Emmaus Nicopolis / Wikimedia Commons - Neu Aloyse, CC BY 3.0

Iapicca: “A tavola” con Cristo ogni storia trova il suo senso

Commento al Vangelo della III Domenica di Pasqua, Anno A — 30 aprile 2017

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La Pasqua è il trionfo della libertà. Il Vangelo di questa Domenica descrive la pedagogia divina, che educa l’uomo accompagnandolo sin dove la sua libertà schiava della carne lo conduce; e qui, trasformarlo nell’amore in un figlio di Dio, libero davvero per convertirsi, ovvero per ritornare “senza indugio” nel cuore della comunione e della Verità. 
E’ il Vangelo dei lontani! In piena Pasqua è il Vangelo di chi non capisce e rifiuta la Pasqua. Perché c’è anche questo, c’era nella Chiesa primitiva, c’è stato durante la storia della Chiesa, c’è oggi. E c’è una Pasqua anche per quelli che, pur avendo ascoltato che “Gesù è vivo”, non hanno celebrato nulla, incamminati in direzione opposta al Cenacolo. 
Il cammino dei due discepoli di Emmaus, infatti, è il cammino di quanti si allontanano dalla Chiesa, forse insoddisfatti perché le promesse e le aspettative sono state deluse: “Noi speravamo che Gesù fosse colui che avrebbe liberato Israele”. Noi speravamo che Dio ascoltasse le nostre preghiere, e invece niente, papà è morto, mio figlio non ha lavoro, di un fidanzato neanche l’ombra. 
Noi speravamo che nella Chiesa ci fosse amore e carità, e invece il parroco pensa solo ai soldi, le persone sono ipocrite, le messe una sentina di giudizi e ostentazione. Noi speravamo che, anche se divorziati, potessimo essere accolti e fare la comunione, e invece qui ci impediscono di ricevere proprio Colui che dicono ami tutti. 
Noi speravamo, ce lo avevano insegnato a catechismo, che esistesse Dio e che Gesù fosse risuscitato, ma erano tutte chiacchiere ingannevoli; a scuola sì che il professore di filosofia ci ha schiarito le idee: crociate, inquisizione, potere temporale, e poi lo Ior e i preti pedofili, e tutte queste leggi omofobe e sessuofobe che sembrano fatte apposta per frustrare i sentimenti e i desideri più diversi. La ragione con la sua scienza accidenti, solo questa può spiegare quello che nessun prete è stato in grado di chiarire.
Noi speravamo, e in questo “noi” ci siamo tutti, tu ed io innanzitutto, e poi i nostri figli che dopo la cresima hanno salutato la Chiesa, i parenti, gli amici, i colleghi. Tutti quelli che abbiamo avuto un contatto con Cristo e la sua Chiesa e, per un motivo o per un altro, ce ne siamo allontanati. 
Chi da molto tempo, ed è ormai preso dai tentacoli del mondo e dai suoi criteri; e chi giusto il tempo per far causa a un vicino di casa, o per chiudere la porta del cuore alla moglie, o per farsi giustizia, visto che “sono passati tre giorni” e da Dio nessuna risposta.
Ed è proprio in tutta questa confusione e ignoranza che risplende la Pasqua; proprio “mentre” siamo “in cammino”, ciascuno diretto al proprio “villaggio di nome Èmmaus”, o Roma, o Tokyo: o le idee e le ideologie, o i giudizi sui preti e su Dio stesso, o il bar dove evaporare la gioventù, o qualsiasi luogo “distante circa undici chilometri da Gerusalemme” che è immagine della Chiesa, dove cerchiamo ragione del dolore, consolazione per i fallimenti, pace per le nevrosi, e senso che ci liberi dai complessi.
