Rito Romano
Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43
Rito Ambrosiano
VI Domenica dopo Pentecoste
Es 3,1-15; Sal 67; 1Cor 2,1-7; Mt 11,27-30
1) Chi tocca la Vita guarisce, chi è toccato dalla Vita risorge.
Il Vangelo di questa XIII Domenica del Tempo Ordinario ci presenta Gesù Cristo che guarisce una donna, la cui malattia peggiorava non ostante le cure lunghe e costose cure, e risuscita una ragazzina, risvegliandola dal sonno della morte.
E’ dunque il Messia un guaritore e un taumaturgo che offre all’umanità, sempre alla ricerca di cure efficaci, la risposta alle sue sofferenze, sconfiggendo la malattia e la morte?
Gesù è stato mandato dal Padre non per arrivare là dove la scienza e la medicina hanno fallito, o per realizzare l’utopia di un mondo senza dolore e senza morte.
I miracoli che Cristo compie sono, insieme con la predicazione, la buona notizia che annuncia che è giunta nel mondo la liberazione di Dio, che ridà all’uomo la sua dignità di figlio di Dio, che ricongiunge l’uomo al suo Dio, che gli ridà la vita.
Per accogliere davvero questo Vangelo (=buona notizia) occorre la fede. In effetti il racconto di due miracoli non attira l’attenzione su questi due fatti prodigiosi, ma sulla fede di chi li domanda. La fede è indispensabile al miracolo. Gesù non compie miracoli per forzare, ad ogni costo, il cuore dell’uomo. I miracoli sono segni a favore della fede, ma non sminuiscono il coraggio di credere. I miracoli sono un dono, una risposta alla sincerità dell’uomo che cerca il Signore: non servono là dove c’è chiusura e ostinazione. Per questo il Messia non compie miracoli dove gli uomini pretendono di essere loro a stabilire le modalità dell’agire di Dio.
Quindi, anche in questi due i casi il miracolo è un dono della libera iniziativa di Dio, che risponde alla con amore a chi con fede umile domanda.
Esaminiamo più da vicino i due fatti:
Il miracolo della guarigione della donna che soffriva perdite di sangue si sarebbe prestato molto bene a sottolineare la potenza di Gesù. A questa donna è bastato toccare la veste di Gesù per guarire. Ma San Marco nel suo racconto non sottolinea questo aspetto, ma dà rilievo al gesto nascosto, ma pieno di fede, della malata.
Perché la donna desidera non farsi notare e Gesù, invece, sembra far di tutto per dar risalto al suo gesto?
La legge dichiarava impura la donna che aveva perdite di sangue, e impuro toccarla. Ecco perché la donna tocca la veste di Gesù di nascosto, approfittando della calca, ed ecco perché si sente tanto colpevole, paurosa e tremante, quando si vede scoperta. Ed è per lo stesso motivo che Gesù dà pubblicità all’accaduto: per dichiarare pubblicamente, di fronte a tutti, che non si sente impuro per essere stato toccato dalla donna. Lui va al di là della purità e impurità legale e guarda alla fede della donna alla quale dice: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male” ( Mc 5, 34). Diventa figlia, rigenerata nel potere di Gesù, attraverso la porta della fede che l’ha “salvata” prima di “guarirla”. Ora può andare in pace, sanata alla radice dal male, perché prima è stata “salvata”. L’audacia della sua fede ha aperto il cuore di Dio: toccare Gesù significa la fede pura e adulta nella quale abbandonarsi a Lui anche dal fondo del peccato più grave. La fede, infatti, è toccare Gesù, trascinarlo dentro la nostra vita mezza morta e impura. E’ fare in modo che si accorga che ci ha salvati, “obbligare” il potere che il Signore Gesù sembra sia incapace di controllare.
E’ ancora la fede al centro della guarigione della figlia di Giairo: “Non temere, soltanto abbi fede” (Id. 5, 36).
Fede nella potenza di Gesù, una potenza capace di raggiungere la persona nella sua particolare situazione, e in questo caso vittoriosa persino sulla morte.
