Mons. Francesco Follo - Foto © Servizio Fotografico-L'Osservatore Romano

Mons. Follo: La pace del Risorto riempie il nostro cuore di misericordia

II Domenica di Pasqua – Anno C – 28 aprile 2019 – Domenica della divina Misericordia

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Rito romano
At. 5,12-16; Sal 117; Ap.1, 9-11. 12-13. 17.19; Gv. 20,19-31
Rito ambrosiano
At 4,8-24; Sal 117; Col 2,8-15; Gv 20,19-31
 
1) La misericordia è l’amore di Dio che ama e perdona i peccatori.
Otto giorni fa, a Pasqua, abbiamo ringraziato il Signore che con la sua risurrezione ha mostrato che il suo amore, che è più forte della morte e del peccato.
Oggi celebriamo questo amore che si rivela e si attua come misericordia nella nostra quotidiana esistenza e sollecita ognuno di noi ad avere a sua volta “misericordia” verso il Crocifisso. In effetti è la vita del buon cristiano consiste nel santo desiderio di Dio, amando Lui e il prossimo e persino i “nemici”.
Cristo non rivela solamente che Dio è Amore, ma che Dio è misericordia perché non solamente  Dio ama l’uomo. Il Risorto mostra che Dio ha amato l’uomo colpevole. Non ha solamente i  figli buoni, ma anche quelli ribelli. Esseri che non sono degni, né utili, né piacevoli, né in sé, né a Lui buoni.
E quelli più lontani e più miseri, quelli più avversi e più cattivi, quelli ha amato ed ama..
Né quest’amore è stato prodigioso solo in sé e per l’intima felicità di Dio; ma lo è stato anche per gli esseri immeritevoli che ne sono l’oggetto inesplicabile. È stato un amore redentore.
Dio amando il peccatore dà paternamente esempio di bontà suprema, salvandolo con il perdono che ricrea. La misericordia si inchina sul male, ma non perché resti tale e perché sia vinta la giustizia, ma piuttosto perché la giustizia sia ricomposta nei suoi diritti ed abbia la sua rivendicazione. Dio ama il cattivo non perché tale, ma per farne un buono. Mentre spinge la misericordia fino a cancellare le conseguenze fatali del peccato, restaura l’assolutezza della legge morale riconducendo in essa il peccatore.
Questo singolare rapporto della misericordia con la giustizia è uno dei problemi più profondi e più chiaramente risoluti dal cristianesimo. Nessuno pensa che la misericordia di Dio, annunciata come si deve, e svelata nella sua sorgente e nel suo termine, che è l’Amore, sia complice del col male e indebolisca la forza dell’imperativo morale. La misericordia manifesta a tutti che lei, e lei sola, è capace di ricuperare il bene perduto, di ripagare nel bene il male compiuto e di generare nuove forze di giustizia e di santità.
Oggi come allora la celebrazione liturgica non è semplicemente una commemorazione di eventi passati, e neppure una particolare esperienza mistica, interiore, ma essenzialmente un incontro con il Signore risorto, che vive nella dimensione di Dio, al di là del tempo e dello spazio, e tuttavia si rende realmente presente in mezzo alla comunità, ci parla nelle Sacre Scritture e spezza per noi il Pane di vita eterna. Attraverso questi segni noi viviamo ciò che sperimentarono i discepoli, cioè il fatto di vedere Gesù e nello stesso tempo di non riconoscerlo. Può succedere anche a noi di toccare il suo corpo, un corpo vero, reale, eucaristico che dà pace.
A questo riguardo è utile ricordare quello che riferisce il Vangelo, e cioè che Gesù, nelle due apparizioni agli Apostoli riuniti nel cenacolo, saluta più volte dicendo “Pace a voi!” (Gv 20,19.21.26). Il saluto tradizionale, con cui ci si augura, la pace, diventa qui una cosa nuova: diventa il dono di quella pace che solo Gesù può dare, perché è il frutto della sua vittoria radicale sul male. La “pace” che Gesù offre ai suoi amici è il frutto dell’amore di Dio che lo ha portato a morire sulla croce, a versare tutto il suo sangue, come Agnello mite e umile, “pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14). Questo è il motivo per cui San Giovanni Paolo II ha voluto intitolare questa Domenica dopo la Pasqua alla Divina Misericordia, con un’icona ben precisa: quella del costato trafitto di Cristo, da cui escono sangue ed acqua, secondo la testimonianza oculare dell’apostolo Giovanni (cfr Gv 19,34-37). Ma ormai Gesù è risorto, e da Lui vivo scaturiscono i Sacramenti pasquali del Battesimo e dell’Eucaristia: chi si accosta ad essi con fede riceve il dono della vita eterna.
Il Vangelo di questa domenica mostra come il Risorto aiuti, confermi questa fede nell’Apostolo Tommaso e in ciascuno di noi, che come questo apostolo vogliamo incontrare Cristo toccandolo. Questo brano evangelico, infatti, mostra la misericordiosa bontà di Cristo, il quale – per aiutare la fede di San Tommaso Apostolo – riappare di nuovo nel Cenacolo e chiede a questo apostolo, che era assente alla Sua prima apparizione, di mettere le dita nel Suo costato trafitto, da cui sulla croce erano sgorgati sangue e acqua ((cfr Gv 19, 34).
