Mons. Francesco Follo - Foto © Servizio Fotografico-L'Osservatore Romano

Mons. Follo: Stupirci di Cristo per seguirlo

XIV Domenica Tempo Ordinario – Anno B –  8 luglio 2018

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Rito Romano
Ez 2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6
 
Rito Ambrosiano
VIII Domenica dopo Pentecoste
Gs 10,6-15; Sal 19; Rm 8,31b-39; Gv 16,33-17,3
 
1) Stupore e scandalo.
Con gli occhi delle mente e del cuore immaginiamo di contemplare la scena del Vangelo di oggi per stupirci anche noi alla vista del volto santo di Cristo e all’ascolto delle parole della Parola (Cristo) di Dio fatta carne.
Lasciamoci sorprendere dalla presenza suggestiva del Figlio di Dio, senza scandalizzarci come hanno fatto alcuni dei suoi compatrioti, di cui parla il Vangelo di oggi.
Ma perché alla gioia dello stupore in alcuni (oggi come duemila anni fa) subentra l’irritazione per lo scandalo. Cosa ci si scandalizza di Cristo? Perché quello che Cristo manifesta di sé non corrisponde al concetto (sarebbe meglio dire al preconcetto) che ci si è fatti di lui.
E’ un paradosso che viene da lontano. Il paradosso di un Dio che nasce da una semplice, povera e giovane donna in una grotta. Il Redentore del mondo è uno che ha per discepoli ed amici dei pescatori, che guarisce i malati, risuscita i morti. Un Maestro che insegna cose profonde ma annuncia una liberazione non politica e muore come un ladrone qualsiasi inchiodato ad una croce. Era evidentemente troppo per gli ebrei del suo tempo. Era, ed è, un segno importante ma segno di contraddizione.
Quindi non c’è da meravigliarsi se il Vangelo di oggi narra che i compaesani di Gesù dallo stupore passano allo scandalo e dicono: “Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?” (Mc 6,3).
Di qui lo scandalo, parola che indica un ostacolo alla fede, qualcosa che impedisce di credere. Ciò che impedisce agli abitanti di Nazareth di credere è proprio la persona di Gesù, che loro pensano di conoscere perché l’hanno visto crescere tra di loro. Ne conoscono le umili origini, il suo modo non appariscente di stare tra di loro. L’hanno visto persino giocare con i loro figli. E’ comprensibile la difficoltà degli abitanti di Nazareth: di riconoscere nel loro compaesano il Messia è comprensibile. La presenza di Dio dovrebbe essere più luminosa, più incisiva. Come è possibile che un inviato di Dio si presenti nelle vesti di un falegname?
Il rifiuto può trovare la sua ragione persino nel desiderio di difendere la grandezza di Dio: così, appunto, fanno gli abitanti di Nazareth, che stupiscono Cristo con la loro grande incredulità, come l’evangelista Marco annota: “E si meravigliava della loro incredulità”. Per il Vangelo l’incredulità non è soltanto la negazione di Dio (non è questo il caso dei nazaretani), ma l’incapacità di riconoscere Dio nell’umiltà dell’uomo Gesù, il suo appello nella voce di un uomo che sembra essere troppo uomo. Dio è certamente grande, ma spetta a lui scegliere i modi di manifestare la sua grandezza.
 