La fede è un atto umanissimo, vitale, che tende alla vita e si oppone alla morte. La fede è un atto dell’intelligenza e un abbandono della volontà, che ci fa aderire a Dio come un bambino aderisce al petto della madre, poi come i bambini dal cuore semplice restiamo confidenti nella braccia di Dio.
2) Fede perseverante nella risurrezione.
Commentando questi due miracoli, papa Francesco ha detto: “Il messaggio è chiaro, e si può riassumere in una domanda: crediamo che Gesù ci può guarire e ci può risvegliare dalla morte? Tutto il Vangelo è scritto nella luce di questa fede: Gesù è risorto, ha vinto la morte, e per questa sua vittoria anche noi risorgeremo” (Parole all’Angelus del 29 giugno 2015).
In effetti, la liturgia della Parola di questa domenica ci invita a vivere nella certezza della risurrezione: “Gesù è il Signore, Gesù ha potere sul male e sulla morte, e vuole portarci nella casa del Padre, dove regna la vita. E lì ci incontreremo tutti, tutti noi che siamo qui in piazza oggi, ci incontreremo nella casa del Padre, nella vita che Gesù ci darà” (Id). Dunque, la Risurrezione di Cristo agisce nella storia come principio di rinnovamento e di speranza. Chiunque è disperato e stanco fino alla morte, se si affida a Gesù e al suo amore può ricominciare a vivere. E che vuol dire vivere se non condividere l’amore vitale che il Signore dona. In effetti, nel Vangelo di oggi vediamo Gesù che condivide il dolore di Giairo, uno dei capi della sinagoga, il quale ha la figlia dodicenne gravemente ammalata, e la sofferenza della donna malata. A questa ridà la capacità di dare la vita, all’altra dà la vita perché possa incontrare la Vita: Lui.
All’uomo che ha sete di vita e di vita che abbia un senso (inteso come significato, direzione e gusto della vita) Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce a ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce” (Lumen Fidei, 57).
Come è entrato nella casa di Giaro e si è fatto presenza alla di lui piccola figlia, prendendola per mano, Cristo ci prende per mano e intreccia la sua vita con la nostra, che così riceve la Vita per sempre.
Come a quella bambina, Cristo ci rialza, ci fa risorgere. Da Lui riceviamo amore a Lui restituiamo amore.
Quando questo amore è donato completamente a Dio si chiama verginità.
Le Vergini consacrate nel mondo testimoniano che la verginità è la maniera più alta di amare Dio e di vivere Dio. La loro vita di vergini è testimonianza dell’amore di Dio e manifestazione della sapienza del cuore ricevuta da Cristo. Con la vita totalmente donata a Dio queste donne “predicano il vangelo della Verginità”, secondo il quale “la fede non è una cosa decorativa, ornamentale; vivere la fede non è decorare la vita con un po’ di religione” (Papa Francesco), ma è criterio di base per vivere veramente.
Con umiltà e con fede amorosa le Vergini consacrate nel mondo si sono donate a Cristo, di cui ascoltano la Parola con costanza mediante la lettura assidua della Bibbia e si protendono nel mondo quale vangelo di Verginità “al fine di amare più ardentemente il Cristo e servire con più libera dedizione i fratelli” (Premesse del Rito di Consacrazione della Vergini). Per questo l’esortazione apostolica Vita consecrata attribuisce loro una sorta di “magistero spirituale” che le colloca come «guide esperte di vita spirituale» (Vita consecrata, n. 55). Esse ci insegnano a vivere la fede con il cuore, ad ascoltare la sua Parola, perché si faccia carne in loro come accadde a Maria, ed essere così vere evangelizzatrici che porta al mondo la Parola di Dio che è luce ai passi nostri.
