© Patriarcato Latino di Gerusalemme

Mons. Pizzaballa: “Sapremo dare una risposta alla sete di giustizia e di dignità?”

L’amministratore apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme celebra la messa di Natale nella basilica della Natività

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Riportiamo di seguito l’omelia di monsignor Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme, in occasione della messa di Natale alla Basilica della Natività a Betlemme.
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“Ecco: il Signore è alle porte!” (cfr Gc 5, 9).
Natale è l’ingresso del Figlio di Dio nel mondo: Cristo entra nel mondo, viene tra la sua gente. E davanti a Lui è tutto un aprirsi e chiudersi di porte. All’indomani del Giubileo della misericordia, possiamo leggere il Natale come la porta che Dio mantiene aperta per uscire verso l’uomo e invitarlo ad entrare nella comunione con lui.
Si apre a Natale innanzitutto la Porta di Dio, da cui esce il Figlio, l’Emmanuele Dio-con-noi. Si aprono i cieli: dalla nascita fino al battesimo del Signore è tutto un aprirsi delle porte del cielo da cui gli angeli escono e tornano, annunciando e preparando la venuta dello Spirito. Soprattutto si apre il cuore divino ed umano del Figlio: “Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo- poiché di me sta scritto nel rotolo del libro -per fare, o Dio, la tua volontà. (Ebr 10, 5-7). Cristo spalanca le porte della sua vita fino a dire “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9). Egli è in persona “la porta del Signore, per essa entrano i giusti” (Sal 118,20).
Alla Porta aperta di Dio corrispondono le porte aperte degli uomini e delle donne disponibili a farlo entrare: il cuore di Maria e di Giuseppe, con un sì senza pentimenti; le porte della casa di Elisabetta e di Zaccaria; il cammino generoso dei pastori e dei Magi, di Simeone e di Anna…
Ma ci sono anche porte che si chiudono: “venne tra la sua gente, ma i suoi non lo hanno accolto (Gv 1, 11). Si chiudono il cuore di Erode, le case di chi non ha posto per lui, la vita di chi ha già i suoi beni da difendere, i suoi progetti da realizzare, le sue idee da imporre.
Mi piace questa immagine della porta: essa evoca, richiama, invita a correre il rischio della libertà che si apre o si chiude e così rende possibile o impossibile la pace che attendiamo, l’incontro che salva. Il Natale di Cristo e dei cristiani, infatti, non è la festa magica o sentimentale da viversi rinchiusi nelle proprie case, sicuri dei propri recinti personali, familiari o sociali. Non è il godimento, tanto privato quanto autonomo e indifferente, di una evasione dalla realtà faticosa del quotidiano, una parentesi colorata e scintillante dentro una vita troppo grigia.
Natale è l’annuncio di una salvezza che attende di essere accolta per realizzarsi. Come Maria dopo l’annuncio dell’angelo, come Giuseppe dopo il sogno celeste, come i Pastori dopo il canto degli angeli, come i Magi dopo aver visto la stella, anche noi siamo invitati a metterci in cammino, a deciderci per l’impegno, ad uscire dalle nostre pigrizie e dai nostri ragionamenti per andare fino a Betlemme, per entrare nel nuovo spazio di vita e di pace, il Regno che Cristo viene a inaugurare. La porta è aperta, la nostra libertà è invitata.
So bene che siamo tutti vittime di un sempre crescente senso di insicurezza e di diffidenza. Speranze di pace troppo spesso deluse, violenze a attentati ricorrenti, parole tanto retoriche quanto inefficaci ci spingono a trincerarci, a blindare le porte, a porre sistemi di vigilanza, a fuggire lontano piuttosto che restare resistendo nella fiducia e nella speranza.
Temiamo l’estraneo che bussa all’uscio della nostra casa e ai confini dei nostri paesi. Le porte chiuse, i confini difesi, prima che scelte personali e politiche, sono una metafora della paura che genera inevitabilmente le dinamiche violente del momento presente. Siamo impauriti da quello che succede nel mondo, con le nostre speranze che qui come in troppi paesi del mondo naufragano in mezzo alla corruzione, all’impero del denaro, alla violenza settaria, alla paura: in Siria, Iraq, Egitto, Giordania. Ma anche nella nostra Terra Santa continua a salire la sete di giustizia e dignità, di verità e amore vero. Continuiamo, infatti, a rifiutarci e a negarci vicendevolmente, vivendo e pensando come se ci fossimo solo noi e non ci fosse posto per l’altro. “Non c’era posto per loro nell’alloggio” (7).