2) Sorpresi da una presenza che si propone.
Il Vangelo di oggi ci mostra che gli ascoltatori di Gesù passano dallo stupore iniziale allo scandalo. Lo stupore è un atteggiamento di partenza, l’atteggiamento di chi resta colpito e quindi costretto ad interrogarsi, ma è un atteggiamento che può sfociare sia nella fede sia nell’incredulità. La sapienza delle parole di Gesù e la potenza delle sue mani suscitano importanti interrogativi: qual è l’origine di questa sapienza e di questa potenza? Chi è quest’uomo?
La risposta ovvia: quest’uomo è il Figlio di Dio. Ma questa risposta ovvia è impedita da una constatazione che va in senso contrario: “Non è costui il falegname?”.
Di qui lo scandalo, parola che viene dal greco e che indica un ostacolo alla fede, qualcosa che impedisce ragionevolmente di credere. Ciò che impedisce ai nazaretani di credere è proprio la persona di Gesù, la sua concreta fisionomia, le sue umili origini, il suo modo umile di apparire fra noi. Comprendiamo la difficoltà degli abitanti di Nazareth: la presenza di Dio non dovrebbe essere più luminosa, più importante? Come è possibile che un inviato di Dio si presenti nelle vesti di un falegname?
Gesù, il Figlio di Dio, è grande, ma non vuole imporre la sua grandezza. Lui vuole proporre il suo amore. Per non fare violenza alla nostra libertà Cristo si propone con delicatezza, perché che “ha fatto te senza te, non salverà te senza te” (Sant’Agostino d’Ippona).
Purtroppo, le sue umili origini, il suo modo umile di essere stato con loro per trent’anni è ciò che impedisce agli abitanti di Nazareth di credere. L’obiezione a credere è proprio la persona di Gesù, che loro pensano di conoscere bene.
Se dunque vogliamo essere dei veri credenti che, stupiti da Cristo e sorpresi dalla gioia che porta con e per amore, dobbiamo credere che Lui  nell’apparente banalità della sua persona porta a noi un amore che redime. E la croce, non solo quella del Calvario, ma quella della banale, normale vita quotidiana, è manifestazione d’amore e l’amore umile di cristo è la vera potenza che si rivela  proprio in questa apparente debolezza.
Per gli ebrei, come ricorda l’Apostolo Paolo, la Croce è skandalon, cioè pietra di inciampo: essa sembra ostacolare la fede del pio israelita. Per loro (ma spesso anche per molti di noi) la Croce contraddice l’essenza stessa di Dio, il quale si è manifestato con segni prodigiosi. Dunque accettare la croce di Cristo significa operare una profonda conversione nel modo di rapportarsi a Dio.
Per i Greci, cioè i pagani, insegna sempre San Paolo, la Croce è moría, stoltezza, letteralmente insipienza, cioè un cibo senza sale; quindi più che un errore, è un insulto al buon senso.
Per i primi il criterio di giudizio per opporsi alla Croce è una fedeltà alla Bibbia, non ben interpretata, per i secondi è la fedeltà alla ragione, usata non come finestra aperta sul mistero d’Amore, ma come misura angusta che non puà nì accogliere né misurare l’infinità dell’amore misericordioso di Cristo
Nella prospettiva portata da Cristo l’onnipotenza di Dio si manifesta passando per la debolezza dell’umile, che sconfigge la morte con la Croce che è non più chiave d’entrata alla tomba dove restarvi per sempre, ma chiave per aprire la drammatica porta di questa tomba ed entrare nella vita vera che è fatta di amore donato, condiviso.
Dio è amore e l’amore non può essere che umiltà. Cristo rivela questa umiltà di Dio incarnandosi e dimorando tra gli uomini come colui che serve. L’umiltà di Cristo rivela l’amore di un Dio che si dona totalmente per l’uomo, per la sua redenzione. Il Figlio di Dio sceglie per se il silenzio, l’ultimo posto: la croce. Si fa “niente” perché l’uomo sia tutto. E ciò accada ancora ogni volta che Cristo si fa presente nella Messa sotto le specie del pane e del vino per farsi cibo e bevanda per noi.
Cristo è umile perché è l’amore che si svuota di sé per donarsi, perché l’amore è dono. Il Figlio di Dio si rivela all’uomo e si fa presente donandosi al punto tale di “perdersi” in ciascuno di noi che Lui ama umilmente e infinitamente. Se possiamo conoscere e capire l’umiltà del Cristo nella sua nascita a Betlemme, nella sua passione e morte, lo possiamo capire, conoscere e farne esperienza soprattutto nell’Eucaristia. Nell’Eucaristia è l’umiltà di un Dio che, amandoci, si annienta e si dona tutto a noi per essere la nostra vita, ora e per l’eternità.
 
