Mons. Francesco Follo - Foto © Servizio Fotografico-L'Osservatore Romano

Mons. Follo: Crescere nel Bene da amare e non nei beni da possedere

XVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 4 agosto 2019

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Rito romano
XVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 4 agosto 2019.
Qo 1, 2; 2, 21-23; Sal 94; Col 3,1-5. 9-11; Lc 12,13-21
Ricchi di Amore e non di cose.
 
Rito ambrosiano
XI Domenica di Pentecoste
1Re 21,1-19; Sal 5; Rm 12,9-18; Lc 16,19-31
Mendicare la carità come Lazzaro.
 
 
 
 
 
1) Donarsi.
Il messaggio essenziale del Vangelo di oggi è talmente chiaro che, in realtà, non ha bisogno di una lunga spiegazione: “Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché la vita di un uomo non dipende dai suoi beni”. Come ci chiede Papa Francesco è però utile riflettere sul tema della ricchezza e all’attaccamento alle cose del mondo, alla nostra esistenza sulla terra, che è passeggera. In effetti la nostra vita terrena è un pellegrinaggio che è per sua natura un cammino che, per essere rapido deve essere vissuto con un crescente distacco dalle cose, dai beni della terra.
L’essere umano vuol sempre di più, perché è immagine di Dio, che è sempre di più, è infinito. Ma Dio è di più non perché ha di più, ma perché dà di più, fino a dar se stesso, perché Dio è amore e vita. Se Dio facesse come noi e tenesse ciò che è suo e ce lo negasse nessuno vivrebbe più, non ci sarebbe più nulla al mondo. Tutto è possibile perché il di più di Dio è quello di dar di più. Uno non è ciò che ha, ma ciò che dà.
Visti nella prospettiva dell’eternità, i beni del cielo sono quelli che contano davvero. Purtroppo siamo troppo legati alla terra e ai beni di questo mondo. Possederli sembra che gli diano maggiore sicurezza e tranquillità. Lentamente ci accorgiamo non è affatto così. Basta una malattia grave e uno si accorge che il possedere e l’avere non ti danno la salute, né ci allungano la vita. Tutti, di fronte al male, siamo uguali e siamo sofferenti allo stesso modo, ricchi e poveri, forti e deboli.. Alla fine di ogni valutazione morale, filosofica e religiosa, arriva alla considerazione, saggia e intelligente, realistica e aderente alla vita, che ci spinge a vivere, a lottare per non soccombere, che troviamo sintetizzato nel bellissimo brano della prima lettura di oggi, tratto dal Qohelet: “Vanità delle vanità, vanità delle vanità: tutto è vanità. Chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male. Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!”.
Questo libro dell’Antico Testamento  ci spinge a capire che la vita non consiste nelle cose che abbiamo, il Vangelo (terza lettura di oggi) ci fa capire che Dio é Padre: oltre la vita e i mezzi per vivere, dona ai figli se stesso. Chi non lo riconosce, perde la propria identità e la cerca non in ciò che è, ma in ciò che ha. I beni che accumula diventano un male: non sono più mezzi, ma fine della sua vita. Sono idoli ai quali sacrifica sé e gli altri: invece di creare comunione con il Padre e con i fratelli, dividono da lui e dagli altri. Chi accumula beni, vive male lui e vivono male i suoi figli: lascia loro in eredità di litigare … per l’eredità.
 