Sì, anche ogni cammino che ci allontana da Dio avviene “in quello stesso giorno”, il giorno di Pasqua! La resurrezione di Cristo ci abbraccia proprio “mentre”, come i due discepoli, “conversiamo e discutiamo” cercando di capire ma senza discernimento, nell’impossibilità di accettare il piano di Dio, che la via alla felicità e alla vita piena passa per la Croce.
Quando Papa Francesco ripete di andare alle “periferie dell’esistenza” e di preoccuparsi di annunciare il Vangelo della misericordia prima di affermare i principi, ci sta indicando quanto accaduto sulla strada che conduceva a Emmaus! 
Su di essa transitano – “con il volto triste” perché lontano dalla Verità e dall’amore non c’è felicità – tutti gli “stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti”, ovvero la Chiesa e i suoi pastori, i catechisti, i genitori, e coloro che annunciano il Vangelo. Verso Emmaus camminano tutti quelli che, ingannati dal demonio, son gonfi d’orgoglio e interpretano tutto secondo le leggi dure e senza pietà della carne e del mondo. 
Tutti quelli che l’incontro con Cristo aveva sedotto, innescando speranze, forse infantili, acerbe, sentimentali. Gesù è stato importante fintanto che è stato “profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo”. Ma quando “i capi dei sacerdoti e le autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso”, ci siamo scandalizzati, perché la carne non può accogliere ciò che trascende la ragione; essa è schiava della superbia “originale” che rifiuta l’amore perché è lei a dire cosa e come Dio “deve” operare. 
Abbiamo sperato in Gesù, ma non in Gesù crocifisso. E perché? Perché non ci conosciamo e non ci riconosciamo peccatori; perché chiunque si allontana da Gerusalemme non ha compreso che “bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria”. Bisognava che entrasse nella morte dove il peccato ha spinto ogni uomo, nella tomba dove giace il tuo matrimonio o il rapporto con tuo figlio, altrimenti non avrebbe potuto salvarlo. 
Scappiamo da Gerusalemme perché la Croce non ci riguarda, questo è il punto. E non ci sono moralismi, battaglie ideali, campagne stampa, manifestazioni e referendum che tengano, se la Croce non mi riguarda personalmente anche Gerusalemme diventa un luogo opprimente, come la Chiesa e il suo Magistero. Senza l’incontro con Cristo risorto al fondo dei miei peccati, lì sul cammino verso Emmaus, è inutile ogni sforzo. 
Per questo Gesù dilata il suo Mistero Pasquale sino ai luoghi dove scappiamo delusi. Proprio qui, capito? proprio mentre discutiamo “di tutto quello che era accaduto”, della Croce e dell’annuncio della Chiesa, “Gesù in persona si avvicina e cammina con noi”. 
Gesù avanza accanto a noi proprio mentre ci allontaniamo come Adamo ed Eva – erano due anche loro… – quando si sono separati da Dio e hanno dovuto intraprendere il duro cammino fuori dal Paradiso. Come la nube della presenza di Dio che ha accompagnato il Popolo quando è dovuto andare in esilio. Come lo sguardo del Padre, che non ha mai abbandonato gli sbandamenti del figlio prodigo.
Lì dove si trova tua figlia caduta nel peccato, tuo marito che ti ha lasciato, dove sei tu, incatenato nel rancore, è oggi il Calvario, e il sepolcro dove nessuno è mai stato sepolto, e la pietra rovesciata e Cristo risorto che ci viene incontro.
Oggi e ogni giorno della storia è Pasqua, il primo giorno della settimana! Oggi la croce che mi scandalizza è già avvolta della gloria di Cristo risorto! Gesù era apparso lì in quell’istante con carne e parola, ma non aveva smesso un istante di essere con i due discepoli, a camminargli accanto, il più familiare di tutti. 
No, Gesù non è “così forestiero”, lontano dai nostri problemi, come pensiamo sedotti dalle menzogne che ascoltiamo ogni giorno. Gesù sa bene “quello che è accaduto a Gerusalemme”, era il compimento della sua missione! 
