Un protagonista che, nella sua attività, ricorda la piccola fiammiferaia di anderseniana memoria. Milano, 1988: Youssou, 27 anni, viene dal Senegal e sbarca il lunario nella grande metropoli come venditore di accendini. Li vende a mille lire l’uno, tanto quanto costa un sacco di riso nel suo paese. Non abituato al gran freddo del Nord Italia, talora è costretto ad usare proprio un accendino per scaldarsi. E intanto scrive lettere alla moglie e ai figli rimasti in Africa. Missive cariche di sofferenza e speranza. Con la certezza che “nessun sentiero porta ad un albero senza frutto”.
È un’opera atipica il primo romanzo di Francesca Fialdini. Attinge a una forma letteraria antichissima, l’epistolario, ben diffusa già tra i nostri antenati latini. Sono vicende di fantasia ma ispirate a una storia vera, quelle raccontate dalla giornalista e conduttrice Rai di Uno Mattina, nel suo Il sogno di un venditore di accendini (Città Nuova, 2016).
Il primo romanzo di Francesca Fialdini è dotato di una “prosa scintillante e profonda”, che fa sentire profondamente vera ogni cosa, anche il profumo del pesce nei lidi dove transita il protagonista, ha dichiarato lo scrittore e conduttore televisivo Umberto Broccoli durante la presentazione del volume avvenuta mercoledì scorso alla libreria Mondadori Bookstore di Roma.
Il sogno di un venditore di accendini è una favola moderna, diventata realtà. Vi si narra l’emancipazione di una famiglia venuta dal Sud del mondo, che ha avuto la volontà e la fortuna di conoscere l’integrazione nel senso più vero del termine, grazie all’incontro con persone accoglienti e volenterose. Poi, molti anni dopo, il figlio di Youssou (Alì nella realtà) è diventato il primo avvocato dell’ordine forense della Lombardia e ha fondato una onlus per aiutare lo sviluppo nel suo paese d’origine, mentre la figlia si è laureata in ingegneria e oggi sta lavorando per l’ampliamento della metropolitana milanese.
Nella sua opera prima, la Fialdini raccoglie e vince la sfida che è al nucleo della narrativa di ogni tempo: scorgere la tenerezza, la meraviglia anche nell’asprezza e nella desolazione della vita. Il fiore che sboccia nel cemento. Si immedesima nello stupore del protagonista il giorno in cui, per la prima volta, vede la neve, un fenomeno di cui nessuno gli aveva nemmeno mai parlato. Nella sua scrittura, l’autrice mostra tutta la sua empatia, una dote, senza la quale, “non è possibile raccontare nulla”, come lei stessa afferma, sulla scia di quanto diceva il grande reporter polacco Ryszard Kapunscinski.
Nella vicenda di Youssou della sua famiglia, c’è tutta la dignità del suo popolo e delle sue tradizioni. Nella cultura senegalese regna una mentalità solidaristica, dove le famiglie si aiutano tra loro ed è spiccato il senso dell’onore e della gratitudine, della restituzione del bene ricevuto.
Di religione musulmana, Youssou e i suoi cari hanno sempre intrattenuto buoni rapporti con la comunità cattolica ambrosiana, al punto che il figlio Abdu (Modou nel libro) ricorda volentieri una frase pronunciata negli anni ‘80 dall’allora arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini: “Chi è orfano nelle cose dei diritti, difficilmente diventerà figlio nelle cose dei doveri”.
Il sogno di un venditore di accendini riporta indietro la storia italiana di trent’anni, quando l’immigrazione era un fenomeno agli albori, del tutto imprevisto e imprevedibile. Un’epoca in cui non esistevano Internet – né tantomeno Whatsup, Skype, Facebook, Instagram e altri strumenti di comunicazione in tempo reale – e la lettera di carta era ancora l’unico strumento a disposizione degli extracomunitari per mettersi in contatto con il proprio paese. E in qualche passaggio emerge l’inquietudine di Yossou, quando la moglie tarderà nella risposta.
A Yossou pesa il suo stato di clandestino. È un disonore per lui esserlo. “Mi sento come un ladro – scrive alla moglie -. Ma tu sai che non lo sono e con l’aiuto di Dio ce la faremo a costruire una casa in questa terra. Tu, io e i nostri figli”.
Le descrizioni dell’asprezza della vita milanese si alternano alla dolcezza dei ricordi del Senegal, dei momenti più lieti della vita di coppia di Youssou e Fatima.
Davanti al mare, il protagonista si culla nei suoi pensieri e con questi si addormenta: “Sono un uomo. Come questi italiani che si riposano al mare. Più o meno quanto i loro figli che un domani scriveranno i destini di questa Italia e che oggi mi inseguono deridendomi alle spalle […]. Sono un uomo e un padre, che ha due figli bellissimi, a cui regalerò il futuro migliore che posso perché un domani scrivano con gli altri il destino di questa Italia, senza ridere di nessuno”.
L’ultima delle lettere è affidata al giovane Modou che durante un breve soggiorno in Senegal, riflette sul suo passato e su quello che è diventato. E rievocando il giorno della sua laurea, in cui idealmente guarda negli occhi papà Youssou e realizza che “se ce l’avevo fatta è perché lui, quando ha freddo, si scalda ancora le mani con un accendino”.
Youssou e i suoi figli: quando i sogni diventano realtà
In forma di romanzo epistolare, Francesca Fialdini racconta una storia a lieto fine di immigrazione e integrazione