            2) Accumulare il Bene e non i beni.
Ritorniamo brevemente alla prima lettura della liturgia romana, in cui l’autore sacro  individua, in particolare, tre forme di vanità: la sterilità dello sforzo dell’uomo; la fragilità dei traguardi raggiunti; le numerose anomalie e ingiustizie di cui è piena la vita. Nel brano evangelico Gesù parla del ricco che è sicuro e contento della sua ricchezza e a cui è detto “Stolto, questa notte morirai”  (cfr Lc 12,20). Dunque questo speculatore non era poi così intelligente: non aveva “investito” bene. Il Redentore quindi non si limita a constatare la vanità, l’inconsistenza e la precarietà dei beni materiali. Non credo che il Messia intenda semplicemente disincantare l’uomo, liberandolo dal fascino del possesso. Il Cristo indica più profondamente la vera via della liberazione: “Così è di chi accumula tesori per sé e non arricchisce davanti a Dio” (id. 12, 21). Dunque è il “per sé” che è sbagliato, e deve essere sostituito da un altro orientamento (davanti a Dio).
Ma che significa questo in concreto? La spiegazione, credo, si trova nei versetti che seguono, che purtroppo la liturgia non riporta. Tre insegnamenti sono visibili in questi versetti. Arricchire davanti a Dio significa ad esempio, non cadere nella tentazione dell’affanno, dell’ansia, come se tutto dipendesse da noi. Arricchire davanti a Dio significa subordinare tutto – il lavoro, il possesso, la vita stessa – al Regno di Dio. Arricchire davanti a Dio significa, infine, “dare in elemosina”. Il “davanti a Dio” si concretizza nel «per altri» (v. 33). L’arricchire “per sé” è prigioniero della vanità. Invece la ricchezza donata, la fraternità, l’amore sono valori che non vengono meno.
Fra i tanti santi della povertà di cui la Chiesa è ricca ne cito due.
Il primo è San Giovanni Maria Vianney, noto anche come il Santo Curato d’Ars.
Lo cito anche perché oggi ricorre la memoria liturgica di questo umile e povero parroco di campagna. A suoi tempi Ars ero un paesino di 200 abitanti. Egli fu un vero seguace di San Francesco d’Assisi, di cui fu discepolo nel Terz’Ordine Francescano. Ricco del Bene dava i beni che aveva agli altri. Povero per sé, visse in un totale distacco dai beni di questo mondo e il suo cuore veramente libero si apriva largamente a tutte le miserie materiali e spirituali che affluivano a lui. “Il mio segreto – egli diceva – è semplicissimo: Dare tutto e non conservare niente”. Il suo disinteresse lo rendeva premuroso verso i poveri, soprattutto quelli della parrocchia, ai quali dimostrava un’estrema delicatezza, trattandoli “con vera tenerezza, con molti riguardi, si deve dire con rispetto”. Raccomandava che non bisogna mai mancare di riguardo ai poveri, perché tale mancanza ricade su Dio; e quando i miseri bussavano alla porta, egli era felice di poter loro dire, accogliendoli con bontà: “Io sono povero come voi; sono oggi uno dei vostri!”. Alla fine della vita amava ripetere: “Sono contentissimo: non ho più niente e il buon Dio può chiamarmi quando vorrà”. Per lui i poveri erano anche i poveri peccatori, che da tutta la Francia si recavano da lui e lui dava loro l’elemosina del perdono di Dio e della pace de cuore.
Il secondo é Sant’Omobono Tucenghi, Patrono della mia diocesi di Cremona. Mentre chiedo scusa per questa vena di campanilismo, mi sta a cuore dire che è un santo pertinente al tema di oggi perché la Chiesa gli ha dato fin dall’inizio il titolo di “Padre dei Poveri”, “consolatore degli afflitti”, “uomo di pace e pacificatore”, “uomo buono di nome e di fatto”. Mi si potrebbe obiettare che è un santo medievale, lontano nel tempo. Ma io lo propongo perché è davvero significativo. Questo Santo cremonese è il primo e unico fedele laico, commerciante sposato, che è stato canonizzato nel Medioevo. Sul finire del XII secolo non era facile che un laico sposato e immerso negli affari terreni, non appartenente a famiglie reali o nobili venisse proclamato Santo e ciò fu fatto a meno di due anni dalla sua morte avvenuta il 13 novembre 1197).
Ma Sant’Omobono (=Uomo buono) Tucenghi aveva fatto davvero onore al suo nome. Uomo intelligente egli s’era dimostrato particolarmente abile negli affari, acquistando ricchezze e prestigio in un periodo in cui quella dei tessuti era a Cremona una tra le principali attività commerciali facendone una città ricca. Nell’epoca dei Comuni, in cui denaro e mercato tendevano (come tendono oggi) a costituire il centro della vita cittadina, Omobono coniugò giustizia e carità e fece dell’elemosina il segno di condivisione, con la spontaneità con cui dalla assidua contemplazione del Crocifisso imparò a testimoniare il valore della vita come dono
Dallo sguardo a Cristo derivò la sua santità, che gli fece intuire che il denaro da lui guadagnato non gli apparteneva, ma spettava di diritto ai poveri, in particolare ai bambini miseri della città.
Trasformò la sua abitazione in “casa di accoglienza” e si dedicò alla sepoltura dei defunti abbandonati. La sua generosità era così proverbiale che a Cremona – quando una richiesta è ritenuta eccessiva – si usa ancora dire: “Non ho mica la borsa di sant’Omobono”, perché –dice la tradizione- la borsa dei soldi di questo Santo mercante non si esauriva mai e così lui non smetteva mai di fare l’elemosina.
Spirò santamente in Chiesa, al canto del Gloria in excelsis Deo, mentre assisteva alla celebrazione della Santa Messa, come faceva quotidianamente.
 
