Monte Tabor / Wikimedia Commons - אלי זהבי, CC BY

Iapicca: "Saliamo sul Tabor con Gesù"

Commento al Vangelo della II Domenica di Quaresima, Anno A — 12 Marzo 2017

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Siamo incamminati verso la Pasqua, per celebrare e vivere la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte. “Gesù è risorto, è il Signore!” è il grido inesausto che, inviata ad ogni angolo della terra, la Chiesa fa risuonare nella storia.
La Pasqua è il suo cuore, l’evento che la muove alla ricerca della pecora perduta, le schiude le labbra alla lode che si fa liturgia, le infonde forza e tenacia nelle persecuzioni. La Pasqua è il grembo da cui nasce l’annuncio del Vangelo.
Senza la Pasqua non ha senso una sola parola, fosse anche la più ragionevole, un solo gesto, fosse anche il più nobile. Senza la Pasqua nulla ha senso nella nostra vita. Il mondo, infatti, si dimena cercandone uno, ma è come vincolato a un elastico, più cerca di allontanarsi dal muro della morte, più violentemente ne è risucchiato per sbattervi rovinosamente.
Il mondo non conosce la Pasqua, se non travestita da Pasquetta, sci in spalla o gita fuori porta. Una beffarda caricatura, l’evasione al posto della risurrezione, la notte dell’illusione invece della luce della certezza.  
Il collega, il cugino, il compagno di scuola, forse anche il coniuge o la figlia, sono tutti in fuga, sperando una vacanza, un aumento di stipendio, la vincita a qualche lotteria, un bagliore che rischiari l’esistenza e le dia senso e sostanza.
E nel mondo, placcati dai suoi tentacoli, viviamo anche noi. Spesso ci lasciamo andare e diventiamo suoi. Il cammino è troppo duro, con la moglie rintanata nelle sue crisi, con il marito sepolto nel lavoro e nelle preoccupazioni, con i figli che hanno chiuso qualunque canale di comunicazione; con la salute che se ne va, la pensione ridotta all’osso e i conti in rosso, con la morte, aspra, inesorabile, che ci visita in tutte le fogge.
Il deserto è secco accidenti, meglio tornare in Egitto, cipolle e aglio a volontà; sempre quelli ma che importa, meglio di quest’arsura. E’ vero che la carne ogni volta più affamata e insoddisfatta esige sempre gli stessi peccati, ma sembrano cibo gustoso; poi ci accorgiamo che sono veleno, e che fetore in bocca e che lacrime sul viso.
Forse in questo tempo, oggi chissà, il mondo ci ha spento la luce, e brancoliamo nel buio. Per questo ci viene incontro la Quaresima, il deserto dove ritrovare la vita. Un paradosso, non c’è vita dove regna la morte. Eppure è nella tomba che esplode la Pasqua.
Come già il Popolo di Israele sul Monte Sinai, il Signore ci prende per mano e ci «conduce in alto», sul Monte elevato, «in disparte». I Padri della Chiesa hanno letto in questo evento l’inizio della via nuova in Cristo. Un’esperienza fondamentale per poter vivere nel mondo senza essere del mondo, la partecipazione alla sua vittoria sulla morte.
Saliamo sul Tabor con Gesù allora. Lassù ci vuol donare la fede adulta, che guarda la terra dalla sommità di un monte, il punto più vicino al Cielo. Il mondo e la carne, invece, cercano di vedere e capire il Cielo dalla terra, con i limitati parametri umani.
Da “un alto monte” si abbraccia un insieme che a terra non si può. Se restiamo incollati al suolo, chi ci è accanto e i fatti della vita restano schiacciati su una prospettiva angusta. L’altro sarà solo quello che appare e cade immediatamente sotto i nostri sensi. Un fallimento resterà circoscritto alla frustrazione del momento. E avranno il potere di ferire la nostra anima.
Ma da lassù è tutta un’altra luce! Come “Pietro, Giacomo e Giovanni”, gli intimi di Gesù, anche noi siamo chiamati a contemplare un candore mai visto, così intenso da diventare “luce”,  e sfolgorare proprio lì, da dentro la carne di Gesù, identica alla nostra.
Nel cuore della Quaresima è preparata per noi la visione di Cristo “trasfigurato”, un lampo della Pasqua nel buio del deserto. Senza questa esperienza non possiamo essere cristiani; il Mistero Pasquale di Gesù ci resterebbe estraneo, un dogma da credere senza però parteciparne.
Abbiamo bisogno di vedere trasfigurata la carne, che, concretamente, significa sperimentare di avere dentro di noi, peccatori e fragili, la stessa vita di Cristo. Egli «fu trasfigurato», metamorphósi,  letteralmente “mutò forma”. Ebbene, la fede adulta è proprio questo: cambiare forma di entrare nella storia, mentre la sapienza umana cerca di cambiare forma alla storia.
Ma è una Grazia che il Padre ci dona rivelandoci Gesù nella sua Gloria risplendere nella nostra vita, dissipando le false idee che abbiamo su di Lui. Diciamocelo, Lo pensiamo come un eroe dei film, ma non crediamo ancora che Gesù è Dio e ha vinto la morte. Non lo crediamo dinanzi alla Croce, dalla quale fuggiamo impauriti. 
Per questo Gesù ci lascia intravvedere dalla sua carne lo splendore della vita immortale. Ma come? Facendoci passare concretamente dalla morte alla vita, dal peccato alla Grazia. La trasfigurazione del Signore si compie in noi mentre la sua vittoria ci accompagna a chiedere perdono, a riconciliarci, ad entrare nella precarietà senza mormorare, ad accogliere un altro figlio, ad accettare la malattia e la morte.
E’ proprio nel deserto dove vediamo issarsi la Croce che il Padre ci parla. E’ nella paura della morte che la sua “nube”, immagine della sua presenza, ci “avvolge”. E’ qui che, crocifissi con Cristo sul Monte, possiamo ascoltare la notizia che cambia la vita: “E’ Lui il mio Figlio, l’eletto!” E’ Lui e sei tu in Lui. Proprio lì, incastrato nell’angoscia, sei Figlio, non resterai nella tomba.
Coraggio allora, nascosta nel dolore vi è una bellezza che gli occhi della carne non sanno percepire. Occorre “ascoltare” Gesù, attraverso la sua Parola profetizzata da “Mosè ed Elia”, nella liturgia e nella predicazione della Chiesa.
“Shemà Israel, Ascolta Israele!”: è questa la chiave che apre il sipario sulla Verità. “Ascoltare”, infatti, In ebraico, infatti, ascoltare e obbedire sono una medesima parola: ascoltare per obbedire, obbedire per amare, amare per passare oltre la morte. Ascoltare per entrare nella Pasqua. 
La nostra vita trasfigurata, infatti, è una vita evangelizzata, illuminata dalla Buona notizia. Una vita “bella”, perché, come aveva sperimentato Pietro, “è bello stare con Gesù”. Con Lui ogni situazione diviene un frammento di Paradiso, ogni persona un riverbero del suo volto.
Per questo, come Israele durante la festa di Succot che ricordava la permanenza di Israele nel deserto, con Pietro desideriamo issare e dimorare nelle “tende”. Nella precarietà di una tenda si può vivere felici, gustando una bellezza che ci parla della Pasqua, illuminando la meta verso la quale camminiamo.
Con amore il Signore ci prende per mano e ci dice “Alzatevi, non abbiate paura”; “Risuscitate” e non temete la morte che vi sta ghermendo; è salario del peccato, e chi ha conosciuto il perdono e vive trasfigurato con Cristo non la gusterà in eterno.
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Antonello Iapicca

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