Oggi a noi è chiesto di fare memoria dell’incontro di una uomo incredulo, che poté mettere la sua mano nel costato di Cristo, dal cui cuore trafitto dal peccato scaturisce ancora l’onda grande della misericordia. Anche se i nostri peccati fossero neri come la notte, la misericordia divina è più forte della nostra miseria. Occorre una cosa sola: che il peccatore socchiuda almeno un poco la porta del proprio cuore… il resto lo farà Dio.
Ogni cosa ha inizio nella sua misericordia e nella sua misericordia finisce, scriveva Santa Faustina Kowalska. Per questo San Giovanni Paolo II ha dedicato alla divina misericordia la Domenica seconda dopo Pasqua.
In effetti la liturgia di oggi, a partire della preghiera di inizio, è una liturgia di misericordia. Certo la decisione di Giovanni Paolo II fu ispirata pure dalle rivelazioni private avute da Santa Faustina Kowalska, la quale vide partire dal costato di Cristo due raggi di luce, uno rosso, che rappresenta il sangue, e l’altro bianco che rappresenta l’acqua. Se il sangue evoca il sacrificio della croce e il dono dell’eucaristia, l’acqua ricorda il battesimo ed il dono dello Spirito Santo (cfr Gv 3,5; 4,14; 7,37-39).
Attraverso il cuore trafitto di Cristo crocifisso la misericordia divina raggiunge gli uomini. Gesù è “l’Amore e la Misericordia in persona” (Santa Faustina Kowalska, Diario, 374). La Misericordia è un “secondo nome” dell’Amore (cfr Dives in misericordia, 7), colto nel suo aspetto più profondo e tenero, nella sua capacità e disponibilità di farsi carico di ogni bisogno, soprattutto il bisogno del perdono. “Alla grande ferita dell’anima corrisponde la grande misericordia di Dio” (Sant’Eusebio).
Gesù “usa” l’unguento della piaga del Suo costato per curare il cuore di Tommaso, piagato dall’incredulità. La medicina della sua misericordia è più grande delle colpe umane. Si fa incontro a Tommaso, agli altri apostoli e, oggi, a ciascuno di noi e non chiede: “Cosa hai fatto?” ma “Mi ami?”, come domandò a Pietro in riva al logo dopo la risurrezione. Pietro, e noi pure, non abbiamo che il nostro dolore come risposta a Cristo, ma a Lui basta. E, come fece con Pietro, ci conferma nel suo amore misericordioso, un amore che libera, guarisce e salva
Noi siamo poca e fragile cosa, ma possiamo essere nella gioia se diciamo: “Signore Gesù confido in te” (come fu suggerito a santa Faustina da Gesù: cfr Diario, 327 ), perché è fonte di letizia l’annuncio di questa misericordia: Gesù è misericordia. Egli è mandato dal Padre per farci conoscere che l’essenza di Dio ha come caratteristica suprema per l’uomo la misericordia.
Dobbiamo domandarci se siamo sempre coscienti che noi viviamo per la misericordia di Dio, per la sua elemosina, che ci dà vita, libertà, amore, speranza, perdono e ogni grazia. Dobbiamo pure domandarci se pratichiamo l’elemosina. L’elemosina è un fatto che tocca le radici della vita dell’uomo perché è accettazione del modo di vivere di Cristo, il quale da “ricco che era si è fatto povero per voi, per arricchirvi mediante la sua povertà” (2 Cor 8,9). E’ accettazione che Cristo sia la ricchezza della nostra vita, e va seguito senza rimpiangere i propri beni (cfr Mt 19,21s).
L’elemosina-misericordia non è pura e semplice filantropia, ma amore per Cristo, che raggiungiamo attraverso i nostri fratelli poveri: “ciò che avete fatto ad uno di questi piccoli, l’avete fatto a me” (cfr Mt 25). Tanto è vero che Cristo accetta che si “sciupi” per lui il profumo prezioso invece di venderlo per i poveri: è Cristo il fondamento valido di ogni amore per il prossimo.
 
 
            2) La misericordia come vocazione.
San Tommaso, toccando l’uomo e riconoscendo Dio “Signor mio e Dio mio”, credette e fu confermato con gli altri Apostoli nella vocazione di annunciare il Vangelo di misericordia : “Come il Padre ha mandato me, io mando voi”. Da questo momento il “vento” di Dio portò i discepoli sino agli estremi confini della terra e… fino al martirio. Come in una nuova creazione, lo Spirito del Risorto fa capaci i discepoli di qualcosa d’inaudito: perdonare i peccati. Vanno a tutti perché gli uomini e le donne, sotto tutti i cieli, hanno bisogno proprio di questo: misericordia e perdono.