Per questo Lui è dentro ogni avvenimento di croce che insanguina la storia, nelle nostre case, negli uffici e nelle scuole, negli ospedali e negli ingorghi. Gesù è nelle ansie e nelle difficoltà del matrimonio, nella fragilità dei figli, nel timore del fidanzamento, nella fatica del lavoro e dello studio, nella stanchezza della malattia. 
Chiunque è stato anche solo un giorno nella Chiesa, chi ha fatto il catechismo, chi ha pregato con la nonna da bambino, chi è stato a un funerale, ha potuto ascoltare l’annuncio delle “donne che hanno sconvolto” i discepoli di Emmaus: “si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo”. 
E quel grido risuona, all’inizio flebilmente, ma poi imperioso, come un graffio che impedisce la felicità quando si è lontani dalla comunione d’amore con Cristo che si sperimenta nella Chiesa.
Le “donne delle nostre” sono la nostalgia di pienezza e amore che ogni uomo porta nel cuore, anche chi brancola nel buio lontano dalla Chiesa dove non è mai stato. Per questo il Vangelo di oggi è una buona notizia per tutti! 
E una chiamata a conversione per la Chiesa, perché non spenga mai l’annuncio delle donne, il Kerygma che sconvolge e lega indissolubilmente a Cristo la vita di ogni uomo, come brace viva sotto la cenere.
E Cristo è lì, come anche la Chiesa e i suoi apostoli sono chiamati a fare, accanto agli uomini che han visto incenerirsi la speranza. Cammina e ama, senza giudicare. E’ presente nei luoghi di dolore e peccato, anche dove i “discepoli” hanno perduto la fede, e non teme di sporcarsi con lo stessa terra calpestata dagli “stolti”. 
Non importa se, all’inizio, “i loro occhi sono incapaci di riconoscerlo”. Importa che Lui sia lì, a soffiare parole di amore e verità su quella cenere, a “conversare con ciascuno lungo la via, spiegando le Scritture”, sino a che non torni in loro ad “ardere il cuore”.
Discreto e rispettoso della libertà di ciascuno, Gesù dialoga con tutti, non come in un talk show, ma, “cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiega loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”. 
Attraverso gli eventi della storia, i dolori e le gioie di ogni giorno, Gesù parla e rivela a poco a poco come tutto della storia di ciascuno ha avuto, da sempre, relazione con il suo amore. Il suo sangue, infatti, ha raggiunto ogni lembo di terra, ogni sussulto di vita, ogni peccato. 
E’ stupenda la tenerezza di Gesù, l’unico esegeta (Frédéric Manns), l’Agnello immolato capace di aprire i sette sigilli della Scrittura, per rivelarne il senso e illuminare con essa la vita di ogni uomo: Gesù accompagna i passi nella Verità, e cioè che “Egli doveva morire” proprio per te e per me. 
Il suo amore, l’unico, è giunto sin dentro la notte, il crepuscolo di ogni fuga. E Gesù “fa come se dovesse andare più lontano”, ed è il colpo del ko… Proprio la possibilità di perdere quella presenza che aveva riacceso il cuore svela definitivamente la propria indigenza, ed è quando ci si scopre impauriti e soli nel buio della superbia. 
Ma Gesù è lì, pronto ad essere accolto ed “entrare per rimanere con loro” che hanno finalmente capito d’essere peccatori e bisognosi del suo perdono.
Allora, non sappiamo quando, ma sappiamo dove – proprio alla fine del viaggio, “vicini al villaggio dove siamo diretti” – forse attraverso un fatto, di certo per la presenza amorevole e misericordiosa della Chiesa e dei suoi figli, quel cuore tornato a scaldarsi può implorare Cristo come fece Abramo visitato dai tre angeli alla quercia di Mambre, perché non passi senza fermarsi: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”.