Lettura Patristica
Sant’Efrem, il Siro (306 – 373)
Diatessaron, VII, 6, 19-23
La sua fede arrestò in un istante, come in un batter d’occhio, il flusso di sangue che era sgorgato per dodici anni. Numerosi medici l’avevano visitata moltissime volte, ma l’umile medico, il figlio unico la guardò soltanto un momento. Spesso, quella donna aveva profuso forti somme per i medici; ma all’improvviso, accanto al nostro medico, i suoi pensieri sparsi si raccolsero in un’unica fede. Quando i medici terreni la curavano, ella pagava loro un prezzo terreno (Mc 5,26); ma quando il medico celeste le apparve, ella le presentò una fede celeste. I doni terrestri furono lasciati agli abitanti della terra, i doni spirituali furono elevati al Dio spirituale nei cieli.
I medici stimolavano coi loro rimedi i dolori causati dal male, come una belva abbandonata alla sua ferocia. Così, per reazione, come una belva inferocita, i dolori li diffondevano dappertutto, essi e i loro rimedi. Quando tutti si affrettavano di sottrarsi alla cura di quel dolore, una potenza uscì, rapida, dalla frangia del mantello di Nostro Signore; colpì violentemente il male, lo bloccò e s’attirò l’elogio per il male domato. Uno solo si prese gioco di quelli che s’erano presi gioco per molto. Un solo medico divenne celebre per un male che parecchi medici avevano reso celebre. Proprio quando la mano di quella donna aveva distribuito grandi cifre, la sua piaga non ricevette alcuna guarigione; ma quando la sua mano si tese vuota, la cavità si riempi di salute. Finché la sua mano era ripiena di ricompense tangibili, essa era vuota di fede nascosta, ma quando si spogliò delle ricompense tangibili, fu ripiena di fede invisibile. Diede ricompense manifeste e non ricevette guarigione manifesta; diede una fede manifesta e ricevette una guarigione nascosta. Sebbene avesse dato ai medici il loro onorario con fiducia, non trovò per il suo onorario una ricompensa proporzionata alla sua fiducia; ma quando diede un prezzo preso con furto, allora ne ricevette il premio, quello della guarigione nascosta…
E coloro che non erano stati capaci di guarire quest’unica donna coi loro rimedi, guarivano frattanto molti pensieri con le loro risposte. Nostro Signore, invece, capace di guarire ogni malato, non voleva mostrarsi capace di rispondere anche ad un solo interrogativo; conosceva quella risposta, ma descriveva in anticipo coloro che avrebbero detto: “Tu, con la tua venuta, dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera” (Jn 8,13). La sua potenza aveva guarito la donna, ma il suo parlare non aveva persuaso quella gente. Eppure, per quanto la sua lingua restasse muta, la sua opera risuonava come una tromba. Col suo silenzio soffocava l’orgoglio arrogante; con la sua domanda: “Chi mi ha toccato?” (Lc 8,45) e con la sua opera, la sua verità era proclamata.
Se non ci fosse che un senso da dare alle parole della Scrittura, il primo interprete lo troverebbe, e gli altri uditori non avrebbero più il lavoro pesante della ricerca, né il piacere della scoperta. Ma ogni parola di Nostro Signore ha la sua forma, e ogni forma ha molti membri, e ogni membro ha la sua fisionomia propria. Ciascuno comprende secondo la sua capacità, e interpreta come gli è dato.
È così che una donna si presentò a lui e che la guarì. Si era presentata davanti a parecchi uomini che non l’avevano guarita; avevano perduto il loro tempo con lei. Ma un uomo la guarì, quando il suo volto era girato da un’altra parte; egli biasimava così coloro che, con grande cura, si volgevano verso di lei, ma non la guarivano: “La debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Co 1,25). Sebbene il volto umano di Nostro Signore non poté guardare che da una sola parte, la sua divinità interiore aveva occhio dappertutto poiché vedeva da ogni lato.
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Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi.
Mons. Francesco Follo - Foto © Servizio Fotografico-L'Osservatore Romano
Mons. Follo: Gesù è la Vita che dà la vita sulla terra e per l’eternità
XIII Domenica Tempo Ordinario – Anno B – 1 luglio 2018