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Tra Hillary e Donald: le difficili scelte della democrazia

Stati Uniti, dove il potere delle lobbies limita la reale rappresentanza popolare

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Le elezioni americane sono sempre una buona occasione per riflettere sul significato che la democrazia ha assunto in quella che molti ritengono essere la società più avanzata del mondo che, posto il suo indubbio ruolo egemone, non può che costituire un punto di riferimento e per ciò stesso di analisi.
Bene, a farci riflettere appunto sul cosa sia oggi la democrazia, sono in particolare due comuni osservazioni, una relativa alla costante bassa affluenza alle urne, per cui in definitiva per le elezioni presidenziali americane la percentuale dei votanti si attesta intorno al 50% degli aventi diritto e, lo scarto di preferenze che, alla fine della contesa elettorale, l’eletto può vantare rispetto all’altro.
Vediamo il primo aspetto, concentrando la nostra attenzione poi sul secondo aspetto della questione che, a parere di chi scrive non risulta essere stato sufficientemente scandagliato. Sulla scarsa affluenza alle urne c’è una abbondantissima letteratura. Non mancano i commentatori che sottolineano come la scarsa affluenza alle urne non deve essere interpretata come disaffezione del cittadino alla politica ed alla partecipazione ma, essa sia la conseguenza di una democrazia oramai matura, che trova molte altre forme le forme di partecipazione alla vita politica non si esaurisce affatto nel voto. La democrazia, infatti, secondo tali politologi vede nella elezione dei sui rappresentanti solo una delle sue possibili manifestazioni.
Tuttavia, mi pare di poter sicuramente osservare che se alla bassa affluenza al voto per il rinnovo delle assemblee elettive si aggiunge la considerazione che molto spesso la vittoria di un candidato rispetto all’altro corre sul filo del rasoio non sia più possibile ritenere la bassa affluenza alle urne come la conseguenza di una democrazia matura. Anzi.
Traggo lo spunto da un ricordo degli studi universitari, in particolare dall’analisi degli errori su cui il mio docente di statistica, il compianto Prof. Tranquilli, ordinario all’Università di Roma nel lontano 1983, tanto insisteva. Ma che c’entrano, vi domanderete, legittimamente, i ricordi degli studi universitari di statistica con le elezioni americane ed ancora più con la democrazia? Purtroppo, le considerazioni che seguono non possono lasciare indifferente quando la vittoria riguarda il Presidente degli Stati Uniti d’America e tale vittoria è al fotofinish. I destini di troppe persone sono infatti messi nelle mani di troppi pochi individui per poter far finta di nulla.
Dopo avervi rassicurati sull’obiettivo del ragionamento, passiamo ad affrontare la questione. E’ noto che ogni conteggio comporta un errore; tutti ne abbiamo l’esperienza e per questa ragione molto spesso contiamo e ricontiamo più volte. Sappiamo pure che, per quante cautele ci mettiamo, non sempre siamo in gradi di fare calcoli corretti, tanto più quanto il numero di calcoli e dei conteggi da fare è grande. Nelle spoglio delle schede elettorali – fosse esso anche conteggio elettronico – c’è un problema in più: i conti si fanno una volta sola ed in un tempo estremamente contenuto. Chiarito questo, andiamo oltre.  La statistica ci insegna comunque a gestire gli errori, calcolarli ed in un certo senso a dominarli. Eccoci arrivati al punto.
Nel caso di un calcolo, diciamo di preferenze tra due candidati, il margine statistico che permetterebbe ad uno dei due contendenti di essere sicuro di aver vinto è ricavabile da una semplice formula.  Quale ? Senza soffermarmi troppo sulla dimostrazione, in realtà non difficile ma certamente problematica da fare in questo contesto, la butto lì confidando nella vostra fiducia. La radice quadrata della somma dei votanti, rappresenta, in termini statistici il numero dei voti discutibili. Chiarisco meglio con un esempio. Se votano  100  persone, i voti dubbi sono appunto 10, ovvero, la radice quadrata di 100.
Ciò posto, ne risulta che (statisticamente) una elezione è certa quando la differenza dei voti tra i due candidati sia pari superiore alla radice quadrata della somma di voti. Viceversa, il candidano non dovrebbe mai poter essere dichiarato eletto.
Ciò premesso, se andiamo a vedere i voti attribuiti ai candidati americani nelle varie elezioni presidenziali e anche quelle degli ultimi anni, qualche dubbio ci viene sul fatto che si potesse con certezza assoluta dichiarare eletto uno o più Presidenti. Dunque potremmo trovare importanti elezioni a dir poco discutibili e quindi, secondo la statistica, da annullare.
Ritornando al nostro discorso di partenza, l’attuale sfida vede i candidati alla sedia Presidenziale sfidarsi in una campagna elettorale piena di colpi bassi, con uno dei contendenti accusato addirittura di essere complice con la Russia di Putin. Nella sostanza, la Clinton più orientata ad affermare il ruolo egemone degli USA, con un rafforzato impegno anche bellico nei punti caldi del pianeta e, Trump che, invece, vuole un Paese impegnato a risolvere i conflitti interni.
Bene, riassumendo: enorme numero degli elettori americani che disertano il voto, grande quantità di voti nulli o contestati in ogni elezione e, infine, le “verità” della matematica sopra evidenziate.  Viene più un dubbio.
Anche in questa elezione, ipotizzando un quorum di votanti ed uno scarto medio tra i voti dei due contendenti in linea con quelli passati, sia che vinca Donald Trump o Hillary Clinton, avremo un potere debole per deficit di rappresentanza? Se la risposta fosse positiva – come credo sia – prima immediata conseguenza, sarebbe quella che lobbies presenti nel Paese saranno capaci di mobilitarsi nei confronti del vincitore e di sterilizzare, senza particolari problemi, le eventuali iniziative mirate ad intaccare il loro potere, sterilizzando il sistema e delegittimando la volontà popolare.  Troppi dubbi, per poter parlare di una reale rappresentanza popolare.

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Enea Franza

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