Riportiamo il testo integrale del messaggio rivolto da Papa Francesco alla prof.ssa Margaret Archer, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, in occasione della sessione plenaria del Dicastero a proposito del tema: Towards a Participatory Society: New Roads to Social and Cultural Integration (Casina Pio IV, 28 aprile – 2 maggio 2017).
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Illustre Signora
Prof.ssa MARGARET ARCHER
Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali
In occasione della sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, che ha per tema Verso una società partecipativa: nuove strade per l’integrazione sociale e culturale, rivolgo il mio saluto riconoscente a Lei, gentile Professoressa, a S.E. Mons. Marcelo Sánchez Sorondo e a ciascuno dei partecipanti.
Con la competenza e la professionalità che vi sono proprie, avete scelto di studiare una questione che mi sta molto a cuore: quella della partecipazione sociale. Possiamo ben dire che la società è primariamente un processo di partecipazione: di beni, di ruoli, di statuti, di vantaggi e svantaggi, di benefici e di cariche, di obbligazioni e di doveri. Le persone sono partner, ovvero esse “prendono parte”, nella misura in cui la società distribuisce delle parti. Dal momento che la società è una realtà partecipativa per il reciproco interscambio, dobbiamo rappresentarcela, a un tempo, come un tutto irriducibile e come un sistema di interrelazione fra le persone. La giustizia allora può essere ritenuta la virtù degli individui e delle istituzioni, che, nel rispetto dei legittimi diritti, mirano alla promozione del bene di coloro che vi prendono parte.
1. Un primo punto che desidero portare alla vostra attenzione è l’ampliamento oggi necessario della nozione tradizionale di giustizia, la quale non può essere ristretta al giudizio sul momento distributivo della ricchezza, ma deve spingersi fino al momento della sua produzione. Non basta, cioè, reclamare la “giusta mercede all’operaio” come ci aveva raccomandato la Rerum novarum (1891). Occorre anche chiedersi se il processo produttivo si svolge o meno nel rispetto della dignità del lavoro umano; se accoglie o meno i diritti umani fondamentali; se è compatibile o meno con la norma morale. Già nella Gaudium et spes, al n. 67, si legge: «Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita». Il lavoro non è un mero fattore della produzione che, in quanto tale, deve adeguarsi alle esigenze del processo produttivo per accrescerne l’efficienza. Al contrario, è il processo produttivo che deve essere organizzato in modo tale da consentire la crescita umana delle persone e l’armonia dei tempi di vita familiare e di lavoro.
Occorre convincersi che un tale progetto, nella stagione della società odierna, parzialmente post-industriale, è fattibile, purché lo si voglia. Ecco perché la Dottrina Sociale della Chiesa (DSC) invita con insistenza a trovare i modi per applicare nella pratica la fraternità come principio regolatore dell’ordine economico. Laddove altre linee di pensiero parlano solo di solidarietà, la DSC parla piuttosto di fraternità, dato che una società fraterna è anche solidale, mentre non è sempre vero il contrario, come tante esperienze ci confermano. L’appello è dunque quello di porre rimedio all’errore della cultura contemporanea, che ha fatto credere che una società democratica possa progredire tenendo tra loro disgiunti il codice dell’efficienza – che basterebbe da solo a regolare i rapporti tra gli esseri umani entro la sfera dell’economico – e il codice della solidarietà – che regolerebbe i rapporti intersoggettivi entro la sfera del sociale. È questa dicotomizzazione ad avere impoverito le nostre società.
La parola-chiave che oggi meglio di ogni altra esprime l’esigenza di superare tale dicotomia è “fraternità”, parola evangelica, ripresa nel motto della Rivoluzione Francese, ma che l’ordine post-rivoluzionario ha poi abbandonato – per le note ragioni – fino alla sua cancellazione dal lessico politico-economico. È stata la testimonianza evangelica di San Francesco, con la sua scuola di pensiero, a dare a questo termine il significato che esso ha poi conservato nel corso dei secoli; cioè quello di costituire, ad un tempo, il complemento e l’esaltazione del principio di solidarietà. Infatti, mentre la solidarietà è il principio di pianificazione sociale che permette ai diseguali di diventare eguali, la fraternità è quello che consente agli eguali di essere persone diverse. La fraternità consente a persone che sono eguali nella loro essenza, dignità, libertà, e nei loro diritti fondamentali, di partecipare diversamente al bene comune secondo la loro capacità, il loro piano di vita, la loro vocazione, il loro lavoro o il loro carisma di servizio. Dall’inizio del mio pontificato ho voluto indicare «che nel fratello si trova il permanente prolungamento dell’Incarnazione per ognuno di noi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 179). Infatti, il protocollo con cui saremo giudicati è basato sulla fratellanza: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