            Anche il dolore è rovesciato: dal momento che Cristo è risorto “ tutto il dolore che c’è nel mondo non è dolore di agonia, ma dolore di parto” ( P. Claudel ). Allora la vita può essere vissuta come una festa, il Risorto offre immaginazione e coraggio per creare il “nuovo”. Mentre le ideologie e utopie umane s’infrangono tutte contro lo scoglio della morte, Gesù apre le porte della speranza cristiana, che non delude e non si risolve in un “desiderio smentito”. Nessuna croce, nessuna prova, nessun dramma può togliere la pace o spegnere la gioia che viene dalla Risurrezione
La Pasqua di Risurrezione mostra che la morte vince solo “per un poco”, e non ha l’ultima parola.
La nostra vocazione, come quella di Tommaso e degli altri Apostoli, è di annunciare il Vangelo di Misericordia, di raccontare la misericordia di Dio Padre, attraverso la propria capacità di perdono e di remissione dei peccati (per chi è prete): tutti laici e sacerdoti siamo chiamati ad essere lievito di misericordia.
Alla luce del Vangelo è più chiare l’espressione: “Pietà e tenerezza è il Signore” (Sal 110/111, 4), che ci ha donato con indicibile bontà il suo unico Figlio, nostro Redentore.
Facendo tramite la Chiesa esperienza del grande amore con il quale Dio ci ha amati (Ef 2,4), accogliamo la sua misericordia e proclamiamolo dentro la comunità cristiana e nel mondo. Siamo chiamati ad essere lievito di misericordia nella pasta del mondo. Noi non apparteniamo al mondo, apparteniamo a Cristo e condividiamo la sua missione di essere lievito di misericordia per far risorgere il mondo
In questo ci è di esempio il volto della Madre di Gesù, riflesso nel volto delle vergini consacrate, che si sforzano di seguire il Maestro divino e, quindi, ad essere per l’umanità il segno della misericordia e della tenerezza divina.
Come ci invita Papa Francesco “impariamo ad essere misericordiosi con tutti. Invochiamo l’intercessione della Madonna che ha avuto tra le sue braccia la Misericordia di Dio fatta uomo” (Papa Francesco, Angelus, 14 marzo 2013) e per prima ha contemplato Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre (cfr Id. 11 aprile 2015). E per questo che Papa Francesco non si stanca di ripetere che “il primo nome di Dio è misericordia” (12 gennaio  2016 – si tratta di alcune citazioni fra le numerosissime volte in cui Papa Francesco parla della misericordia, l’ultima per ora è quella del 19 aprile 2019).
La misericordia è l’amore in eccesso che le Vergini consacrate vivono donandosi completamente a Cristo, la misura colma e traboccante che va oltre la giustizia, non commisurato al merito dell’altro, né ai propri interessi. Essa evangelizzano mediante la misericordia, perché nella Verginità accolgono sulle loro ginocchia Cristo deposto dalla Croce e ne proclamano il perdono.
Esse sono certe dell’Emmanuele, del “Dio con noi” a cui offrono la vita per essere con Lui Ostia di misericordia, che perdona e rinnova la vita.
Esperimentando il perdono di Dio e perdonando sempre diventiamo certi che la Sua potenza è più grande della nostra debolezza. Certi del “Dio con noi”. Solo da questa certezza può venire la gioia, solo dalla certezza del “Dio con noi” può venire la gioia. Dobbiamo domandarci se siamo sempre coscienti che noi viviamo per la misericordia di Dio, per la sua elemosina, che ci dà vita, libertà, amore, speranza, perdono e ogni grazia. La misericordia di Cristo tramite loro continua ad essere dono della vita, della vita vissuta in Cristo, con Cristo per  Cristo-Misericordia.
Le vergini consacrate sono chiamate in modo particolare ad essere testimoni di questa misericordia del Signore, nella quale l’uomo trova la propria salvezza. Queste donne tengono viva l’esperienza del perdono di Dio, perché hanno la consapevolezza di essere persone salvate, di essere grandi quando si riconoscono piccole, di sentirsi rinnovate ed avvolte dalla santità di Dio quando riconoscono il proprio peccato.
In questo modo danno l’esempio che il riconoscimento umile della propria miseria, permette una piena fiducia nella misericordia di Dio, nel suo amore che mai abbandona.
 
 
NB: Come aiuto alla riflessione ed alla pratica propongo l’etimologia della parola Elemosina, l’elenco delle opere di misericordia corporale e spirituale e un’omelia di San Gregorio di Nissa sulla misericordia.
 
Elemosina, che in francese si dice aumône, inglese alms, viene dal greco elemosyne: misericordia, compassione (specialmente verso i poveri, quindi beneficenza, dallo stesso tema elèemon, pietoso, èleos: pietà, eleèo: aver compassione. Ora si intende ciò che si dà ai poveri per carità.  Si vedano le riflessioni che ho proposte per I Domenica di Quaresima, 17 febbraio 2013.
La Chiesa – servendosi della Bibbia, ma anche della propria esperienza bimillenaria – riassume l’atteggiamento positivo verso chi è in difficoltà, con due serie di opere di misericordia: quelle corporali e quelle spirituali.
Le ricordiamo:
Le sette opere di misericordia corporale
1) Dar da mangiare agli affamati
2) Dar da bere agli assetati
3) Vestire gli ignudi
4) Alloggiare i pellegrini
5) Visitare gli infermi
6) Visitare i carcerati
7) Seppellire i morti.