 
 
3) La Trasfigurazione
Un breve cenno a questa bella festa della Trasfigurazione, che –come ogni anno – si celebra il 6 agosto, quindi fra pochi giorni.
La trasfigurazione  di Cristo è nota. Sul volto trasfigurato di Gesù, che era salito sul Tabor con Pietro e Giacomo, brillò un raggio della luce divina che Egli custodiva nel suo intimo. Questa stessa luce sfolgorerà sul volto di Cristo nel giorno della Risurrezione. In questo senso la Trasfigurazione appare come un anticipo del mistero pasquale.  La Trasfigurazione ci invita ad aprire gli occhi del cuore sul mistero della luce di Dio presente nell’intera storia della salvezza. Non ci resta che contemplare il Signore come è, con gli occhi della fede, come l’enciclica Lumen fidei di Papa Francesco ci richiami. Poveri occhi di fede che guardano a Cristo povero in Croce per guardare come lui il Padre e il mondo (cfr Lumen fidei, 56).
La nostra trasfigurazione è un dono e un compito. In questo ci sono di esempio le Vergini consacrate, che con la loro vita sono chiamate ad essere speciali testimoni della Presenza di Dio, che è luce e dona luce.
Così il vergine rimane il testimone di una divina presenza.
Le Vergini si sono impegnate a vivere la partecipazione al mistero del Cristo, sia nel corpo che nello spirito. Di qui ne deriva che veramente il vergine è un’apparizione costante della trasfigurante presenza divina nel mondo. La necessità della verginità consacrata nasce di qui. Non possiamo noi opporre il cielo di domani alla terra di oggi; il mondo è uno solo, non ci sono due mondi. Il mondo è uno solo, ma per noi che non viviamo ancora una nostra trasfigurazione umana, il mondo divino rimane nascosto, lo crediamo, ma rimane nascosto. Ma le Vergini in qualche modo lo rivelano e, nella loro povertà di vita sono “ricche” di Dio: “E’ in Te  che possiedono tutto, perché è Te che loro preferiscono a tutto” (Rituale della Consacrazione delle vergini, n. 24: alla fine della preghiera solenne di consacrazione). La povertà di Cristo fu fondamentale, continua e voluta: “Sul suo corpo nudo in Croce i segni del suo amore erano visibilissimi, leggibili per tutti” (cfr Primo Mazzolari, La Via Crucis del Povero, Roma 1977, p. 143) E noi possiamo arricchirci di questo amore se ci facciamo poveri e lo mendichiamo, come le Vergini consacrate ce lo testimoniano.
 
 
 
 
 
 
 
Lettura quasi patristica
L’omaggio di Benedetto XVI alla povertà di San Francesco
 
 
“Era l’aprile del 1207, nell’Italia piena di sole. Era il mese in cui san Francesco d’Assisi era stato diseredato e ripudiato da suo padre. Non aveva piu’ niente, non era suo nemmeno l’abito che portava addosso; e tuttavia possedeva qualcosa che nessuno poteva sottrargli, vale a dire l’amore di Dio al quale ora poteva dire ‘Padre’ in un modo del tutto nuovo. E sapeva che questo era molto di più che possedere il mondo intero. Così il suo cuore era ricolmo di una grande gioia e cantando camminava attraversando i boschi dell’Umbria.
Proprio quel giorno, mentre San Francesco passava vicino a Gubbio, d’improvviso, dalla boscaglia balzarono due briganti pronti ad assalirlo; e stupiti dal suo aspetto così curioso gli chiesero: E tu chi sei?’. E lui rispose: “Sono l’araldo del gran re”.
Francesco d’Assisi non era un sacerdote, bensì rimase tutta la vita diacono; ma quello che disse in quel momento è parimenti una descrizione profonda di cosa sia e debba essere un sacerdote: è l’araldo del gran re, di Dio, e annunciatore e predicatore della signoria di Dio che si deve estendere nel cuore dei singoli uomini e in tutto il mondo.
Non sempre l’araldo percorrerà la sua strada cantando; a volte sì, certamente, perché il buon Dio a ogni sacerdote dona sempre di nuovo momenti nei quali, con stupore e letizia, riconosce quale grande compito Dio gli ha dato. Ma contro questo araldo si levano sempre anche i briganti, per così dire, ai quali quell’annuncio non piace: sono in primo luogo gli indifferenti, che per Dio non hanno mai tempo, quelli ai quali  proprio nel momento in cui Dio li chiamasse  verrebbe in mente che in realtà hanno qualcos’altro da fare, che hanno tanto di quel lavoro da sbrigare; poi ci sono quelli che dicono che non bisognerebbe costruire le chiese, ma anzitutto le case, e ai quali poi però sta bene che spuntino cinema e luoghi di divertimento di ogni tipo” (dal Volume 12 dell’Opera Omnia di Joseph Ratzinger).
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Mons. Francesco Follo è Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi.

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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