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L’Italia dell’inverno demografico sarà salvata dai cattolici?

Il punto di domanda lo offre l’ex segretario del Psi Ugo Intini, che nel suo libro “Lotta di classi tra giovani e vecchi?” presenta una cruda analisi della denatalità italiana

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“L’epicentro della rivoluzione è l’Europa (…). Un epicentro per l’Europa è l’Italia: uno dei Paesi più vecchi del pianeta. Almeno in questo, siamo alla guida di una rivoluzione mondiale”. La tagliente considerazione è di Ugo Intini, esponente di punta del socialismo riformista italiano ed oggi proficuo saggista, nel suo ultimo libro “Lotta di classi tra giovani e vecchi?” (ed. Ponte Sisto, 2016).
Il profilarsi di uno scontro tra generazioni emerge dalle cifre che vengono snocciolate riguardo al forte calo della natalità. Se nel 1862, praticamente all’indomani dell’Unità d’Italia, i bambini e i ragazzi fino ai 15 anni erano il 34,2% della popolazione e gli anziani oltre i 65 erano il 4,1%, nel 2015 la piramide si è capovolta. Gli anziani sono aumentati di oltre 5 volte (21,7%), mentre i giovani e i bambini sono diminuiti di circa due volte e mezzo (13,8%).
Intervistato da ZENIT, Intini avverte che nel 2030 gli ultrasessantenni saranno la metà della popolazione. “Prevedere cosa ci aspetta nell’immediato futuro non è dunque fantascienza”, chiosa l’ex portavoce di Craxi.
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On. Intini, cosa sarà del sistema pensionistico e sanitario di fronte all’onda d’urto di questo aumento della popolazione anziana?
Gli effetti si stanno già vedendo. Oggi le pensioni in Italia impegnano risorse quattro volte superiori a quelle dedicate all’istruzione, e il doppio di quelle per la sanità (il cui bilancio per altro è assorbito per il 50% dall’assistenza sanitaria destinata agli anziani). Un tempo avveniva l’esatto contrario, eravamo rivolti verso l’avvenire. Nel 1901, la scuola pesava infatti sette volte più delle pensioni e nel 1951 le due spese si equivalevano. Purtroppo – come è inevitabile in questa situazione demografica – ci occupiamo del passato e trascuriamo il futuro. D’altronde se nel 1951 gli ultraottantenni erano l’1,07% della popolazione italiana, oggi sono il 6,54. I neonati erano l’1,74%, oggi sono lo 0,82.
La “lotta di classi” tra giovani e vecchi sarà quindi inevitabile?
In fondo in Italia la si prefigura già. Questa insistenza sulla “rottamazione” da parte di giovani classi dirigenti nonché questo arroccamento egoistico sulle proprie posizioni da parte delle vecchie classi dirigenti sono già un segno di un conflitto generazionale. Lo scontro tra i giovani, che richiedono investimenti sul futuro, e i vecchi, che difendono le loro pensioni, è un evidente segno dei tempi.
Oltre ai problemi di previdenza sociale, quali altre conseguenze scaturiscono da una società più anziana?
Una società più anziana non è mai stata un motore dello sviluppo, per una serie di ragioni. Perché ha scarsa attenzione per gli investimenti nel lungo termine. Perché ha una scarsa capacità di innovazione. Perché è poco propensa al rischio: preferisce il risparmio agli investimenti. La crisi economica che oggi viviamo trae origine principalmente da questo invecchiamento della popolazione. Come si fa a non vedere che la stagnazione decennale ad esempio dell’Italia ne è una conseguenza. Non c’è sviluppo se non crescono i consumi. Ma una società di anziani è normale che consumi meno. Le maggiori spese vengono destinate alla sanità, che sono quelle che infatti gravano sulle finanze pubbliche. E intanto l’istruzione ne risente: si stenta a prendere consapevolezza, infatti, che i giovani italiani sono tra i meno istruiti in assoluto. Lo testimonia il fatto che l’Italia è ultima tra i Paesi Ocse per numero di laureati.
Nel libro scrive che “la slavina che ha prodotto il capovolgimento della piramide demografica si è mossa lentamente per decenni”. E allora perché la politica non se n’è occupata prima?
Quel poco di politica che è rimasto, non ancora inghiottito dall’economia, si occupa dei problemi a brevissima scadenza. Da decenni non abbiamo una classe dirigente in grado di progettare il futuro e di guardare lontano, per il semplice motivo che le loro mosse sono condizionate dai sondaggi, da quello che desidera l’opinione pubblica nell’immediato. Ecco allora che la politica vive del giorno per giorno e finisce per disinteressarsi di questi problemi, benché siano vitali.
Prima o poi, tuttavia, con gli effetti più catastrofici del calo demografico bisognerà farci i conti…
Arriverà un momento in cui questo grande problema epocale, dalle conseguenze terribili, dovrà essere affrontato. E le soluzioni possibili sono due. Prima soluzione: la politica si prende le proprie responsabilità e decide di investire denaro per un intervento serio, incisivo, capace di invertire la piramide demografica. Seconda soluzione: si accetta un’immigrazione di massa. In questo secondo caso, tuttavia, sarebbe opportuno prendere esempio dagli Stati Uniti di qualche decennio fa, che sceglievano immigrati qualificati e in base alle necessità lavorative, non se li facevano imporre dal caso.
L’Europa, che nel 1900 rappresentava oltre un quarto dell’umanità, nel 2050 ospiterà il 5% degli abitanti della Terra. Lei è stato anche viceministro degli Esteri: è possibile prevedere delle conseguenze su scala geopolitica di questo ridimensionamento numerico degli europei?
Il fatturato e il numero di abitanti di un Continente non sono gli unici criteri per valutarne il peso geopolitico. È chiaro però che l’invecchiamento della popolazione richiede scelte importanti da parte di ogni singolo Stato. Un Paese europeo, per quanto importante come ad esempio la Germania, non conterà nulla se non sarà parte di una comunità, appunto l’Unione Europea, che abbia le caratteristiche di uno Stato federale. Quindi o l’Europa sarà politicamente unita oppure gli europei non conteranno assolutamente nulla.
Nella prefazione del suo libro, il sociologo Giuseppe De Rita rileva che questa tendenza demografica darà vita a un “neoguelfismo”. A cosa si riferisce?
Secondo De Rita, la prospettiva dell’Italia è quella appunto “neoguelfa”, in cui la politica si occuperà dell’ordinaria amministrazione, delle realtà locali, mentre ad occuparsi delle grandi questioni ci penserà la Chiesa. E lo sostiene, De Rita, pur registrando che l’attuale Papa non è affatto interventista in questo campo. Del resto, aggiungo io, più la politica diventa pedissequa e priva di cultura, più aumenta la necessità che il vuoto venga riempito da altre istituzioni. E la Chiesa è ancora capace di parlare sui grandi temi. Riguardo alla natalità la Chiesa è molto impegnata, è il primo dei suoi obiettivi in ambito sociale.

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Federico Cenci

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