 
Le sette opere di misericordia spirituale
8) Consigliare i dubbiosi
9) Insegnare agli ignoranti
10) Ammonire i peccatori
11) Consolare gli afflitti
12) Perdonare le offese
13) Sopportare pazientemente le persone moleste
14) Pregare Dio per i vivi e per i morti.
 
Ricorrendo al numero sette per due volte, la Chiesa intende dare a quel numero il valore simbolico raccolto nella Bibbia. Come a dire che in quel numero, che significa completezza, si vuol esprimere tutto ciò che riguarda l’aiuto verso il prossimo.
Veniamo quindi sollecitati a esercitare un amore concreto verso il nostro prossimo in situazione di disagio.
Come già raccomandava S. Giovanni ai primi cristiani: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1 Gv 3,18). E S. Giacomo: “Siate di quelli che mettono in pratica la parola, non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi” (Gc 1,22).
 
 
 
Lettura Patristica
San Gregorio Di Nissa:
Omelie Sulle Beatitudini
Orazione Quinta
“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia”
La virtù come progresso incessante verso il meglio. Il simbolo della scala.
Forse, ciò in cui fu istruito, enigmaticamente, Giacobbe con una visione, quando vide una scala che dalla terra giungeva all’altezza del cielo e Dio che stava sopra di essa [Gen 28,10ss], è qualche cosa di simile a ciò che ora anche a noi propone l’insegnamento delle beatitudini, che solleva a pensieri sempre più alti coloro che ascendono grazie ad esso. Io credo, infatti, che in quella occasione sia stata rappresentata al patriarca, sotto la forma della scala, la vita secondo virtù, perché lui stesso imparasse ed insegnasse alla sua discendenza, che essere innalzati a Dio non consiste in altro che in questo: con lo sguardo sempre fisso verso l’alto e con l’incessante desiderio delle realtà superiori, non amare la sosta nelle azioni rette già compiute, ma anzi ritenere una perdita il non toccare la realtà posta più in alto. Anche qui, dunque, l’elevatezza delle beatitudini che si sorreggono una sull’altra, ci predispone ad accostarci a Dio, il vero beato, che è stabilito al di sopra di ogni beatitudine. Certamente, come ci accostiamo al sapiente attraverso la sapienza e al puro attraverso la purezza, così anche dobbiamo assimilarci al beato attraverso le beatitudini. La beatitudine, nel senso più vero, è propria di Dio; perciò anche Giacobbe narrò che Dio poggiava sopra tale scala. La partecipazione alle beatitudini non è dunque null’altro se non comunione con la divinità, alla quale il Signore ci innalza attraverso ciò che è stato detto. A me sembra, dunque, che Egli, con il fatto di far precedere alla conseguenza l’indicazione della beatitudine, renda in un certo qual modo “dio” colui che ascolta e comprende il discorso. “Beati -Egli dice infatti- i misericordiosi, perché troveranno misericordia”. Io so che in molti passi della Sacra Scrittura i santi chiamano con il nome di “misericordioso” la potenza divina. Così fa Davide negli inni, così Giona nella sua profezia, così il grande Mosè, più volte, nella Legge. Se dunque la denominazione di “misericordioso” spetta a Dio, a cos’altro ti invita il Logos se non a divenire “dio”, come se tu fossi modellato secondo un attributo proprio della divinità? Se infatti Dio è chiamato “misericordioso” nella Scrittura divinamente ispirata e da stimarsi veramente beata è la divinità, dovrebbe essere evidente il pensiero conseguente: se uno, pur essendo uomo è misericordioso, egli è reso degno della beatitudine divina, essendo in lui quell’attributo con cui è designato Dio. “Misericordioso è il Signore e giusto; il nostro Dio ha misericordia” [Sal 114,5]. Come dunque può non essere cosa beata che un uomo sia chiamato con il nome con cui è appellato Dio per il suo agire, e lo diventi realmente? Ora, anche il divino apostolo invita con parole proprie ad essere zelanti per i doni più grandi; lo scopo di quest’invito, per noi, non è di persuaderci a desiderare il bene (è infatti spontaneo per la natura umana avere inclinazione per il bene), ma ci è rivolto perché non sbagliamo nel giudizio del bene. Infatti soprattutto in ciò fallisce la nostra vita: nel non poter comprendere con chiarezza che cosa sia il bene per natura e che cosa sia ciò che è supposto tale per errore. Se infatti il male si fosse presentato nella vita spoglio, senza valersi di nessuna apparenza di bene, il genere umano non avrebbe disertato a suo favore. Noi abbiamo dunque bisogno di giudizio per comprendere le parole che ci sono proposte, perché, edotti riguardo alla vera bellezza del pensiero che è contenuto in esse, ci conformiamo ad essa. Come la concezione di Dio è insita naturalmente in ogni uomo ma, rimanendo sconosciuto chi sia veramente Dio, si genera l’errore riguardo l’oggetto dei nostri pensieri (alcuni, infatti, venerano la vera divinità, contemplata nel Padre nel Figlio e nello Spirito Santo, altri, invece, andarono errando in assurde concezioni, supponendo che tale divinità fosse nel creato; perciò, la deviazione, seppur di poco, dalla verità ha aperto la strada alle empietà), così, se non comprendessimo il vero senso del concetto proposto, noi, erranti, subiremmo una perdita della verità non da poco.
