Questo pomeriggio, alle ore 15.35 (14.35 ora di Roma) [6 maggio 2019] il Santo Padre Francesco ha incontrato la Comunità Cattolica nella Chiesa di San Michele Arcangelo a Rakovsky. Al Suo arrivo il Papa è stato accolto da due bambini in costume tradizionale che gli hanno dato in dono del pane. All’ingresso della chiesa il Papa è stato ricevuto dal parroco e dal viceparroco. Quindi insieme hanno raggiunto una famiglia che lo attendeva accanto al bassorilievo di San Giovanni XXIII e che hanno offerto al Papa dei fiori che Egli ha deposto davanti alla reliquia del Santo.
Nel corso dell’incontro, dopo il breve indirizzo di saluto del Vescovo di Sofia e Plovdiv, S.E. Mons. Gheorghi Ivanov Jovčev, e la testimonianza di una suora eucaristina, è stato eseguito l’inno della GMG di Panama a cui hanno fatto seguito la testimonianza di un sacerdote, la danza di alcuni giovani appartenenti a movimenti laicali e la testimonianza di una famiglia. Quindi il Santo Padre ha pronunciato il Suo discorso. Al termine, dopo la benedizione finale, il Papa ha percorso la navata centrale mentre il coro ha eseguito un canto.
Sul sagrato lo attendevano alcuni ragazzi malati insieme ai volontari che hanno fatto volare palloncini bianchi mentre suonavano le campane. Successivamente il Santo Padre si è trasferito in auto alla Base Aerea Graf Ignatievo di Plovdiv da dove, alle ore 17.45 (16.45 ora di Roma), dopo il saluto ai 15 membri della Base Aerea, si è imbarcato su un A319/Volo di Stato per far rientro a Sofia. Al Suo arrivo il Papa si è recato in auto in Piazza Nezavisimost per l’Incontro per la Pace alla presenza degli Esponenti delle varie Confessioni Religiose presenti in Bulgaria. Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha pronunciato nel corso dell’Incontro con la Comunità Cattolica:
Discorso del Santo Padre
Cari fratelli e sorelle,
Buon pomeriggio! Vi ringrazio per la calorosa accoglienza, per le danze e le testimonianze. Mi dicono che la traduzione è con gli schermi. Va bene così. Mons. Iovcev mi ha chiesto di aiutarvi – in questa gioia di incontrare il Popolo di Dio con i suoi mille volti e carismi – di aiutarvi a “vedere con occhi di fede e di amore”.
Prima di tutto vorrei ringraziarvi perché avete aiutato me a vedere meglio e a comprendere un po’ di più il motivo per cui questa terra è stata tanto amata e significativa per San Giovanni XXIII, dove il Signore stava preparando quello che sarebbe stato un passo importante nel nostro cammino ecclesiale. Tra voi germogliò un’amicizia forte verso i fratelli ortodossi che lo spinse su una strada capace di generare la tanto sospirata e fragile fraternità tra le persone e le comunità. Vedere con gli occhi della fede. Desidero ricordare le parole del “Papa buono”, che seppe sintonizzare il suo cuore con il Signore in modo tale da poter dire di non essere d’accordo con quelli che intorno a sé vedevano solo male e da chiamarli profeti di sventura. Secondo lui bisognava aver fiducia nella Provvidenza, che ci accompagna continuamente e, in mezzo alle avversità, è capace di realizzare disegni superiori e inaspettati (Discorso di apertura del Concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962).
Gli uomini di Dio sono quelli che hanno imparato a vedere, confidare, scoprire e lasciarsi guidare dalla forza della risurrezione. Riconoscono, sì, che esistono situazioni o momenti dolorosi e particolarmente ingiusti, ma non restano con le mani in mano, intimoriti o, peggio, alimentando un clima di incredulità, di malessere o fastidio, perché questo non fa che nuocere all’anima, indebolendo la speranza e impedendo ogni possibile soluzione. Gli uomini e le donne di Dio sono coloro che hanno il coraggio di fare il primo passo – questo è importante: fare il primo passo – e cercano creativamente di porsi in prima linea testimoniando che l’Amore non è morto, ma ha vinto ogni ostacolo. Gli uomini e le donne di Dio si mettono in gioco perché hanno imparato che, in Gesù, Dio stesso si è messo in gioco. Ha messo in gioco la propria carne perché nessuno possa sentirsi solo o abbandonato. E questa è la bellezza della nostra fede: Dio che si mette in gioco facendosi uno di noi.
