Viaggiare “non mi piace”, ma “il dramma di Lampedusa mi ha fatto sentire il dovere di mettermi in viaggio” nel mondo per “andare a visitare le Chiese” e “incoraggiare i semi di speranza che ci sono”. Francesco confida sentimenti, ricordi e timori delle sue trasferte internazionali ad Andrea Tornielli, noto vaticanista de La Stampa e coordinatore di Vatican Insider, assiduo frequentatore dei viaggi papali, nel suo libro “In viaggio” (Piemme) in uscita il prossimo 10 gennaio.
Un capitolo del volume contiene un colloquio con il Santo Padre sui suoi “pellegrinaggi” in giro per il mondo. Viaggi che in un certo qual modo “pesano” al Papa che “mai” avrebbe immaginato di fare. “Non mi è mai piaciuto molto viaggiare”, ammette “mi è sempre pesato stare lontano dalla mia diocesi, che per noi vescovi è la nostra ‘sposa’. E poi io sono piuttosto abitudinario, per me fare vacanza è avere qualche tempo in più per pregare e per leggere, ma per riposarmi non ho mai avuto bisogno di cambiare aria o di cambiare ambiente”.
A fargli mutare idea è stata la missione a Lampedusa: “Non era programmato, non c’erano inviti ufficiali. Ho sentito che dovevo andare – racconta Bergoglio – mi avevano toccato e commosso le notizie sui migranti morti in mare, inabissati. Bambini, donne, giovani uomini… Una tragedia straziante. Ho visto le immagini del salvataggio dei superstiti, ho ricevuto testimonianze sulla generosità e l’accoglienza degli abitanti di Lampedusa”.
“Era importante andare là”, afferma il Papa, che ricorda anche un altro viaggio compiuto sulla scia della tragedia dei migranti: Lesbo. Una visita di appena cinque ore, durante la quale il Vescovo di Roma ha voluto “incontrare e confortare i profughi”, insieme ai “fratelli” Bartolomeo e Hyeronimos. Quella in Grecia è stata finora l’unica tappa in Europa. Certo, ci sono state le tappe al Parlamento Europeo e al Consiglio d’Europa a Strasburgo, “ma quella – spiega il Papa – è stata piuttosto una visita a un’istituzione, non a un Paese”; senza dimenticare la visita ad altri Paesi “che sono europei pur non facendo parte della Unione: l’Albania e la Bosnia Erzegovina”.
“Ho preferito privilegiare quei Paesi nei quali posso dare un piccolo aiuto, incoraggiare chi nonostante le difficoltà e i conflitti lavora per la pace e per l’unità. Paesi che sono, o che sono stati, in gravi difficoltà”, rivela il Pontefice. Questo, precisa, “non significa non avere attenzione per l’Europa che incoraggio come posso a riscoprire e a mettere in pratica le sue radici più autentiche, i suoi valori”. Papa Francesco si dice “convinto” che “non saranno le burocrazie o gli strumenti dell’alta finanza a salvarci dalla crisi attuale e a risolvere il problema dell’immigrazione, che per i Paesi dell’Europa – ribadisce – è la maggiore emergenza dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale”.
Uscendo dai confini del Vecchio Continente, Bergoglio ricorda il viaggio a Rio de Janeiro, il primo internazionale lasciato ‘in eredità’ da Benedetto XVI dopo le dimissioni, in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù. “Si trattava di un appuntamento già in agenda, già stabilito”, spiega, “sempre il Papa è andato alle Gmg. Il viaggio non è mai stato in discussione, bisognava andare, e per me è stato il primo ritorno nel continente latinoamericano”. Dopo Rio “è arrivato un altro invito e poi un altro ancora. Ho risposto semplicemente di sì, lasciandomi in qualche modo ‘portare’. E ora sento che devo fare i viaggi, andare a visitare le Chiese, incoraggiare i semi di speranza che ci sono”.
Per Francesco questi lunghi viaggi dall’altra parte del mondo “sono pesanti” più dal punto di vista psicologico che da quello fisico: “Quando ritorno a casa, in Vaticano, di solito il primo giorno dopo il viaggio è abbastanza faticoso e ho bisogno di recuperare”, ammette, tuttavia “porto sempre con me volti, testimonianze, immagini, esperienze… Una ricchezza inimmaginabile, che mi fa sempre dire: ne è valsa la pena”.