In quel crocevia decisivo si fa chiara l’esperienza che, scappando da Gerusalemme, ci si ritrova nella notte, come Giuda; e non vogliamo porre fine alle nostre vite come lui. La parola di Gesù ci ha destato a una speranza che credevamo perduta. La sua presenza, il suo esserci nonostante tutto, ha illuminato il nostro orgoglio: “noi speravamo” male, “discutevamo” ingannati dal demonio. 
Non è come pensavamo irretiti nelle menzogne che ci hanno insegnato nel mondo. “Resta con noi” perché abbiamo capito di non aver capito niente, della nostra storia, della Chiesa, dell’amore e di Te. Abbiamo però imparato che del tuo camminare con noi proprio non possiamo fare a meno.
In questo momento rivive l’incontro di Giuseppe con i fratelli che lo avevano venduto. Dopo tanti dialoghi e prove, nell’intimità, il figlio prediletto di Giacobbe si “fa riconoscere”: “Io sono Giuseppe, il vostro fratello, che voi avete venduto per l’Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perchéDio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nel paese e per salvare in voi la vita di molta gente. Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio ed Egli mi ha stabilito padre per il faraone, signore su tutta la sua casa e governatore di tutto il paese d’Egitto. Affrettatevi a salire da mio padre e ditegli: Dice il tuo figlio Giuseppe: Dio mi ha stabilito signore di tutto l’Egitto…Ed ecco, i vostri occhi lo vedono e lo vedono gli occhi di mio fratello Beniamino: è la mia bocca che vi parla!” Gen 45, 4 ss.).
Non c’è, dunque, da rattristarsi, perché nelle trame oscure che conducono l’uomo a tradire, scappare e peccare, Dio scrive una storia di misericordia. Ha “mandato” Cristo sulla strada di Emmaus prima dei discepoli, sulla Croce gli ha fatto sperimentare la lontananza prima di ogni lontano, perché possano “aprirsi gli occhi” di tutti sul suo amore. Ha consegnato suo Figlio alla morte per “assicurare” a tutti la vita e la salvezza.
Per questo, proprio dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la Grazia: i discepoli “riconoscono Gesù” perché hanno conosciuto se stessi nel suo corpo crocifisso e “spezzato” per amore. In quell’intimità ritrovata nel punto del cammino più lontano da Gerusalemme, appare la Chiesa, il culmine e la fonte della sua liturgia, il rendimento di grazie per l’amore infinito di Dio, l’Eucarestia. 
“A tavola” con Cristo ogni storia trova il suo senso; in quel “pane preso, spezzato e dato” trova pienezza ogni vita perduta. In Cristo ogni fallimento si trasforma in benedizione: anche i passi che ci hanno separato da Lui e dai fratelli, nella luce del suo amore, si scopre che stavano tracciando il cammino percorso per incontrarlo e non lasciarlo più.
Ora il cammino di purificazione è compiuto: Gesù è entrato per “rimanere” con i discepoli; anche se “sparisce alla vista” della carne, ormai Lui è in loro, come in chiunque abbia fatto questa esperienza, ed è finalmente libero. Libero dal peccato e dall’angoscia, come i fratelli di Giuseppe che, perdonati, si “affrettano” a tornare da Giacobbe a dare la buona notizia del fratello ritrovato. 
Così anche noi, con tutti quelli che si erano allontanati, possiamo convertirci, liberi di invertire la marcia e tornare sui nostri passi; liberi di cambiare modo di pensare e di vivere; liberi di fare “ritorno senza indugio a Gerusalemme”, incontro ai fratelli per “narrare ciò che ci è accaduto lungo la via e come l’abbiamo riconosciuto nello spezzare il pane”; liberi di celebrare, nella comunione, la pienezza della Vita che non muore, perché «davvero il Signore è risorto!»
E da qui, liberi di donarsi e uscire per farci compagni di viaggio dell’infinita schiera dei “tristi” e delusi viandanti che ci sono accanto, per innescare in loro il fuoco della speranza.

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Antonello Iapicca

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