La misericordia come amore reciproco e “simpatia” nata dalla carità.
Che cosa è dunque la misericordia e relativamente a cosa si esercita? E come può essere detto beato colui che riceve in cambio ciò che dà? Dice infatti il Signore: “beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Il senso più accessibile del contenuto del detto esorta l’uomo all’amore reciproco e alla simpatia poiché, per l’ineguaglianza e la varietà dei fatti della vita, non tutti vivono nelle stesse condizioni, né per la reputazione, né per la costituzione fisica, né per i rimanenti beni. La vita, il più delle volte, si divide in opposti: in schiavitù e in signoria, in ricchezza e povertà, in fama e disonore, in deformità fisica e in buona salute, scindendosi in tutti gli opposti di questo genere. Perché dunque fosse pareggiato ciò che è scarseggiante con ciò che abbonda e riempito ciò che è mancante con ciò che è in eccesso, fu prescritta agli uomini la misericordia per i più bisognosi. Non è possibile, infatti, sentire l’impulso a curare la disgrazia del vicino, se la misericordia non ha suscitato nell’anima simile istinto. Si pensa alla misericordia, infatti, come al contrario della durezza di cuore. Come l’uomo duro di cuore e furioso è inaccessibile per coloro che gli si avvicinano, così l’uomo compassionevole e misericordioso è come addolcito per la sua disposizione verso il bisognoso, diventando, per colui che è afflitto, ciò che il suo spirito angosciato ricerca. La misericordia è, come qualcuno potrebbe interpretare comprendendola con una definizione, una afflizione volontaria prodottasi per i mali altrui. Se poi non avessimo dimostrato pienamente il senso di quel concetto, si potrebbe forse spiegarlo più pienamente con un altro discorso. Misericordia e una disposizione di canti verso coloro che si trovano in situazioni penose. Come infatti la durezza di cuore e la ferocia traggono origine dall’odio, la misericordia è come generata dalla carità, non potendo esistere senza di lei. Se si volesse poi sviscerare in modo più penetrante la caratteristica propria della misericordia, si troverebbe che è un ardore nella disposizione di carità unita all’affezione del dolore. Infatti si ricerca con ardore la comunione dei beni con tutti in ugual modo, amici e nemici. La volontà di condividere le pene è poi caratteristica propria solo di coloro che sono dominati dalla carità. D’altra parte si è senza dubbio d’accordo nel riconoscere che la carità è la cosa più eccellente tra quante si perseguono in questa vita. La misericordia è poi ardore di carità. è dunque da ritener beato in senso proprio colui che si trova in tale disposizione d’animo, poiché è come se avesse toccato il vertice della virtù. Nessuno, poi, consideri la virtù solo nella dimensione materiale; se così fosse simile rettitudine di comportamento sarebbe possibile solo a chi ha una certa potenza a far bene, invece a me sembra più giusto vedere simile rettitudine nella scelta. Se infatti uno avesse soltanto voluto il bene, ma gli fosse stato impedito di compierlo, il non poterlo attuare non lo renderebbe per nulla inferiore, nella disposizione d’animo, a colui che ha manifestato la sua intenzione nei fatti. Se ora si è colto il senso della beatitudine, dovrebbe risultare superfluo spiegare quanto sia grande il guadagno che ne deriva alla vita, perché sono evidenti perfino ai semplici i risultati felici per la vita di questo consiglio. Se infatti, per ipotesi, ci fosse in tutti una simile disposizione d’animo verso l’inferiore, non ci sarebbe più né superiore né inferiore; la vita non si differenzierebbe più nell’opposizione dei nomi. La fame non affliggerebbe più l’uomo, né lo umilierebbe la schiavitù, né lo addolorerebbe il disonore, ma tutto sarebbe comune a tutti e un’uguaglianza di diritti e un’egual libertà di parola avrebbe cittadinanza nell’esistenza umana, poiché chi governa si porrebbe volontariamente allo stesso livello del resto dei cittadini. Se ciò accadesse non sarebbero più comprensibili dei motivi di inimicizia: resterebbe inattiva l’invidia, sarebbe morto l’odio e sarebbero esiliati il ricordo delle ingiurie, la menzogna, l’inganno, la guerra (tutti frutti del desiderio di avere di più). Una volta bandita quella disposizione di inimicizia, vengono rigettati completamente i germi della malvagità, come venissero da una malvagia radice. Alla abolizione della malvagità dovrebbe subentrare l’elenco dei beni: pace, giustizia e tutta la sequela di ciò che è pensato in relazione al meglio. Quale situazione, dunque, si potrebbe ritenere più beata del vivere così, senza più riporre la nostra sicurezza in catenacci o pietre, sicuri dell’aiuto reciproco? Come l’uomo duro di cuore e feroce si rende ostili coloro che hanno fatto esperienza della sua selvatichezza, così, al contrario, tutti noi diventiamo ben disposti verso il misericordioso, poiché naturalmente la misericordia genera carità in coloro che partecipano di essa. La misericordia, dunque, come dimostra il discorso, è madre della benevolenza, pegno di carità e legame di ogni disposizione amichevole. Che cosa potrebbe essere pensato di più saldo, in questa vita, di questa sicurezza? Perciò a buon diritto il Logos chiama beato il misericordioso, poiché beni tanto grandi si manifestano in questo nome. Ma non è sconosciuta a nessuno l’utilità per la vita di tale consiglio.