In questo senso vorrei condividere con voi un’esperienza di poche ore fa. Questa mattina ho avuto la gioia di incontrare, nel campo-profughi di Vrazhedebna, profughi e rifugiati provenienti da vari Paesi del mondo per trovare un contesto di vita migliore di quello che hanno lasciato, e anche, ho incontrato volontari della Caritas. [applauso ai volontari della Caritas, che si alzano in piedi, tutti con una maglietta rossa] Quando sono entrato qui e ho visto i volontari della Caritas, ho domandato chi fossero, perché pensavo fossero i vigili del fuoco! Così rossi! Lì [al Centro di Vrazhedebna] mi dicevano che il cuore del Centro – di questo Centro di rifugiati – nasce dalla consapevolezza che ogni persona è figlia di Dio, indipendentemente dall’etnia o dalla confessione religiosa. Per amare qualcuno non c’è bisogno di chiedergli il curriculum vitae; l’amore precede, sempre va avanti, si anticipa. Perché? Perché l’amore è gratuito. In questo Centro della Caritas sono molti i cristiani che hanno imparato a vedere con gli stessi occhi del Signore, che non si sofferma sugli aggettivi, ma cerca e attende ciascuno con occhi di Padre. Ma voi sapete una cosa? Dobbiamo stare attenti! Noi siamo caduti nella cultura dell’aggettivo: “questa persona è questo, questa persona è questo, questa persona è questo…”. E Dio non vuole questo. È una persona, è immagine di Dio. Niente aggettivi! Lasciamo che Dio metta gli aggettivi; noi mettiamo l’amore, in ogni persona.
Così, questo vale anche per il chiacchiericcio. Con quanta facilità viene tra noi il chiacchiericcio! “Ah questo è quello, questo fa questo…”. Sempre “aggettiviamo” la gente. Io non sto parlando di voi, perché so che qui non c’è il chiacchiericcio, ma pensiamo al posto dove ci sono le chiacchiere. Questo è l’aggettivo: aggettivare la gente. Dobbiamo passare dalla cultura dell’aggettivo alla realtà del sostantivo. Vedere con gli occhi della fede è l’invito a non passare la vita affibbiando etichette, classificando chi è degno di amore e chi no, ma a cercare di creare le condizioni perché ogni persona possa sentirsi amata, soprattutto quelle che si sentono dimenticate da Dio perché sono dimenticate dai loro fratelli.
Fratelli e sorelle, chi ama non perde tempo a piangersi addosso, ma vede sempre qualcosa di concreto che può fare. In questo Centro avete imparato a vedere i problemi, a riconoscerli, ad affrontarli; vi lasciate interpellare e cercate di discernere con gli occhi del Signore. Come disse Papa Giovanni: «Non ho mai conosciuto un pessimista che abbia concluso qualcosa di bene». I pessimisti non fanno mai qualcosa di bene. I pessimisti rovinano tutto. Quando io penso al pessimista, mi viene in mente una bella torta: cosa fa il pessimista? Versa aceto sulla torta, rovina tutto. I pessimisti rovinano tutto. Invece l’amore apre le porte, sempre! Papa Giovanni aveva ragione: «Non ho mai conosciuto un pessimista che abbia concluso qualcosa di bene».
Il Signore è il primo a non essere pessimista e continuamente cerca di aprire per tutti noi vie di Risurrezione. Il Signore è un ottimista inguaribile! Sempre cerca di pensare bene di noi, di portarci avanti, di scommettere su di noi. Che bello quando le nostre comunità sono cantieri di speranza! L’ottimista è un uomo o una donna che crea nella comunità speranza. Ma per acquistare lo sguardo di Dio abbiamo bisogno degli altri, abbiamo bisogno che ci insegnino a guardare e a sentire come Gesù guarda e sente; che il nostro cuore possa palpitare con i suoi stessi sentimenti. Per questo mi è piaciuto quando Mitko e Miroslava, con il loro piccolo angioletto Bilyana, ci dicevano che per loro la parrocchia è stata sempre la loro seconda casa, il luogo dove trovano sempre, nella preghiera comunitaria e nel sostegno delle persone care, la forza per andare avanti. Una parrocchia ottimista, che aiuta ad a andare avanti.