Il Papa confessa che il primo sentimento di fronte all’entusiasmo della gente che lo aspetta per ore in strada “è quello di chi sa che ci sono gli ‘Osanna!’ ma come leggiamo nel Vangelo, possono arrivare anche i ‘Crucifige!’“. Un secondo sentimento lo trae invece da una frase detta dall’allora cardinale Albino Luciani a proposito degli applausi di un gruppo di chierichetti: “Ma voi potete immaginare che l’asinello su cui sedeva Gesù nel momento dell’ingresso trionfale a Gerusalemme potesse pensare che quegli applausi fossero per lui?”.
“Ecco il Papa deve aver coscienza del fatto che lui ‘porta’ Gesù, testimonia Gesù e la sua vicinanza, prossimità e tenerezza a tutte le creature, in modo speciale quelle che soffrono”, afferma il Santo Padre. “Per questo – aggiunge – qualche volta a chi grida ‘viva il Papa’ ho chiesto invece di gridare ‘Viva Gesù!'”.
Dell’agenda già consolidata dei viaggi papali, Francesco dice poi di aver cambiato molto poco: “Ho cercato, ad esempio, di eliminare del tutto i pranzi di rappresentanza. È naturale che sia le autorità istituzionali del Paese visitato, sia i confratelli vescovi, desiderino festeggiare l’ospite che arriva. Non ho nulla contro lo stare a tavola in compagnia (…) ma se l’agenda del viaggio, come accade quasi sempre, è già pienissima di appuntamenti, preferisco mangiare in modo semplice e in poco tempo”.
Non manca nell’intervista con Tornielli una carrellata dei ricordi indelebili dei 16 viaggi internazionali compiuti: dai giovani di Rio che loro tiravano nella papamobile o il bambino che, sempre in Brasile, “riuscendo a intrufolarsi ha salito le scale di corsa e mi ha abbracciato”. Poi i fedeli al santuario di Madhu, in Sri Lanka, non solo cristiani, ma anche musulmani e indù, “come membri di un’unica famiglia”.
Soprattutto, davanti agli occhi del Papa c’è “il gesto di quei papà che alzavano i loro bambini, perché li benedicessi, mi sembrava che volessero dire: questo è il mio tesoro, il mio futuro, il mio amore, per lui vale la pena di lavorare e di fare sacrifici. E c’erano anche tanti bambini disabili, e i loro genitori non nascondevano il loro figlio, me lo porgevano perché lo benedicessi affermando con i loro gesti: questo è il mio bambino, è così, ma è mio figlio. Gesti nati dal cuore”. Questi e tante altre esperienze, Bergoglio le porta nel cuore pregando per la gente incontrata, “per le situazioni dolorose e difficili con le quali sono venuto in contatto” e “perché si riducano le disuguaglianze che ho visto”.
Ad una domanda sul protocollo di sicurezza durante i suoi viaggi, infine, Papa Francesco spiega: “Io sono grato ai Gendarmi e alle Guardie Svizzere per essersi adattati al mio stile. Non riesco a muovermi nelle macchine blindate o nella papamobile con i vetri antiproiettile chiusi. Comprendo benissimo le esigenze di sicurezza e sono grato a quanti, con dedizione e molta, davvero molta fatica durante i viaggi mi sono vicini e vigilano. Però un vescovo è un pastore, un padre, non ci possono essere troppe barriere tra lui e la gente”.
Perciò il Pontefice argentino ha detto fin dall’inizio che avrebbe viaggiato “soltanto se mi fosse stato sempre possibile il contatto con le persone”. Non si dimentica la “apprensione durante il primo viaggio a Rio de Janeiro”, ma – rammenta – “ho percorso tante volte il lungomare di Copacabana con la papamobile aperta, salutando i giovani, fermandomi con loro, abbracciarli. Non c’è stato un incidente in tutta Rio de Janeiro, in quei giorni. Bisogna fidarsi e affidarsi. Sono consapevole dei rischi che si possono correre. Devo dire che, forse sarò incosciente, non ho timori per la mia persona. Ma sono invece sempre preoccupato per l’incolumità di chi viaggia con me e soprattutto della gente che incontro nei vari Paesi”. “Quello che mi impensierisce sono i rischi concreti, le minacce per chi viene e partecipa a una celebrazione o a un incontro. C’è sempre il pericolo di un gesto inconsulto da parte di qualche pazzo”. In ogni caso, conclude il Santo Padre, “c’è sempre il Signore”.