XVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 30 luglio 2017
1Re 3,5.7-12; Sal 118; Rm 8,28-30; Mt 13,44-52
Rito Ambrosiano
Domenica VIII dopo Pentecoste
1Sam 3,1-20; Sal 62; Ef 3,1-12; Mt 4,18-22
1) Il Tesoro della vita
Il Vangelo di questa domenica ci propone la parte finale del capitolo 13 del Vangelo di San Matteo, in cui sono narrate le parabole che paragonano il Regno di Dio a un tesoro, a una pietra preziosa e a una rete gettata nel mare che raccoglie ogni tipo di pesce.
Mentre, la parabola della rete ci ripete che il momento del giudizio è alla fine dei tempi e c’è un tempo dedicato alla penitenza, le parabole del tesoro e della perla ci ricordano non solo la necessità di fare uso anche delle ricchezze terrene pur di poter entrare nel regno dei cieli e gioire di questa appartenenza. Questi due brevi racconti ci insegnano soprattutto che Gesù, il Salvatore dell’uomo, viene per offrire ad ogni uomo che geme e soffre per il suo domani, il vero tesoro, la vera perla che assicura la felicità: il regno di Dio. Il Regno di Dio vale più delle cose, più della vita. Ha un valore primario per cui si deve essere pronti a sacrificare ogni altra realtà. Il Signore, la sua amicizia, il suo amore, la salvezza eterna sono il tesoro che nessuno può rubarci. Dicendo che c’è chi dà la vita per un tesoro e, oggi, Cristo si offre a noi come tesoro della vita: sappiamolo scegliere.
In effetti, con le due brevi parabole del tesoro nascosto nel campo e della perla di inestimabile valore il Messia insegna due cose.
La prima è che il Regno richiede una scelta decisa e rapida: come quella dell’uomo che subito vende tutti i suoi averi per comprare il campo con il tesoro, o come un mercante che, senza perdere tempo vende tutto quello che ha per acquistare una perla di valore eccezionale.
La seconda è che la scelta, che implica un distacco totale, scaturisce dall’aver trovato qualcosa di valore inestimabile. E’ questo l’insegnamento vero della parabola. Il motivo che spinge il discepolo a lasciare è la gioia di aver trovato il tesoro della vita Il motivo della gioia è esplicito nella parabola dell’uomo che compra il campo: “Poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi”. Il Regno di Dio è esigente, ma trovarlo è il centuplo e la vita eterna.
Mi spiego meglio. Le due parabole descrivono due figure diverse: la prima ci racconta di un contadino che lavora in un campo che non è suo, la seconda ci parla di un mercante che è davvero molto ricco. Ma, secondo me, questi due personaggi sono i protagonisti soltanto in superficie. I veri protagonisti sono il tesoro e la perla, che seducono di due uomini, affascinandoli. Il contadino e il mercante agiscono, perché totalmente “afferrati” dal tesoro e dalla perla, in cui si sono imbattuti. Se riconosciamo che la perla preziosissima, il tesoro inestimabile è Cristo ed il suo Regno, capiamo anche che il Redentore non dice una cosa ovvia: è ovviamente un vero affare fare comperare qualcosa che ha una valore superiore a quelle che paghiamo. E’ straordinario che con l’offerta di quello abbiamo non solo abbiamo di più, ma siamo di più: figli di Dio, perché abbiamo “guadagnato” il tesoro della vita: Cristo. In questo caso non è solo un colpo di fortuna, è una grazia stupenda alla quale corrispondere con pronta decisione ed abbandono totale.
2) Il vero guadagno
Un esempio di questa decisione e di questo abbandono di ciò che si ha ci viene da esempio San Paolo. Questi scrive: “Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo”(Fil 3,8). Quest espressione: “Guadagnare Cristo” presenta qualche stranezza. In genere si dice di guadagnare qualcosa, o anche guadagnare un traguardo, ma non una persona. Se prestiamo attenzione al verbo greco katalambàno possiamo forse riconoscere in esso una nota di aggressività, quasi di prepotenza. Tant’è che alcuni traducono: “Continuo la mia corsa per tentare di afferrare il premio, perché anch’io sono stato afferrato da Cristo Gesù” (Fil 3, 12).