La parrocchia, in questo modo, si trasforma in una casa in mezzo a tutte le case ed è capace di rendere presente il Signore proprio lì dove ogni famiglia, ogni persona cerca quotidianamente di guadagnarsi il pane. Lì, all’incrocio delle strade, si trova il Signore, il quale non ha voluto salvarci con un decreto, ma è entrato e vuole entrare nel più intimo delle nostre famiglie e dire a noi, come ai discepoli: “Pace a voi!”. È bello il saluto del Signore: “Pace a voi!”. Dove c’è la tempesta, dove c’è il buio, dove c’è il dubbio, dove c’è l’angoscia, il Signore dice: “Pace a voi!”. E non solo lo dice: fa la pace. Sono contento di sapere che trovate buona questa “massima” che mi piace condividere con i coniugi: “Mai andare a letto arrabbiati, nemmeno una notte” (e, per quanto posso vedere, con voi funziona). È una massima che può servire anche per tutti i cristiani.
A me piace dire alle coppie di non litigare, ma se litigano, non c’è problema, perché è normale arrabbiarsi. È normale. E a volte litigare un po’ forte – qualche volta volano i piatti –, ma non c’è problema: arrabbiarsi a patto che si faccia la pace prima che finisca la giornata. Mai finire la giornata in guerra. A tutti voi sposi: mai finire la giornata in guerra. E sapete perché? Perché la “guerra fredda” del giorno dopo è molto pericolosa. “E, padre, come si può fare la pace? Dove posso imparare i discorsi per fare la pace?”. Fai così [fa il gesto di una carezza]: un gesto ed è fatta la pace. Soltanto un gesto di amore. Capito? Questo per le coppie. È vero che, come anche voi avete raccontato, si passa attraverso diverse prove; per questo è necessario stare attenti perché mai la rabbia, il rancore o l’amarezza si impossessino del cuore. E in questo ci dobbiamo aiutare, aver cura gli uni degli altri affinché non si spenga la fiamma che lo Spirito ha acceso nel nostro cuore.
Voi riconoscete, e ne siete grati, che i vostri sacerdoti e le vostre suore si prendono cura di voi. Sono bravi! Un applauso a loro. Ma quando vi ascoltavo mi ha colpito quel sacerdote che condivideva non quanto lui fosse stato bravo durante questi anni di ministero, ma ha parlato delle persone che Dio ha messo accanto a lui per aiutarlo a diventare un bravo ministro di Dio. E queste persone siete voi. Il Popolo di Dio ringrazia il suo pastore e il pastore riconosce che impara ad essere credente – attenti a questo: impara ad essere credente – con l’aiuto della sua gente, della sua famiglia e in mezzo a loro. Quando un sacerdote o una persona consacrata, anche un vescovo come me, si allontana dal Popolo di Dio, il cuore si raffredda e perde quella capacità di credere come il Popolo di Dio. Per questo mi piace questa affermazione: il Popolo di Dio aiuta i consacrati – siano essi sacerdoti, vescovi o suore – ad essere credenti. Il Popolo di Dio è una comunità viva che sostiene, accompagna, integra e arricchisce. Mai separati, ma uniti, ciascuno impara ad essere segno e benedizione di Dio per gli altri. Il sacerdote senza il suo popolo perde identità e il popolo senza i suoi pastori può frammentarsi. L’unità del pastore che sostiene e lotta per il suo popolo e il popolo che sostiene e lotta per il suo pastore. Questo è grande! Ognuno dedica la propria vita agli altri. Nessuno può vivere solo per sé, viviamo per gli altri. E questo lo diceva San Paolo in una delle sue lettere: “Nessuno vive per sé”. “Padre, io conosco una persona che vive per sé”. E quella persona è felice? È capace di dare la vita agli altri? È capace di sorridere? Sono le persone egoiste. È il popolo sacerdotale che con il sacerdote è in grado di dire: «Questo è il mio corpo offerto per voi». Questo è il Popolo di Dio unito al sacerdote. Così impariamo ad essere una Chiesa-famiglia-comunità che accoglie, ascolta, accompagna, si preoccupa degli altri rivelando il suo vero volto, che è volto di madre.