Le stagioni che abbiamo lasciato alle spalle, l’800 e soprattutto il ‘900, sono state caratterizzate da ardue battaglie, sia culturali sia politiche, in nome della solidarietà e dei diritti, e questa è stata cosa buona – si pensi alla storia del movimento sindacale e alla lotta per la conquista dei diritti civili e sociali – lotte comunque ben lontane dall’essere concluse. Ciò che è più inquietante oggi è l’esclusione e la marginalizzazione dei più da una partecipazione equa nella distribuzione su scala nazionale e planetaria dei beni sia di mercato sia di non-mercato, come la dignità, la libertà, la conoscenza, l’appartenenza, l’integrazione, la pace. A tale riguardo quello che fa soffrire di più le persone e porta alla ribellione dei cittadini è il contrasto fra l’attribuzione teorica di eguali diritti per tutti e la distribuzione diseguale e iniqua dei beni fondamentali per la maggior parte delle persone. Anche se viviamo in un mondo in cui la ricchezza abbonda, moltissime persone sono ancora vittime della povertà e dell’esclusione sociale. Le diseguaglianze – insieme alle guerre di predominio e ai cambiamenti climatici – sono le cause della più grande migrazione forzata nella storia, che colpisce oltre 65 milioni di essere umani. Si pensi anche al dramma crescente delle nuove schiavitù nelle forme del lavoro forzato, della prostituzione, del traffico di organi, che sono veri crimini contro l’umanità. È allarmante e sintomatico che oggi il corpo umano si compri e si venda, come fosse una merce di scambio. Quasi cent’anni fa, Pio XI prevedeva l’affermarsi di queste diseguaglianze e iniquità come conseguenza di una dittatura economica globale che chiamò «imperialismo internazionale del denaro» (Enc.Quadragesimo anno, 15 maggio 1931, 109). E fu Paolo VI che denunciò, quasi cinquant’anni dopo, la «nuova forma abusiva di dominio economico sul piano sociale, culturale e anche politico» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 44).
Il punto è che una società partecipativa non può accontentarsi dell’orizzonte della pura solidarietà e dell’assistenzialismo, perché una società che fosse solo solidale e assistenziale, e non anche fraterna, sarebbe una società di persone infelici e disperate dalla quale ognuno cercherebbe di fuggire, in casi estremi anche con il suicidio.
Non è capace di futuro la società in cui si dissolve la vera fraternità; non è cioè capace di progredire quella società in cui esiste solamente il “dare per avere” oppure il “dare per dovere”. Ecco perché, né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione stato-centrica della società, in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per farci superare quella diseguaglianza, inequità ed esclusione in cui le nostre società sono oggi impantanate. Si tratta di cercare una via d’uscita dalla soffocante alternativa tra la tesi neoliberista e quella tesi neostatalista. Infatti, proprio perché l’attività dei mercati e la manipolazione della natura – entrambe mosse dall’egoismo, dall’avidità, dal materialismo e dalla concorrenza sleale – alle volte non conoscono limiti, è urgente intervenire sulle cause di tali malfunzionamenti, soprattutto in ambito finanziario, piuttosto che limitarsi a correggerne gli effetti.
2. Un secondo aspetto desidero toccare, vale a dire il concetto di sviluppo umano integrale. Battersi per lo sviluppo integrale vuol dire impegnarsi per l’allargamento dello spazio di dignità e di libertà delle persone: libertà intesa, però, non solo in senso negativo come assenza di impedimenti, e neppure solo in senso positivo come possibilità di scelta. Bisogna aggiungervi la libertà “per”, cioè la libertà di perseguire la propria vocazione di bene sia personale sia sociale. L’idea-chiave è che la libertà va di pari passo con la responsabilità di proteggere il bene comune e promuovere la dignità, la libertà e il benessere degli altri, tanto da raggiungere i poveri, gli esclusi e le generazioni future. È questa prospettiva che, nelle condizioni storiche attuali, se permette di superare sterili diatribe a livello culturale e dannose contrapposizioni a livello politico, permetterebbe di trovare il consenso necessario per nuove progettualità.
È all’interno di questo contesto che si pone la questione del lavoro. I limiti dell’attuale cultura del lavoro sono ormai divenuti evidenti ai più, anche se non c’è convergenza di vedute sulla via da percorrere per giungere al loro superamento. La via indicata dalla DSC inizia dalla presa d’atto che il lavoro, prima ancora che un diritto, è una capacità e un bisogno insopprimibile della persona. È la capacità dell’essere umano di trasformare la realtà per partecipare all’opera di creazione e conservazione operata da Dio, e, così facendo, di edificare sé stesso. Riconoscere che il lavoro è una capacità innata e un bisogno fondamentale è un’affermazione assai più forte che dire che esso è un diritto. E ciò perché, come la storia insegna, i diritti possono essere sospesi o addirittura negati; le capacità, le attitudini e i bisogni, se fondamentali, no.
A questo proposito ci si può riferire alla riflessione classica, da Aristotele a Tommaso d’Aquino, sull’agire. Tale pensiero distingue due forme di attività: il fare transitivo e l’agire immanente. Mentre il primo connota l’azione che produce un’opera al di fuori di chi agisce, la seconda fa riferimento ad un agire che ha il suo termine ultimo nel soggetto stesso che agisce. Il primo cambia la realtà in cui l’agente vive; il secondo cambia l’agente stesso. Ora, poiché nell’uomo non esiste un’attività talmente transitiva da non essere anche sempre immanente, ne deriva che la persona ha la priorità nei confronti del suo agire e quindi del suo lavoro.
