Tre tracce mariane per la pastorale della salute

Sofferenza e dolore nell’ottica della Madre di Dio: il camilliano Arnaldo Pangrazzi e don Carmine Arice (Cei) intervengono al convegno nazionale Aipas di Assisi

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Il dolore ha tanti volti quante sono le persone. Ogni storia, dalla culla alla tomba, è una biblioteca delle sofferenze vissute, subite, procurate… Padre Arnaldo Pangrazzi, teologo camilliano, ha aperto la seconda giornata del convegno nazionale Aipas di Santa Maria degli Angeli ragionando su dolore e sofferenza, che “sono legati tra loro, ma non sinonimi”.
Un’analisi approfondita, che proviene dall’esperienza lunghissima di questo religioso, il quale tiene corsi di aiuto a superare il dolore e il lutto, e secondo cui, come ha spiegato ieri, “il dolore non è materia di confronto con quello di altri, in base alla sua gravità o intensità, mentre la sofferenza rende egoisti e restringe gli orizzonti, per cui il dolore più grande, per molti, è quello che li colpisce o li affligge” ma proprio per questo “la presenza della sofferenza è anche un appello rivolto all’intera comunità umana e cristiana a testimoniare l’ascolto e la solidarietà: è una sfida e una missione a renderla un luogo di fecondità umana e spirituale, sull’esempio di Cristo”.
Il modello indicato dall’Associazione di Pastorale Sanitaria per approcciare la sofferenza umana in quest’anno giubilare è Maria misericordiosa e oggi, don Carmine Arice, direttore dell’ufficio di pastorale della salute della Cei, ha indicato tre tracce mariane sulla strada segnata da Papa Francesco con l’Evangelii Gaudium. La prima è la fede di Maria “e di conseguenza la nostra fede, condizione necessaria per un operatore pastorale se non vuol ridurre il suo servizio a mera filantropia. Oggi viviamo in un contesto secolarizzato nel quale non sempre possiamo evangelizzare parlando di Dio; ma questo non impedisce di essere testimoni di una fede che ci abita, della carità di Cristo che ci possiede e ci spinge ad amare offrendo un servizio animati dallo Spirito Santo, vita di Dio in noi, che divinizza e santifica”, ha detto Arice.
Donna credente (Lc 1,26-38), Maria testimonia la sua fede in obbedienza alla Parola di Dio “anche quando non comprende tutto e questo non è stato facile nemmeno per lei; anche la sua fede è cresciuta e maturata nel tempo. Nella pastorale della salute questo dato è prezioso anche se spesso dimenticato, facendo di Maria (e dei santi in genere), persone che hanno raggiunto la beata stabilità nell’esperienza di fede fin dall’inizio del loro percorso. In questo modo la loro vita non dice più nulla a noi povere creature e soprattutto a chi sta passando le notti di una prova dolorosa”, ha commentato.
La seconda traccia mariana è Maria donna del cammino (Lc 1,39), pellegrina itinerante. “Tutt’altro che bigotta di sacrestia, Maria è una donna in uscita. La conversione pastorale a cui ci richiama con tanta insistenza papa Francesco ha il suo fulcro centrale proprio nell’essere una Chiesa in uscita, non solo nella sua forma istituzionale ma anche nella individualità di ciascun credente”, ha sottolineato il sacerdote indicando le periferie esistenziali che divengono l’obiettivo di questa missionarietà e i cui abitanti “sono scomodi, ma non sono categorie, non sono numeri, sono volti!”. Anche in campo sanitario, ha aggiunto, “se il mondo cambia, deve cambiare anche la nostra pastorale”.
Terza traccia, una presenza di cura: “Il luogo nel quale certamente il prendersi cura di Maria ha raggiunto il vertice è stato il Calvario. Stabat mater dolorosa, desolata e impotente, dritta ai piedi della croce ad assistere all’esperienza più tremenda che una creatura umana possa vivere: la morte del Figlio. Maria rimane e non fugge; rimane a sostenere l’insostenibile senza ribellarsi nemmeno allo scambio, invitata a prendersi cura di un altro figlio che non è suo Figlio, in un distacco vorticoso da ogni attaccamento umano, per amore della Chiesa nascente. Gli evangelisti non ci riportano nessuna parola di Maria ai piedi della croce e il suo silenzio dice molto alla pastorale della salute talvolta preoccupata di chiacchierare di Dio, di difenderlo, di spiegare l’inspiegabile. Per effondere la vicinanza dell’amore di Dio ai malati non occorre sempre parlare. Ciò che è più importante è stare. Sono convinto che il ministero della consolazione non si esprime anzitutto con le parole ma con una presenza fedele, quotidiana, gratuita accanto alla solitudine radicale nella quale getta ogni dolore umano. Una pastorale trionfalistica, ammalata di successi, bramosa di riempire piazze e stadi, qualora ne fossimo capaci, piena di parole e di rumore, non è per coloro che hanno bisogno di samaritani capaci di stare dritti ai piedi della croce degli uomini, impotenti come loro ma fedelmente presenti fino alla fine”.
 

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Paolo Accomo

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