Le nostre paure determinano le nostre scelte e i nostri orientamenti. Siamo stanchi e disorientati da quanto accade attorno a noi e non riusciamo a trovare l’orientamento per il nostro cammino. Non troviamo una stella che ci guida.
Non si tratta solamente di un dato sociologico, è piuttosto un fenomeno esistenziale, una “psicologia del nemico” che fatalmente si trasforma in ideologia, generando uno stile di vita aggressivo, un modo conflittuale di porsi di fronte agli altri, senza speranza per il futuro. Dalle porte di casa fino ai confini degli stati, è tutto un chiudersi, nella paura e nella diffidenza, nell’esclusione e nella guerra. Ci sentiamo tutti esclusi, bloccati, separati.
Il Natale, invece, racconta di una gioia e di una pace che giungono se avremo la buona volontà di aprire le porte; se condivideremo la buona volontà di Dio che apre anziché chiudere, dona anziché prendere, perdona anziché vendicarsi. Possiamo passare dalla ideologia del nemico alla logica della fraternità, mossi da un Dio che ha avuto fiducia nell’uomo prima ancora che noi avessimo fiducia in Lui. Se Dio non ha avuto paura né disprezzo per l’uomo (“non horruisti Virginis uterum” “non hai avuto paura di farti uomo” canta un antico inno della Chiesa), possiamo anche noi imparare la fiducia coraggiosa che apre all’altro le porte del dialogo e dell’incontro. Salvezza e pace, incontro e concordia sono, infatti, una grazia da invocare da Colui che acclamiamo proprio in questa notte santa Principe della pace. Ma diventano autentiche e reali se accolte e realizzate da mani e da cuori che si aprono e si decidono per nuove mentalità, nuovi comportamenti, nuovi progetti, coraggiosamente e generosamente, come coraggioso e generoso è stato Cristo quando è venuto a condividere la nostra vita donandoci la Sua.
In questa nostra terra e in questo nostro mondo, dove tanti parlano di pace e di vita ma pochi si decidono a varcare la soglia dell’impegno e della decisione, il Natale ripete l’invito ad aprire le porte a Cristo, che vuole farsi conoscere, e all’uomo. Attraverso i riti e le preghiere di questa santa notte, il Padre, in Cristo suo Figlio, esce ancora incontro all’uomo per chiedergli: dove sei? (cfr Gen 3,9) e a invitarlo a entrare nella casa della fraternità.
Varcheremo la soglia? Non è uno slogan a effetto. È un invito rivolto all’uomo e alla società, alla politica e alla economia, ai poveri e ai potenti di questo mondo: usciremo dalle nostre chiusure, apriremo la porta dei nostri giudizi e pregiudizi e andremo incontro a Colui che ci chiama? Andremo fino a Betlemme per iniziare un nuovo cammino o resteremo chiusi nei nostri palazzi a conservare il nostro potere, a difendere i nostri interessi, pronti anche a escludere l’altro pur di mantenere le nostre posizioni? Sapremo dare, guardando a quel Bambino, una risposta alla sete di giustizia e di dignità, al desiderio di amore e fraternità, al bisogno di incontro o ci affideremo ancora alle nostre strategie politiche o militari dal corto respiro?
Avremo il coraggio di lasciarci provocare da quel Bambino, mettendo da parte interessi particolari, e guardare all’altro come ad un fratello, nella piena libertà dei figli di Dio, spogliandoci di ogni violenza, sopraffazione e alterigia?
La risposta non è scritta nelle stelle ma nelle nostre scelte libere e responsabili. E mentre guardiamo a Cristo bambino, Porta aperta del Padre che nessun rifiuto può chiudere, si riaccende la fiducia e si rianima la speranza e ancora cantiamo: Tu sei la nostra speranza: non saremo delusi!
 

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ZENIT Staff

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