La sentenza finale di Dio è speculare rispetto alla libera scelta dell’uomo.
A me pare, poi, che il senso di tale passo, con la scelta del tempo futuro, sveli ineffabilmente qualche cosa di più grande di ciò che viene inteso immediatamente. “Beati i misericordiosi -dice infatti il Signore- perché troveranno misericordia”, come se per i misericordiosi la ricompensa secondo misericordia fosse posta dopo. Dunque, per quanto ne siamo capaci, tralasciato questo significato facile da comprendere e scoperto con facilità dalla gran parte della gente, accingiamoci, secondo il possibile, a penetrare con il pensiero oltre il velo. “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia”. In queste parole è possibile imparare qualche cosa di più sublime anche per la dottrina: Colui che fece l’uomo a sua immagine, ripose nella natura della sua opera i principi di tutti i beni, affinché nessun bene si introducesse in noi dall’esterno, ma fosse in noi il potere di ciò che vogliamo, traendo il bene dalla nostra natura come da un forziere. Infatti impariamo, da una parte per il tutto, che non è possibile altrimenti che uno incontri ciò che desidera senza che lui stesso si faccia dono del bene; perciò una volta il Signore disse a coloro che l’ascoltavano: “Il regno di Dio è dentro di voi” [Lc 17,21] e “chiunque chiede ottiene, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto” [Mt 6,7-8]. Così l’ottenere ciò che desideriamo, il trovare ciò che cerchiamo, l’introdurci dove desideriamo, sono in nostro potere, qualora lo vogliamo, e sono legati alla facoltà del nostro animo. Insieme con questo, conseguentemente, si stabilisce anche il pensiero contrario: anche l’inclinazione verso il peggio ha luogo senza che si eserciti nessuna necessità esterna; essa si realizza nel momento stesso in cui compiamo la scelta, venendo all’essere solo allora. Il male, in se stesso, secondo la propria sostanza, non può essere trovato da nessun’altra parte al di fuori della scelta. Da ciò si mostra chiaramente la facoltà di autogoverno e di autodeterminazione di cui il Signore della natura ha dotato gli uomini, facendo dipendere ogni cosa, sia buona, sia malvagia, dalla nostra libera scelta e si mostra anche chiaramente che il giudizio divino, facendo seguito con un’incorruttibile e giusta sentenza alle scelte fatte secondo il nostro proponimento, a ciascuno distribuisce quanto ognuno si sia trovato a procurarsi; a coloro che, come dice l’Apostolo [Eb 12,7], cercano gloria e onore con la perseveranza nelle buone opere, Dio dà la vita eterna, ma a coloro che disubbidiscono alla verità e danno credito all’ingiustizia, Dio distribuisce collera e afflizione e tutti quanti i nomi che indicano la triste retribuzione. Come gli specchi corretti mostrano l’immagine dei volti tali quali sono i volti, sereni per coloro che sono sereni, cupi per coloro che sono corrucciati (e nessuno farebbe colpa alla natura dello specchio se apparisse cupa l’immagine dell’originale caduto nell’abbattimento), così anche il giusto giudizio di Dio si conforma alle nostre disposizioni, rendendoci dal suo ricompense tali quali sono le azioni che abbiamo compiuto. “Venite -dice il Signore- benedetti” e “Andatevene maledetti” [Mt 25,34-41]. C’è qualche necessità esterna per cui quelli di destra siano chiamati con dolcezza e quelli di sinistra con tono cupo? I primi non ottennero misericordia per il loro comportamento e i secondi non resero duro contro di loro il volere divino per il comportamento duro contro i loro simili? Il ricco, che si rallegrava nel lusso, non ebbe pietà del povero che stava afflitto davanti al suo portone e perciò recise per sé la possibilità della misericordia e quando ebbe bisogno di misericordia non fu ascoltato. Questo non perché una sola goccia comporti una perdita per la grande fonte del paradiso, ma perché la goccia di misericordia non può mischiarsi con la durezza di cuore. Che c’è in comune, infatti, tra luce e tenebre? Quello che l’uomo semina raccoglierà, dice l’Apostolo [Gal 6,8], poiché chi semina nello spirito raccoglierà dallo spirito vita eterna. Io credo che la semina sia la scelta dell’uomo e la raccolta la ricompensa che segue la scelta. Fecondo è il frutto dei beni per coloro che hanno scelto simile raccolta; penosa la raccolta di spine per coloro che hanno gettato nella vita semi spinosi. è del tutto necessario, infatti, che uno raccolga la stessa cosa che ha seminato e non è possibile altrimenti. “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia”. Quale parola umana potrebbe penetrare la profondità dei pensieri contenuti in questo discorso?
