre migliori energie nella ricerca assillante e frenetica della produttività e del consumismo come unico criterio per misurare e convalidare le nostre scelte o definire chi siamo e quanto valiamo. Una misura che a poco a poco ci rende impermeabili e insensibili alle cose importanti, spingendo il cuore a battere per le cose superflue o effimere. Quanto opprime e incatena l’anima l’affanno di credere che tutto possa essere prodotto, tutto conquistato e tutto controllato!
Qui in Giappone, in una società con un’economia molto sviluppata, mi facevano notare i giovani questa mattina, nell’incontro che ho avuto con loro, che non sono poche le persone socialmente isolate, che restano ai margini, incapaci di comprendere il significato della vita e della propria esistenza. Casa, scuola e comunità, destinate ad essere luoghi dove ognuno sostiene e aiuta gli altri, si stanno sempre più deteriorando a causa dell’eccesiva competizione nella ricerca del guadagno e dell’efficienza. Molte persone si sentono confuse e inquiete, sono oppresse dalle troppe esigenze e preoccupazioni che tolgono loro la pace e l’equilibrio.
Come balsamo risanatore suonano le parole di Gesù che ci invitano a non agitarci e ad avere fiducia. Tre volte con insistenza ci dice: Non angustiatevi per la vostra vita… per il domani (cfr Mt 6,25.31.34). Questo non è un invito a ignorare quanto succede intorno a noi o a diventare sconsiderati verso le nostre occupazioni e responsabilità quotidiane; anzi, al contrario, è una provocazione ad aprire le nostre priorità a un orizzonte di senso più ampio e così a creare spazio per guardare nella sua stessa direzione: «Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33).
Il Signore non ci dice che le necessità di base, come il cibo e i vestiti, non siano importanti; ci invita, piuttosto, a riconsiderare le nostre scelte quotidiane per non restare intrappolati o isolati nella ricerca del successo ad ogni costo, anche a costo della vita. Gli atteggiamenti mondani, che cercano e perseguono solo il proprio tornaconto o beneficio in questo mondo, e l’egoismo che pretende la felicità individuale, in realtà ci rendono solo sottilmente infelici e schiavi, oltre ad ostacolare lo sviluppo di una società veramente armoniosa e umana.
L’opposto di un “io” isolato, segregato e persino soffocato può solo essere un “noi” condiviso, celebrato e comunicato (cfr Catechesi, 13 febbraio 2019). Questo invito del Signore ci ricorda che «abbiamo bisogno di riconoscere gioiosamente che la nostra realtà è frutto di un dono, e accettare anche la nostra libertà come grazia. Questa è la cosa difficile oggi, in un mondo che crede di possedere qualcosa da sé stesso, frutto della propria originalità e libertà» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 55). Per questo, nella prima Lettura, la Bibbia ci ricorda come il nostro mondo, pieno di vita e di bellezza, è prima di tutto un dono meraviglioso del Creatore che ci precede: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31); bellezza-bontà offerta perché possiamo anche condividerla e offrirla agli altri, non come padroni o proprietari, ma come partecipi di uno stesso sogno creatore. «La cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri» (Enc. Laudato si’, 70).
Di fronte a questa realtà, siamo invitati come comunità cristiana a proteggere ogni vita e a testimoniare con sapienza e coraggio uno stile segnato dalla gratuità e dalla compassione, dalla generosità e dall’ascolto semplice, uno stile capace di abbracciare e di ricevere la vita così come si presenta «con tutta la sua fragilità e piccolezza e molte volte persino con tutte le sue contraddizioni e mancanze di senso» (Discorso nella Veglia della GMG, Panama, 26 gennaio 2019). Siamo chiamati ad essere una comunità che sviluppi una pedagogia capace di dare il «benvenuto a tutto ciò che non è perfetto, a tutto quello che non è puro né distillato, ma non per questo è meno degno di amore. Forse che qualcuno per il fatto di essere disabile o fragile non è degno d’amore? […] Qualcuno, per il fatto di essere straniero, di aver sbagliato, di essere malato o in una prigione, non è degno di amore? Così ha fatto Gesù: ha abbracciato il lebbroso, il cieco e il paralitico, ha abbracciato il fariseo e il peccatore. Ha abbracciato il ladro sulla croce e ha abbracciato e perdonato persino quelli che lo stavano mettendo in croce» (ibid.).
L’annuncio del Vangelo della Vita ci spinge ed esige da noi, come comunità, che diventiamo un ospedale da campo, preparato per curare le ferite e offrire sempre un cammino di riconciliazione e di perdono. Perché per il cristiano l’unica misura possibile con cui giudicare ogni persona e ogni situazione è quella della compassione del Padre per tutti i suoi figli.
Uniti al Signore, cooperando e dialogando sempre con tutti gli uomini e le donne di buona volontà e anche con quelli di diverse convinzioni religiose, possiamo trasformarci in lievito profetico di una società che sempre più protegga e si prenda cura di ogni vita.