Sinceramente parlando, mi piace questa interpretazione del verbo scelto da Paolo, perché indica che per essere cristiani ci vuol della forza di carattere: la violenza che egli ha sfogato contro i cristiani e contro Cristo prima della sua conversione ora Paolo la mette a servizio della verità. Non è forse vero che anche Gesù ebbe a dire: “Dai giorni di Giovanni il Battista il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11, 12)?
Nel brano di lettera ai Filippesi che ho citato poco sopra, l’Apostolo delle Genti riconosce di essere caduto in un tremendo errore; si rende conto di aver sposato una causa sbagliata. Ora lui, illuminato da quella stessa luce che in un primo momento lo aveva accecato, confessa che quello era un falso guadagno, anzi un guadagno dannoso, alludendo ovviamente ad ogni privilegio di nascita e di educazione, ad ogni sforzo religioso e morale.
In questa rilettura della conversione di Paolo vediamo il frutto della grazia che guarisce, sprigionandosi dall’evento della passione e morte di Gesù, ma vi possiamo riconoscere anche l’azione della grazia illuminante che può venire solo dall’evento della risurrezione di Cristo, dalla persona di Cristo risorto. L’essere stato violentemente scaraventato da cavallo a terra è solo un pallido segno della vittoria pasquale che Gesù ha riportato su San Paolo. Il suo incontro con Cristo sulla via di Damasco lo ha portato a formulare una nuova scala di valori, sovvertendo quella che precedentemente aveva caratterizzato la sua vita: ciò che sembrava guadagno ora è diventato perdita, quello che sembrava ricchezza ora è diventato spazzatura, quello che sembrava giusto ora è diventato ingiusto.
All’esperienza di San Paolo possiamo certamente accostare anche la nostra. In un momento della nostra vita, tutti siamo sollecitati dalla parola di Dio, tutti abbiamo incontrato Cristo che ci ha chiamati ad entrare in questo dinamismo della fede che salva e che è –prima di tutto- dono che scaturisce dal cuore di Dio e dal costato di Cristo. In un bel momento della nostra vita Cristo si è fatto incontro a ciascuno di noi.
La conseguenza che ne deriva è che un cristiano, per poter dire di essere tale fino in fondo, per poter dire di essersi formato alla scuola di Gesù, deve riprodurre in se stesso le fattezze di Cristo crocifisso, addirittura deve assomigliare a Gesù morto.
E per fare questo non dobbiamo essere persone eccezionali. Dobbiamo avere una sola pretesa: quella dell’umiltà crocifissa, come quella di San Paolo, che – presentandosi ai cristiani di Corinto avanzò un’unica pretesa: “Avevo infatti deciso di non insegnarvi altro che Cristo e Cristo crocifisso”. E per non predicare a vuoto aggiunge: “Mi presentai a voi debole, pieno di timore e di preoccupazione” (1 Cor 2, 2-3).
L’importante è proporre agli altri quello che abbiamo sperimentato su noi stessi, senza sottrarci al “comando dell’amore” che ci vincola fino al dono totale di noi stessi.
Una sintesi stupenda di tutto questo itinerario di ascesi al Regno, di questo esodo verso la Casa del Padre ci è data sempre da San Paolo, quando scrive: “Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere in Cristo Gesù” (Fil 3, 13-14).
3) Il “guadagno” delle vergini consacrate.
Tuttavia, qualcuno potrebbe obiettare: se l’Apostolo delle Genti era completamente affascinato dal suo Signore. perché avrebbe dovuto sentire la necessità di “guadagnare” Cristo?
Cristo gli si era già rivelato chiaramente e gli aveva sconvolto la vita, riempiendola di gioia. Eppure, nonostante ciò, Paolo si sentiva “costretto” a guadagnare il cuore e l’amore di Cristo. L’intero essere di Paolo – il suo ministero, la sua vita e lo scopo intrinseco di essa – tutto era incentrato solo sul desiderio di piacere al suo Maestro e Signore. Tutto il resto era spazzatura per lui, persino le cose “buone”. Perché “occorre” guadagnare il cuore di Gesù? Non siamo già l’oggetto dell’amore di Dio?
In effetti, il Suo amore benevolo si estende a tutta l’umanità. Ma c’è un altro tipo d’amore che deve sempre crescere e “guadagnare” l’amato. E’ l’amore affettuoso per Cristo, simile a quello che c’è tra marito e moglie. Questo amore è espresso in modo sublime nel Cantico dei cantici. In questo libro, lo Sposo è ritratto come un tipo di Cristo, ed in un passo il Signore parla della Sua sposa così: “Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, mia sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana! Quanto è soave il tuo amore, sorella mia, mia sposa, quanto più inebriante del vino è il tuo amore” (Ct 4, 9-10).