La misericordia più profonda è verso se stessi, privati, per il peccato, della dignità originaria.
L’assolutezza e l’infinità di tali parole ci induce a ricercare qualche cosa di più di ciò che è stato detto. Il Signore, infatti, non ha aggiunto chi sono coloro verso cui è necessario che si operi la misericordia, ma disse semplicemente: “Beati i misericordiosi”. Forse il Logos, attraverso le parole dette, ci orienta enigmaticamente in tal senso: il concetto di misericordia è conseguente alla sofferenza che è chiamata beata. Nella beatitudine precedente, infatti, era beato colui che aveva trascorso la vita di quaggiù nella sofferenza, in questa beatitudine a me sembra che il Logos indichi la stessa dottrina. Come noi, infatti, rimaniamo colpiti dalle disgrazie altrui, quando ad alcuni dei nostri amici accadono sventure non volute: o sono stati cacciati dalla casa paterna, o si sono salvati, privi di tutto, da un naufragio, o sono caduti nelle mani dei pirati o dei briganti, oppure sono diventati schiavi da liberi che erano, o prigionieri di guerra da benestanti; oppure coloro che fino a quel momento erano in vista in una forma di benessere per la loro vita, hanno ricevuto in cambio qualche altra disgrazia del genere. Come dunque, di fronte a simili sventure, nasce nella nostra anima una compartecipazione dolorosa, sarebbe forse molto più opportuno che avessimo la stessa disposizione riguardo a noi stessi, considerando il colpo subito dalla nostra vita contro la nostra dignità. Quando infatti consideriamo quale era la nostra splendida casa da cui siamo stati gettati fuori; come siamo caduti nelle mani dei briganti; come, sprofondando nell’abisso di questa vita, siamo stati denudati; a quali e quanti padroni ci siamo legati invece di vivere in maniera libera ed autonoma; come abbiamo spezzato la beatitudine della vita con morte e corruzione; è dunque possibile, se cogliamo questi pensieri, che la nostra anima si occupi delle sventure altrui e non si disponga a misericordia nei propri confronti, considerando ciò che aveva e da quale condizione è stata cacciata? Che cosa c’è di più miserevole di questa prigionia? Invece della delizia del paradiso abbiamo ricevuto in sorte, nella vita, questo luogo soggetto a malattie e a fatiche. In cambio di quella libertà dalle passioni, abbiamo preso in sorte innumerevoli passioni. In cambio di quel modo di vivere superiore, la vita insieme con gli angeli, siamo stati condannati ad abitare al terra insieme con le bestie. Poiché abbiamo mutato la vita angelica e libera da passioni in quella bestiale, chi potrebbe facilmente enumerare gli amari tiranni della nostra vita, padroni furenti e selvaggi? L’ira è un amaro padrone e così l’invidia; l’odio, che è la passione della superbia, è un tiranno furente e selvaggio; il ragionamento licenzioso, che assoggetta la natura a servizi legati alle passioni e alle impurità è come se deridesse degli schiavi. La tirannide dell’avidità, quale eccesso di asprezza non supera? Questa, assoggettatasi la misera anima, la costringe a soddisfare i suoi smisurati desideri, poiché è sempre bisognosa e non è mai sazia. è come una bestia policefala che invia attraverso le innumerevoli bocche il cibo allo stomaco insaziabile e questo non è per nulla soddisfatto di ciò che ha guadagnato, anzi, ciò che continuamente assume è materia che incendia il desiderio del di più. Chi dunque, considerando questa vita infelice, potrebbe rimanere duro e insensibile a tali disgrazie? Il fatto di non provare misericordia di noi stessi è dovuto all’insensibilità di fronte a questi mali; come accade ai folli a cui l’eccesso del male ha tolto anche la consapevolezza di ciò che patiscono. Se dunque uno ha conosciuto se stesso, come era una volta e come è nel presente (anche Salomone dice in qualche passo “saggi sono coloro che conoscono se stessi”), costui non cesserà mai di avere misericordia di sé e a tale disposizione dell’anima seguirà, come è verosimile, anche la misericordia di Dio.
Il misericordioso è giudice di se stesso nel giudizio finale.