La Chiesa è madre. Chiesa-madre che vive e fa suoi i problemi dei figli, non offrendo risposte preconfezionate. No. Le mamme, quando devono rispondere alla realtà dei figli dicono quello che viene loro in mente in quel momento. Le mamme non hanno risposte preconfezionate: rispondono con il cuore, con il cuore di madre. Così la Chiesa, questa Chiesa che è fatta da tutti noi, popolo e sacerdoti insieme, vescovi, consacrati, tutti insieme, cerca insieme strade di vita, strade di riconciliazione; cerca di rendere presente il Regno di Dio. Chiesa-famiglia-comunità che prende in mano i nodi della vita, che spesso sono grossi gomitoli, e prima di districarli li fa suoi, li accoglie tra le mani e li ama. Così fa una mamma: quando vede un figlio o una figlia che è “annodato” in tante difficoltà, non lo condanna: prende quelle difficoltà, quei nodi nelle sue mani, li fa suoi e li risolve. Così è la nostra Madre Chiesa. Così dobbiamo guardarla.
È la madre che ci prende come siamo, con le nostre difficoltà, con i nostri peccati pure. È madre, sempre sa arrangiare le cose. Non ci sembra che sia bello avere una madre così? Mai allontanarvi, mai allontanarsi dalla Chiesa! E se tu ti allontani, perderai la memoria della maternità della Chiesa; incomincerai a pensare male della tua Madre Chiesa, e più vai lontano, più quell’immagine di madre diventerà un’immagine di matrigna. Ma la matrigna è dentro il tuo cuore. La Chiesa è madre. Una famiglia tra le famiglie – questo è la Chiesa –, aperta a testimoniare, come ci diceva la sorella, al mondo odierno la fede, la speranza e l’amore verso il Signore e verso coloro che Egli ama con predilezione. Una casa con le porte aperte. La Chiesa è una casa con le porte aperte, perché è madre.
A me ha colpito tanto una cosa che aveva scritto un grande sacerdote. Lui era un poeta e amava tanto la Madonna. Era anche un prete peccatore, lui sapeva di essere peccatore, ma andava dalla Madonna e piangeva davanti alla Madonna. Una volta scrisse una poesia, chiedendo perdono alla Madonna e facendo il proposito di non allontanarsi mai dalla Chiesa. Scriveva così: “Questa sera, Signora, la promessa è sincera. Ma, per ogni evenienza, non dimenticarti di lasciare la chiave dalla parte di fuori”. Maria e la Chiesa mai chiudono da dentro! Sempre, se chiudono la porta, la chiave è di fuori: tu puoi aprire. E questa è la nostra speranza. La speranza della riconciliazione. “Padre, lei dice che la Chiesa e la Madonna sono una casa con le porte aperte, ma se Lei sapesse, padre, le cose brutte che io ho fatto nella vita: per me le porte della Chiesa, anche le porte del cuore della Madonna, sono chiuse” – “Hai ragione, sono chiuse, ma avvicinati, guarda bene e troverai la chiave dalla parte di fuori. Fa’ così, apri ed entra. Non devi suonare il campanello. Apri con quella chiave lì”. E questo vale per tutta la vita!
In questo senso ho un “lavoretto” per voi. Voi siete figli nella fede dei grandi testimoni che furono capaci di testimoniare con la loro vita l’amore del Signore in queste terre. I fratelli Cirillo e Metodio, uomini santi e dai grandi sogni, si convinsero che il modo più autentico per parlare con Dio era farlo nella propria lingua. Questo diede loro l’audacia di decidersi a tradurre la Bibbia perché nessuno rimanesse privo della Parola che dà vita. Essere una casa dalle porte aperte, sulle orme di Cirillo e Metodio, oggi richiede anche di saper essere audaci e creativi per domandarsi come si possa tradurre in modo concreto e comprensibile alle giovani generazioni l’amore che Dio ha per noi.
Dobbiamo essere audaci, coraggiosi. Sappiamo e sperimentiamo che «i giovani, nelle strutture consuete, spesso non trovano risposte alle loro inquietudini, alle loro esigenze, alle loro problematiche e alle loro ferite» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 202). E questo ci chiede un nuovo sforzo di immaginazione nelle nostre azioni pastorali, per cercare il modo di raggiungere il loro cuore, conoscere le loro attese e incoraggiare i loro sogni, come comunità-famiglia che sostiene, accompagna e invita a guardare il futuro con speranza. Una grande tentazione che affrontano le nuove generazioni è la mancanza di radici, di radici che le sostengano, e questo le porta allo sradicamento e a una grande solitudine. I nostri giovani, nel momento in cui si sentono chiamati ad esprimere tutto il potenziale in loro possesso, molte volte restano a metà strada a causa delle frustrazioni o delle delusioni che sperimentano, poiché non hanno radici su cui appoggiarsi per guardare avanti (cfr ibid., 179-186). E questo aumenta quando si vedono obbligati a lasciare la propria terra, la propria patria, la propria famiglia. Non abbiamo paura di accettare nuove sfide, a condizione che ci sforziamo con ogni mezzo di far sì che la nostra gente non venga privata della luce e della consolazione che nascono dall’amicizia con Gesù.