3) Le Vergini consacrate e l’umiltà.
Il Figlio di Dio – umiltà si incarna per essere lo sposo che si dà tutto alla sposa. Il disegno divino si realizza nell’alleanza. Dio si fa uomo per donarsi a tutta l’umanità, a ciascun uomo e donna.
Un esempio eminente di risposta a Cristo umile sposo è quello dello vergini consacrate che a Lui si donano totalmente e sponsalmente, facendo proprio l’insegnamento di Santa Chiara di Assisi che in una sua lettera a Sant’Agnese di Praga scriveva: “Felice certamente colei a cui è dato godere di questo sacro sposalizio, per aderire con il profondo del cuore [a Cristo], a colui la cui bellezza ammirano incessantemente tutte le beate schiere dei cieli, il cui affetto appassiona, la cui contemplazione ristora, la cui benignità sazia, la cui soavità ricolma, il cui ricordo risplende soavemente, al cui profumo i morti torneranno in vita e la cui visione gloriosa renderà beati tutti i cittadini della celeste Gerusalemme. E poiché egli è splendore della gloria, candore della luce eterna e specchio senza macchia, guarda ogni giorno questo specchio, o regina sposa di Gesù Cristo, e in esso scruta continuamente il tuo volto, perché tu possa così adornarti tutta all’interno e all’esterno… In questo specchio rifulgono la beata povertà, la santa umiltà e l’ineffabile carità” (Lettera quarta: FF, 2901-2903).
La vergini consacrate sono chiamate a vivere l’umiltà di e con Cristo, accettando l’abbassamento, per lasciarsi portare dall’Amore. Attraverso la vita umile sono testimoni credibili di Cristo fino al dono totale di se, diventando “ostie” che imitano l’unica ostia pura, senza macchia e a Dio gradita, che è Cristo.
 