La Sposa di Cristo è la Chiesa, che brama piacere al suo Signore. Nella Chiesa questa sponsalità à vissuta e testimoniata in modo speciale dalle vergini consacrate, che sono chiamate a vivere l’amore a Cristo in obbedienza amorosa e confidente, separandosi da tutte le cose terrene, perché il loro cuore è rapito da Cristo. Dicendo sì a Cristo si sono lasciate “rubare il cuore” da Lui e sono chiamate a concentrarsi solamente su di Lui e, in Lui, amano il prossimo, servendolo con gioia.
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Lettura Patristica
San Giovanni Crisostomo (344/354 – 407)
In Matth. 47, 2
Stimare il Vangelo al di sopra di tutto
“Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo: l’uomo che l’ha trovato, lo nasconde di nuovo e, fuor di sé dalla gioia, va, vende tutto quanto possiede, e compra quel campo. Inoltre il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; e trovata una perla di gran valore, va, vende tutto ciò che possiede e la compra ” (Mt 13,44 -46). Come le due parabole del granello di senape e del lievito non differiscono molto tra di loro, così anche le parabole del tesoro e della perla si assomigliano: sia l’una che l’altra fanno intendere che dobbiamo preferire e stimare il Vangelo al di sopra di tutto. Le parabole del lievito e del chicco di senape si riferiscono alla forza del Vangelo e mostrano che esso vincerà totalmente il mondo. Le due ultime parabole, invece, pongono in risalto il suo valore e il suo prezzo.
Il Vangelo cresce infatti e si dilata come l’albero di senape ed ha il sopravvento sul mondo come il lievito sulla farina; d’altra parte, il Vangelo è prezioso come una perla, e procura vantaggi e gloria senza fine come un tesoro.
Con queste due ultime parabole noi apprendiamo non solo che è necessario spogliarci di tutti gli altri beni per abbracciare il Vangelo, ma che dobbiamo fare questo atto con gioia. Chi rinunzia a quanto possiede, deve essere persuaso che questo è un affare, non una perdita. Vedi come il Vangelo è nascosto nel mondo, al pari di un tesoro, e come esso racchiude in sé tutti i beni? Se non vendi tutto, non puoi acquistarlo e, se non hai un’anima che lo cerca con la stessa sollecitudine e con lo stesso ardore con cui si cerca un tesoro, non puoi trovarlo. Due condizioni sono assolutamente necessarie: tenersi lontani da tutto ciò che è terreno ed essere vigilanti. “Il regno dei cieli” – dice Gesù -“è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; e trovata una perla di gran valore, va, vende tutto ciò che possiede e la compra” (Mt 13,45-46). Una sola, infatti, è la verità e non è possibile dividerla in molte parti. E come chi possiede la perla sa di essere ricco, ma spesso la sua ricchezza sfugge agli occhi degli altri, perché egli la tiene nella mano, – non si tratta qui di peso e di grandezza materiale, – la stessa cosa accade del Vangelo: coloro che lo posseggono sanno di essere ricchi, mentre chi non crede, non conoscendo questo tesoro, ignora anche la nostra ricchezza.
A questo punto, tuttavia, per evitare che gli uomini confidino soltanto nella predicazione evangelica e credano che la sola fede basti a salvarli, il Signore aggiunge un’altra parabola piena di terrore. Quale? La parabola della rete. “Parimenti il regno dei cieli è simile a una rete che, gettata nel mare, raccoglie ogni sorta di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e, sedutisi, ripongono in ceste i buoni, buttando via i cattivi” (Mt 13,47-48). In che cosa differisce questa parabola da quella della zizzania? In realtà anche là alcuni uomini si salvano, mentre altri si dannano. Nella parabola della zizzania, tuttavia, gli uomini si perdono perché seguono dottrine eretiche e, ancor prima di questo, perché non ascoltano la parola di Dio; mentre coloro che sono raffigurati nei pesci cattivi si dannano per la malvagità della loro vita. Costoro sono senza dubbio i più miserabili di tutti, perché, dopo aver conosciuto la verità ed essere stati presi da questa rete spirituale, non hanno saputo neppure in tal modo salvarsi.
Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi.