Nelle parole di Gesù di questa Domenica, si legge in filigrana la vocazione dei Leviti, profezia di quella di ogni cristiano: «Il Signore disse a Mosè: Ecco, io ho scelto i leviti tra gli Israeliti al posto di ogni primogenito che nasce per primo dal seno materno tra gli Israeliti; i leviti saranno miei» (Nm 3,11). Come loro, infatti, anche noi siamo chiamati a portare il peso della nostra responsabilità. E non è facile, è un combattimento a volte aspro e cruento. Altro che sentimentalismi e buonismi…
Se Dio ci ha scelti, e ci ha accolti nella Chiesa dove ha lavato le nostre colpe e ci sta rigenerando in una vita nuova, non è certo per fare di noi un’élite religiosa. Per comprendere per quale servizio il Signore ci sta formando vediamo quale era la missione dei Leviti. Scelti da Dio, lo avevano messo al di sopra dei loro stessi fratelli, della famiglia, di tutto; essi dissero dei propri genitori: “Non li abbiamo mai visti; non portarono riguardo ai fratelli e non conobbero i figli perché osservarono i Tuoi detti e preservarono il Tuo patto, essi insegneranno i Tuoi statuti a Giacobbe e la Tua legge ad Israele; portarono il profumo dinanzi a Te e l’olocausto sul Tuo altare” (Dt 33, 9-10).
Proprio per compiere la loro missione, i Leviti non avevano parte con il popolo, perché il Signore era loro parte; ma questo non era una sfortuna, come spesso pensiamo noi, destinati ad una vita più grama degli altri per il fatto di essere cristiani… I Leviti sapevano che la loro eredità era magnifica, e la loro sorte era caduta su luoghi deliziosi, quelli dell’intimità con Dio. Erano, infatti, addetti alla Tenda della Riunione, il luogo ove era conservata l’Arca dell’Alleanza, nucleo di quello che nel Tempio diverrà il Santo dei Santi.
I Leviti custodivano così la Presenza di Dio, scelti come primizie del popolo per assicurare assistenza al Signore. La loro vita era tutta per l’Arca, ovvero per Dio stesso; in essa, nel giorno di Yom Kippur, il Sommo Sacerdote gridando il Nome dell’Altissimo, impetrava e otteneva il perdono per tutto il popolo. Nulla potevano amare più dell’Arca che custodiva la Presenza di Dio, difesa e vittoria del Popolo. Erano per Dio e per questo erano per ogni loro fratello. Proprio la “separazione” da ogni legame di carne li donava a tutti: se cadevano loro cadeva il popolo.
Così anche noi siamo stati chiamati ad essere per il mondo i custodi della Presenza di Dio. E questo è infinitamente più importante di ogni legame: la nostra primogenitura è l’assicurazione per il Cielo che Dio offre ad ogni uomo. Per salvare chi ci è accanto e ci è stato affidato, è necessario che la Croce che ci fa Leviti della sua presenza e tabernacolo della misericordia ci unisca a Lui in un amore indissolubile. Perché siano salvati e accompagnati, ogni giorno, in Cielo, nella comunione con Dio, è necessario che le persone a cui siamo legate con un affetto più intimo, siano amate nella libertà possibile solo a chi ama dalla Croce portata ogni giorno. Ciò significa che proprio la nostra debolezza affettiva, quella che ci fa dipendere dalla stima, dalla considerazione, dall’attenzione e dall’affetto degli altri, sia consegnata a Cristo perché purifichi il nostro cuore colmandolo del suo amore eterno, incondizionato, illimitato. E ciò avviene solo sulla Croce, dove la debolezza che definisce i nostri limiti e le nostre incapacità non conducono alla frustrazione e alla distruzione violenta e rancorosa delle relazioni, ma alla sua trasfigurazione.
Sulla Croce infatti, la nostra debolezza è consegnata a Cristo che ha il potere di farne il tabernacolo della sua onnipotenza. Su di essa, infatti, Egli ha rivelato che, unendo alla sua la nostra carne gravida di corruzione e incapace di obbedire alla volontà di Dio e di amare l’altro d’amore incorruttibile, proprio lasciando inchiodare la sua carne all’impotenza e alla morte, ha per così dire trascinato nella morte per annientarlo in essa il peccato che ci tiene schiavi della paura incatenandoci a un’affettività malata e infeconda. Per questo il Signore ci dice di portare con Lui ogni giorno la nostra Croce, offrendoci così la possibilità di sperimentare che i chiodi che ci infilzano nella debolezza sono gli stessi che hanno trafitto la sua carne per rendere proprio quella debolezza lo scrigno capace di accogliere il suo amore incorruttibile e infinito, capace di varcare i limiti della morbosità e dell’affettività malata.
Caricare la Croce è accogliere la libertà autentica che su di essa il Signore ha fatto risplendere e che ci vuol donare in ogni circostanza della nostra vita. Siccome tutti noi siamo gestati alla vita in una famiglia, Gesù ci chiama oggi a un’autentica rigenerazione interiore che non può non passare per una purificazione delle relazioni più intime che ci hanno segnato e continuano a segnarci, inquinando tutte le altre. Non a caso il Signore evita di citare marito o moglie; prima di essere sposi e spose infatti, siamo figli dei nostri genitori, dai quali ci ricorda la Scrittura, abbiamo ” ereditato la nostra vuota condotta”, perché per tutti vale quanto recita il salmo 50 che Davide ha composto dopo aver peccato preda di una passione morbosa, immagine di ogni nostra relazione malata e fondata sulla carne: “nel peccato mi ha concepito mia madre”.
Abbiamo per questo bisogno di un’altra Madre che ci rigeneri cancellando il peccato di origine e che ci accompagni e aiuti a consegnare a Cristo sulla Croce la nostra debolezza, ovvero le ferite di quel peccato che ancora portiamo nella nostra carne. A lasciare cioè che il Signore ci unisca a Lui nel suo Corpo che è la Chiesa perché, per mezzo della Parola che illumina e dei sacramenti che realizzano in noi la sua vittoria sul peccato e la morte, proprio quelle ferite diventino le porte attraverso le quali passi a chi ci è accanto il suo amore libero e incorrotto.
Nella Chiesa sperimentiamo come Cristo che la morte e la corruzione degli affetti e degli idoli mondani non hanno più potere su di noi perché, sepolti con Lui nel battesimo che continua a compiersi nei sacramenti, possiamo risuscitare e camminare in una vita nuova, che è esattamente quella di chi è reso “degno” dello Sposo. La vita della sua Sposa liberata dal peccato che ama nella libertà ogni persona perché Cristo è il “peso”, il “valore” della sua vita e della sua persona, secondo un altro significato del termine “degno” nell’originale greco. Lo Sposo, infatti, nulla ha anteposto alla volontà del Padre che era ed è la salvezza di ogni uomo, la tua e la mia, per rendersi “degno” della sua Sposa. Dà le vertigini, ma è proprio così, Lui ci ha amati sino alla fine, non anteponendo neppure suo Padre e sua Madre pur di essere “degno” di te e di me. Sulla Croce, infatti, ha sperimentato nel suo intimo addirittura l’abbandono e l’estrema lontananza del Padre – “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” – mentre consegnava sua Madre come Madre a Giovanni immagine di ogni suo discepolo, e questi a Maria come figlio.
E’ sulla Croce dunque che possiamo accogliere la vita nuova che ci offre il Signore attraverso Maria Madre nostra e immagine della Chiesa che ci gesta nella fede. “Amare la propria vita”, smettere cioè di portare la Croce e difendere i propri spazi, i criteri, le comodità, rifiutando la precarietà di chi ha le radici solo in Cristo, significa vedersela sfilare e perderla inesorabilmente: “trovare” la vita, infatti, per un apostolo significa “trovare” in Cielo tutti coloro che il “Nome” di Gesù ha iscritto nei Cieli. Se ne mancherà qualcuno significa che avremo difeso la vita in tutte quelle circostanze nelle quali Dio aveva messo sul nostro cammino persone segnate dal suo Nome: ad esempio, quando non avremo perdonato quel collega, o non avremo lasciato che quel parente si porti via il nostro denaro, o avremo mentito al figlio sulla fede.
Coraggio fratelli, il Signore è vivo in noi, novelli Leviti del Terzo Millennio. Siamo chiamati a portare l’Arca dell’Alleanza Nuova ed Eterna che Gesù ha stabilito con l’umanità: piccoli, deboli, incompresi, rifiutati, umiliati. Cristiani, testimoni cioè che le Parole che in questa Domenica ci annuncia il Signore sono vere perché si compiono in noi. Annunciatori cioè che Lui è il “valore” della vita di ogni persona a chi è ancora stretto dai lacci dell’affettività perché schiavo del peccato. Offrendo a chiunque ci incontri di amare e servire Cristo in noi, nell’Arca che custodisce Cristo che è la nostra vita; le nostre storie custodiscono la Presenza misteriosa di Dio.
Solo se saremo assetati, bisognosi di tutto, come Gesù sulla Croce, potremo offrire, dalla nostra Croce, la ricompensa eterna a chi ci è vicino. Guarda che è quando sei “piccolo” che sei “suo discepolo”; quando sei debole che Cristo si fa pienamente presente in te. Quando davanti alla moglie sei indifeso, e ti umili, Lui in te sta allungando la sua mano perché lei, attraverso di te, gli dia “un bicchiere di acqua”. Le umiliazioni ci fanno “piccoli” e per questo “discepoli”; e solo nei “piccoli” il mondo può accogliere Dio. E’ tutto rovesciato, anche nel ministero presbiterale, la missione comincia quando la storia rimpicciolisce e indebolisce.
E’ questa l’unica vera preoccupazione di un sacerdote: essere piccolo, cioè esattamente quello che è e che gli eventi plasmano giorno dopo giorno. Altro che messe piene di gente, catechesi applaudite, fedeli che si impegnano per fare una parrocchia modello. Allo stesso modo si è padre e madre quando si è “piccoli”, indifesi, deboli, e i figli ci possono conoscere per ciò che veramente siamo. Con un carattere terribile, che litighiamo sempre tra noi, fragili: allora i figli avranno compassione di noi e, magari con un gesto solo, accoglieranno Cristo, e il Padre nella propria vita. Molto più che in virtù di sermoni e moralismi. La conversione degli altri parte sempre dalla nostra, che significa accettare si essere quel che siamo, e di scendere i gradini dell’umiltà. Solo così, anche oggi, la nostra vita, libera e unita al Signore, sarà un segno per ogni uomo. Un segno di Cristo crocifisso, amore puro del Padre; e anche un segno del Cielo, che ha i colori e la fragranza della Pace che regna nei nostri cuori.
Ecco, il segreto della vita è essere così piccoli da contenere l’Infinitamente Grande, come Gesù che si è fatto bambino e poi servo e poi crocifisso, l’ultimo, il più piccolo, per fare spazio nella sua carne all’infinito amore del Padre. Solo assumendo ogni giorno la nostra storia compiremo la missione che ci è stata affidata, quella di portare l’Arca, la nostra carne nella storia che custodisce la Presenza divina. Senza dimenticare mai che “è la Torà che porta noi. È lei che ci mantiene in vita come popolo e che ci garantisce continuità”, perché ormai siamo, nel Signore che è la Torà viva e compiuta nella Chiesa e in noi, “morti al peccato, siamo viventi per Dio in Cristo Gesù”.
Croce / Pixabay CC0 - MichaelGaida, Public Domain
Caricare la Croce è accogliere la libertà autentica
Commento al Vangelo della XIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) — 2 luglio 2017