Perciò il Signore dice: “Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia”. Essi, non altri: in ciò, infatti, fornisce un chiarimento il nome, come se uno dicesse: “Cosa beata è il prendersi cura della salute fisica; colui infatti che se ne prende cura, vivrà in salute”. Così chi ha misericordia è detto beato perché il frutto della misericordia è possesso proprio di chi è misericordioso, sia seguendo il discorso che abbiamo scoperto ora, sia seguendo quello precedente, ossia il mostrare compassione per le sventure altrui. In entrambi i casi, infatti, è ugualmente bene sia l’aver misericordia di sé, nel modo detto, sia il compatire le sventure dei vicini. Perciò l’equità del giudizio di Dio mostra che la libera scelta dell’uomo verso gli inferiori è in relazione alla superiore volontà, per cui, in un certo qual modo, l’uomo è giudice di se stesso esprimendo il giudizio su di sé nelle cause dei suoi sottoposti. Poiché si crede, e giustamente si crede, che tutta la natura umana sia sottoposta al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva la ricompensa secondo quanto ha compiuto quando era nel corpo, sia esso bene o male (è forse audace anche dirlo) se è possibile cogliere con un ragionamento ciò che è ineffabile e invisibile, è anche già possibile comprendere la beatitudine della ricompensa per chi ottiene misericordia. Infatti la benevolenza che nasce nelle anime nei confronti di coloro che mostrano compassione, verosimilmente, rimane perenne, per tutta l’esistenza, nella vita di coloro che partecipano della benevolenza. Che cosa, dunque, è verosimile che accada al momento della resa dei conti, se il benefattore verrà riconosciuto da coloro che sono stati oggetto del beneficio? Come disporrà egli la sua anima ascoltando le voci riconoscenti che lo acclamano di fronte al Dio di tutta la creazione? Di quale altra beatitudine necessiterà, dunque, colui che è celebrato come da un araldo in così grande teatro per le ottime azioni? Infatti, insegna la parola del Vangelo [Mt 25,34ss], coloro che hanno ricevuto un beneficio, sono presenti nel giudizio del Re verso i giusti e verso i peccatori. Con entrambi egli fa uso del dimostrativo, come se indicasse con un dito l’oggetto: “Per quanto faceste ad uno di questi miei fratelli più piccoli” [Mt 25,40-45]. Il dire “questi” indica la presenza di coloro che ricevettero il beneficio. Mi dica, dunque, chi preferisce la materia inanimata delle ricchezze alla futura beatitudine: quale splendore d’oro, quale fulgore delle pietre preziose, quale ornamento di abiti è paragonabile a quel bene che la speranza suggerisce? Quando il Re della creazione abbia rivelato se stesso alla natura umana, assiso con magnificenza sul suo trono sublime; quando siano apparse intorno a Lui le innumerevoli miriadi di angeli; e ancor più quando sia di fronte agli occhi di tutti l’ineffabile regno dei cieli e, dal lato opposto, si mostrino le terribili punizioni. Ma quando, in mezzo a queste cose, tutta la natura umana, dalla prima creazione fino alla pienezza del tutto, sia sospesa tra il timore e la speranza del futuro, tremando spesso per l’esito finale di ciò che si attende da ciascuna delle due sorti; mentre coloro che hanno vissuto con una buona coscienza sono in dubbio sul futuro, qualora vedano altri trascinati dalla cattiva coscienza, come da un boia, in quelle cupe tenebre; se costui si presentasse al Giudice, confidando nelle sue opere, fra le voci di lode e di gratitudine di coloro che hanno ricevuto il beneficio, splendido nella sua fiducia, forse calcolerà che quella buona sorte sia da misurare secondo la ricchezza materiale? Forse accetterà, in cambio di quei beni, tutte le montagne, le pianure, le valli boscose e il mare tramutati in oro per lui? Prendiamo invece il caso di colui che ha scrupolosamente occultato mammona grazie a sigilli chiavistelli, porte di ferro e nascondigli sicuri, giudicando preferibile ad ogni comandamento l’ammucchiarsi per lui della materia, sotterrata in luogo segreto; se sarà trascinato giù a capofitto nel fuoco tenebroso, tutti coloro che hanno sperimentato in questa vita la sua durezza di cuore e la sua ferocia, gliela presenteranno davanti e gli diranno: “Ricordati che hai già ricevuto i tuoi beni durante la vita [Lc 16,25]; nelle fortezze della tua ricchezza chiudesti insieme anche la misericordia e lasciasti sottoterra la magnanimità; non ti desti pensiero, in questa vita, dell’amore degli uomini: ora non hai ciò che non avesti, non trovi ciò che non hai messo in serbo, non raccogli ciò che non hai diffuso, non mieti ciò che non hai seminato; la raccolta sia per te degna della tua seminagione: hai seminato amarezza, raccogline le messi; stimasti la spietatezza, hai ciò che amasti; non guardasti con simpatia, neppure ora sarai guardato con misericordia; trascurasti l’afflitto, ora, mentre perisci, sarai trascurato; fuggisti la misericordia, la misericordia fuggirà da te; provasti nausea per il povero, colui che fu povero per causa tua, proverà ora nausea di te”. Se dunque fossero pronunciati questi o simili discorsi, dove andrebbero a finire l’oro, gli splendidi suppellettili, la sicurezza riposta nei tesori sigillati, i cani validi per la guardia notturna? Dove le armi predisposte contro chi insidia i tesori? Dove l’annotazione registrata sui libri? Perché tutto ciò è per il pianto e lo stridore dei denti? Chi farà risplendere le tenebre? Chi estinguerà la fiamma? Chi respingerà il verme che non ha fine? Dunque fratelli meditiamo le parole del Signore che ci insegna, in breve, cose tanto grandi relative al futuro e diventiamo misericordiosi, per divenire grazie a ciò beati in Cristo Gesù nostro Signore, a cui è la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
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Mons. Francesco Follo è Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi.

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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