Lettura patristica
Origene
Comment. in Matth., 10, 17-19
Circa l’esclamazione: “Donde gli viene tanta sapienza?” (Mt 13,54), essa mostra chiaramente la sapienza superiore e sconvolgente delle parole di Gesù, che si è meritata l’elogio: “Ed ecco che qui vi è più di Salomone” (Mt 12,42). E i miracoli da lui compiuti erano più grandi di quelli di Elia e di Eliseo, persino più grandi di quelli, più antichi, di Mosè e di Giosuè figlio di Nun. Mormoravano stupiti, perché non sapevano che egli era nato da una vergine, oppure non lo avrebbero creduto neppure se glielo avessero detto, mentre supponevano che egli fosse il figlio di Giuseppe, l’artigiano: “Non è egli figlio del falegname?” (Mt 13,55). E pieni di disprezzo verso tutto ciò che poteva sembrare la sua parentela più prossima, dicevano: “Sua madre non si chiama Maria, e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte tra di noi?” (Mt 13,55 Mt 13,56). Lo ritenevano dunque figlio di Giuseppe e di Maria. Quanto ai fratelli di Gesù, taluni pretendono, appoggiandosi al cosiddetto vangelo «secondo Pietro» o al «libro di Giacomo» [apocrifi], che essi siano i figli di Giuseppe, nati da una prima moglie che egli avrebbe avuto prima di Maria. I sostenitori di questa teoria vogliono salvaguardare la credenza nella verginità perpetua di Maria, non accettando che quel corpo, giudicato degno di essere al servizio della parola che dice: “Lo Spirito di santità scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo poserà su di te la sua ombra” (Lc 1,35), conoscesse il letto di un uomo, dopo aver ricevuto lo Spirito di santità e la potenza discesa dall’alto, che la ricoprì con la sua ombra. Da parte mia, penso che sia ragionevole vedere in Gesù le primizie della castità virile nel celibato, e in Maria quelle della castità femminile, sarebbe in effetti sacrilego attribuire ad un’altra tali primizie della verginità…
Le parole: “E le sue sorelle non sono tutte tra di noi?“, mi sembrano avere il seguente significato: la loro sapienza e la nostra, non certo quella di Gesù, e nulla vi è in loro che sia a noi estraneo, la cui comprensione ci rimanga difficile, come in Gesù. È possibile che, attraverso queste parole, affiori un dubbio circa la natura di Gesù, che non sarebbe un uomo, bensì un essere superiore, poiché, pur essendo, come essi credono, figlio di Giuseppe e di Maria, e pur avendo quattro fratelli, come pure alcune sorelle, non somiglia ad alcuno dei suoi prossimi e, senza aver ricevuto una istruzione e senza maestri, ha raggiunto un tale grado di sapienza e di potenza. Difatti, dicevano altrove: “Come fa costui a conoscere le Scritture, senza avere studiato?” (Jn 7,15). È un testo simile a quello qui riportato. Tuttavia coloro che parlavano in questo modo, pieni di un tal dubbio e di stupore, ben lontani dal credere, si scandalizzavano a suo riguardo (Mt 13,57), come se gli occhi della loro mente fossero asserviti (Lc 24,16) da potenze di cui egli avrebbe trionfato (Col 2,15) sul legno, nell’ora della sua Passione…
È venuto il momento di illustrare il passo: “Colà, egli non fece molti miracoli, a causa della loro incredulità” (Mt 13,58). Queste parole ci insegnano che i miracoli si compivano in mezzo ai credenti, poiché “a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza” (Mt 25,29), mentre invece tra gli increduli i miracoli non solo non producevano effetto, ma addirittura, come ha scritto Marco, non potevano produrlo. Fa’ attenzione, infatti, a queste parole: “Non poté compiere alcun miracolo“; difatti, non ha detto: “Non volle“…. bensì: “Non poté“… (Mc 6,5), perché si sovrappone al miracolo che sta per compiersi una collaborazione efficace proveniente dalla fede di colui su cui agisce il miracolo, e che l’incredulità impedisca tale azione. Di modo che, è il caso di sottolinearlo, a coloro che hanno detto: “Per quale motivo non abbiamo potuto scacciarlo?“, egli ha risposto: “A causa della vostra poca fede” (Mt 17,19-20), e a Pietro che cominciava ad affondare, fu detto: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?” (Mt 14,31). L’emorroissa, al contrario, senza aver neppure richiesta la guarigione, diceva tra sé semplicemente che “se avesse potuto toccare solo il lembo del suo mantello” (Mc 5,28), sarebbe guarita, e lo fu all’istante (Mt 9,22 Lc 8,47); e il Signore riconobbe quel modo di guarire, quando disse: “Chi mi ha toccato? Perché ho avvertito una potenza uscire da me” (Lc 8,46 Mt 5,30). E come taluni, quando si tratta dei corpi, esercitano una specie di attrazione naturale sugli altri – sul tipo di ciò che avviene tra la calamita e il ferro o tra la nafta e il fuoco -, così una fede del genere attira forse il miracolo divino; ecco perché egli ha anche detto: “Se aveste fede quanto un granello di senapa, direte a questo monte: «spostati da qui a là», ed esso si sposterà” (Mt 17,20).
Mi sembra che, però, Matteo e Marco abbiano voluto stabilire la netta superiorità della potenza divina, capace di agire anche in mezzo all’incredulità, senza tuttavia dimostrare la stessa potenza che di fronte alla fede di coloro che beneficiano del miracolo; quando il primo non ha detto che “egli non fece miracoli a causa della loro incredulità,” bensì che “colà, egli non fece molti miracoli” (Mt 13,58); quando invece Marco dice: “In quel luogo non poté compiere alcun miracolo“, non si limita a questo bensì aggiunge: “tranne che impose le mani su alcuni malati e li guarì“(Mc 6,5), poiché la potenza che è in lui trionfa, in tali condizioni, della stessa incredulità.
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Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi.

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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