La prima conseguenza è bene espressa dall’affermazione classica operari sequitur esse: è la persona a decidere circa il proprio operare, l’auto-generazione è frutto dell’auto-determinazione della persona. Quando il lavoro non è più espressivo della persona, perché essa non comprende più il senso di ciò che sta facendo, il lavoro diventa schiavitù; la persona può essere sostituita da una macchina.
La seconda conseguenza chiama in causa la nozione di giustizia del lavoro. Il lavoro giusto è quello che non solamente assicura una remunerazione equa, ma corrisponde alla vocazione della persona e perciò è in grado di dare sviluppo alle sue capacità. Proprio perché il lavoro è trasformativo della persona, il processo attraverso il quale vengono prodotti beni e servizi acquista valenza morale. In altri termini, il luogo di lavoro non è semplicemente il luogo in cui certi elementi vengono trasformati, secondo determinate regole e procedure, in prodotti; ma è anche il luogo in cui si formano (o si trasformano) il carattere e la virtù del lavoratore.
Il riconoscimento di questa dimensione più fortemente personalistica del lavoro è una grande sfida che sta ancora di fonte a noi, anche nelle democrazie liberali dove pure i lavoratori hanno fatto notevoli conquiste.
Infine, non posso non fare parola dei gravi rischi connessi all’invasione, nei livelli alti della cultura e nell’istruzione sia universitaria sia scolare, delle posizioni dell’individualismo libertario. Una caratteristica comune di questo fallace paradigma è che minimizza il bene comune, cioè il “vivere bene”, la “vita buona”, nel quadro comunitario, ed esalta quell’ideale egoista che ingannevolmente inverte le parole e propone la “bella vita”. Se l’individualismo afferma che è solo l’individuo che dà valore alle cose e alle relazioni interpersonali e quindi è solo l’individuo che decide cosa è bene e cosa è male, il libertarismo, oggi di gran moda, predica che per fondare la libertà e la responsabilità individuale occorre ricorrere all’idea di auto-causazione. Così l’individualismo libertario nega la validità del bene comune, perché da una parte suppone che l’idea stessa di “comune” implichi la costrizione almeno di alcuni individui, dall’altra che la nozione di “bene” privi la libertà della sua essenza.
La radicalizzazione dell’individualismo in termini libertari, e dunque antisociali, porta a concludere che ognuno ha “diritto” di espandersi fin dove la sua potenza glielo consente anche a prezzo dell’esclusione e marginalizzazione della maggioranza più vulnerabile. Poiché limiterebbero la libertà, i legami sarebbero ciò che deve essere sciolto. Equiparando erroneamente il concetto di legame a quello di vincolo, si finisce col confondere i condizionamenti della libertà – i vincoli – con l’essenza della libertà realizzata, cioè i legami o i rapporti con i beni appunto, da quelli familiari a quelli interpersonali, da quelli degli esclusi e degli emarginati a quelli del bene comune, e infine a Dio.
Il XV secolo è stato il secolo del primo Umanesimo; all’inizio del XXI secolo sempre più forte si avverte l’esigenza di un nuovo Umanesimo. Allora fu la transizione dal feudalesimo alla società moderna il motore decisivo del mutamento; oggi, è un passaggio d’epoca altrettanto radicale: quello dalla società moderna a quella post-moderna. L’aumento endemico delle diseguaglianze sociali, la questione migratoria, i conflitti identitari, le nuove schiavitù, la questione ambientale, i problemi di biopolitica e biodiritto sono solamente alcune delle questioni che parlano dei disagi dell’oggi. Di fronte a tali sfide, il mero aggiornamento di vecchie categorie di pensiero o il ricorso a raffinate tecniche di decisione collettiva non bastano; occorre tentare vie nuove ispirate dal messaggio di Cristo.
La proposta del Vangelo: «Cercate anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt6,33) è stata ed è tuttora un’energia nuova nella storia che tende a suscitare fraternità, libertà, giustizia, pace e dignità per tutti. Nella misura in cui il Signore riuscirà a regnare in noi e tra di noi, potremo partecipare della vita divina e saremo l’uno all’altro «strumenti della sua grazia, per effondere la misericordia di Dio e per tessere reti di carità e fraternità» (Benedetto XVI, Enc. Caritas in veritate, 5). È questo l’auspicio che vi rivolgo, e che accompagno con la mia preghiera, affinché sull’Accademia delle Scienze Sociali mai venga a mancare l’aiuto vivificante dello Spirito.
Mentre vi affido queste riflessioni, vi incoraggio a portare avanti con rinnovato impegno il vostro prezioso servizio e, nel domandarvi per favore di pregare per me, di cuore vi benedico.
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"Non c'è futuro senza fraternità". Messaggio del Papa alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali
Francesco ha scritto alla presidente del Dicastero, Margaret Archer, in occasione della plenaria