Vorrei sottolineare questo che ho detto sui giovani, che tante volte perdono le radici. Oggi, nel mondo, ci sono due gruppi di persone che soffrono tanto: i giovani e gli anziani. Dobbiamo farli incontrare. Gli anziani sono le radici della nostra società, non possiamo mandarli via dalla nostra comunità, sono la memoria viva della nostra fede. I giovani hanno bisogno di radici, di memoria. Facciamo sì che comunichino tra di loro, senza paura. C’è una bella profezia del profeta Gioele: “I vecchi sogneranno e i giovani profetizzeranno” (cfr 3,1). Quando i giovani si incontrano con gli anziani e gli anziani con i giovani, gli anziani incominciano a rivivere, tornano a sognare e i giovani prendono coraggio dai vecchi, vanno avanti e incominciano a fare ciò che è tanto importante nella loro vita, cioè frequentare il futuro. Abbiamo bisogno che i giovani frequentino il futuro, ma questo si può fare solo se hanno le radici dei vecchi.
Quando io arrivavo qui alla parrocchia, nelle strade c’erano tanti anziani, tanti vecchietti e vecchiette. Sorridevano… Hanno un tesoro dentro. E c’erano tanti giovani che pure salutavano e sorridevano. Che si incontrino! Che gli anziani diano ai giovani questa capacità di profetizzare, cioè di frequentare il futuro. Queste sono le scommesse di oggi. E non abbiamo paura. Accettiamo nuove sfide, a condizione che ci sforziamo con ogni mezzo di far sì che la nostra gente non venga privata della luce e della consolazione che nascono dall’amicizia con Gesù, di una comunità di fede che la sostenga e di un orizzonte sempre stimolante e rinnovatore che le dia senso e vita (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 49).
Non dimentichiamo che le pagine più belle della vita della Chiesa sono state scritte quando creativamente il Popolo di Dio si metteva in cammino per cercare di tradurre l’amore di Dio in ogni momento della storia, con le sfide che man mano si andavano incontrando. Il popolo unito, il Popolo di Dio, con il sensus fidei che gli è proprio. È bello sapere che potete contare su una grande storia vissuta, ma è ancora più bello prendere coscienza che a voi è stato dato di scrivere ciò che verrà. Queste pagine non sono state scritte. Dovete scriverle voi. Il futuro è nelle vostre mani, il libro del futuro lo dovete scrivere voi. Non stancatevi di essere una Chiesa che continua a generare, in mezzo alle contraddizioni, ai dolori e anche a tante povertà, ma è la Chiesa Madre che continuamente fa dei figli, genera i figli di cui questa terra ha bisogno oggi agli inizi del XXI secolo, tenendo un orecchio al Vangelo e l’altro al cuore del vostro popolo. Grazie… – non ho finito! Vi tormenterò un po’ ancora –Grazie per questo bell’incontro. E, pensando a Papa Giovanni, vorrei che la benedizione che vi do ora sia una carezza del Signore su ciascuno di voi. Lui aveva dato quella benedizione con l’augurio che fosse una carezza; quella benedizione che diede alla luce della luna. Preghiamo insieme, preghiamo la Madonna che è immagine della Chiesa. Pregate nella vostra lingua.
[Recitano l’Ave Maria in bulgaro]
[Benedizione]
Viaggio Apostolico di Papa Francesco in Bulgaria e nella Macedonia del Nord – Incontro con la Comunità Cattolica nella Chiesa di San Michele Arcangelo a Rakovsky - Foto © Servizio Fotografico - Vatican Media
"Che gli anziani diano ai giovani questa capacità di profetizzare, cioè di frequentare il futuro"
Viaggio Apostolico di Papa Francesco in Bulgaria e nella Macedonia del Nord – Incontro con la Comunità Cattolica nella Chiesa di San Michele Arcangelo a Rakovsky