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Maria Fida Moro: "Mio padre, ucciso dal 'potere'"

Nel centenario della nascita di Aldo Moro, la primogenita dello statista parla dei punti oscuri di questo grande mistero italiano ed anche del processo di beatificazione in corso

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Era a due passi da Via Fani la mattina del 16 marzo 1978. Quella data impressa nella memoria di ogni italiano come un tornante decisivo della storia del Paese, rappresenta per lei lo spartiacque tra un prima e un dopo, tra una vita quasi normale e l’ingresso in un vortice di sofferenza.
Lei è Maria Fida, primogenita del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. La mattina in cui suo padre fu sequestrato e gli uomini della sua scorta massacrati da raffiche di mitra, lei si trovava nell’appartamento dei genitori, vicina al luogo del misfatto. Era accorsa, come assalita da un presentimento, a riprendersi suo figlio Luca, di due anni, che in quei giorni stava dormendo dai nonni e spesso usciva di casa tra le braccia di Aldo Moro.
Voce energica malgrado una salute totalmente precaria, Maria Fida Moro non ha intenzione di smettere di parlare di quanto accaduto a suo padre. E lo fa con un piglio di denuncia, ma anche con una dose importante di dolcezza di figlia e di madre. Nel centenario della nascita di Aldo Moro, parla a ZENIT dei punti oscuri di quella vicenda, delle strumentalizzazioni, della causa di beatificazione in corso e del legame inscindibile tra suo padre Aldo e suo figlio Luca.
***
Sig.ra Maria Fida, ha mai pensato durante i 55 giorni di prigionia che suo padre potesse essere salvato?
In qualche momento l’ho pensato, finché a un certo punto ho percepito che non sarebbe potuto accadere.
E cosa gliel’ha fatto percepire?
Semplicemente il succedersi degli eventi.
A proposito degli eventi occorsi intorno al caso Moro, ne emergono di particolari dalla Commissione bicamerale d’inchiesta. Ce n’è qualcuno che l’ha particolarmente colpita e che secondo Lei meriterebbe maggiore eco mediatica?
Tutto il lavoro della seconda Commissione d’inchiesta sul caso Moro meriterebbe e merita una considerazione mediatica che oggi è quasi nulla.
Quali fatti in particolare?
Non è mio compito raccontare fatti che sono agli atti. È solo che c’è un soffuso desiderio da parte di molti di mettere a tacere definitivamente il caso Moro. Lo testimonia, tra l’altro, questo silenzio stampa sul lavoro della Commissione.
Lei ha detto che suo padre è stato ucciso dal “potere” e che quello stesso “potere” lo ucciderebbe ancora oggi, se fosse in vita. A quali organismi si riferisce quando usa il termine “potere”?
Quando uso il termine “potere” mi riferisco al male, che combatte il bene non solo per ragioni di comodo o di utilità, ma anche per il solo gusto di distruggere il bene.
Fanno parte di questo “potere” che Lei identifica nel male anche i brigatisti?
Chi si fa strumento del male diventa male a sua volta. Quando parlo di “potere”, tuttavia, mi riferisco a una volontà malefica molto forte che si insinua nelle coscienze e nelle azioni delle nazioni e dei singoli.
Se i brigatisti erano uno “strumento del male”, erano allora delle pedine…
Io penso che siamo pedine tutti quanti, nella misura in cui per omissione vediamo tanta ingiustizia e non facciamo nulla per sanarla. Invece in qualche misura, ogni essere umano ha il dovere come individuo e collettivamente di fronteggiare il male. Le faccio un esempio d’attualità…
Prego.
I tg ci aggiornano costantemente sulla sorte dei bambini siriani, costretti a vivere sotto bombardamenti che non risparmiano niente e nessuno, compresi gli ospedali. Si tratta di innumerevoli persone. E noi, che pure siamo italiani e facilmente commuovibili, lasciamo che queste vicende ci scorrano addosso come acqua. Mentre, se succede un fatto pur tragico qui da noi, ci sconvolgiamo. Dovremmo reagire nella stessa maniera in ogni caso dinanzi a fatti terribili. Noi come umanità siamo “uno”, ci riguarda tutto ciò che accade nel mondo. Non è che se qualcosa avviene a tanti chilometri di distanza, allora non deve riguardarci.
L’uccisione di suo padre ha giovato a qualcuno?
Certo. Moltissimo. A più di qualcuno.
Può indicare qualche fatto che lo dimostri?
Dico solo che l’Europa sembra aver smesso di svolgere il suo autentico ruolo in ambito geopolitico. L’Europa di Moro era equidistante tra i due blocchi di potere internazionali di allora. Secondo me quel progetto di Europa è morto insieme a mio padre.
A proposito di giovamenti, ritiene che qualcuno oggi stia speculando sulla morte di Aldo Moro?
Sì, assolutamente. Esiste una sorta di gruppo, non minoritario, a cui non solo non importa nulla della morte di mio padre, anzi ne gioisce, ma addirittura questo gruppo strumentalizza quella vicenda per fare affari, per apparire, per mistificare la verità. Questo gruppo è molto ben accetto da quel “potere” di cui ho parlato prima, così come è ben accetto chiunque inneggi alla morte di Aldo Moro. Mentre quei pochi che parlano in favore della verità sono silenziati.
Dopo 38 anni c’è ancora chi inneggia alla morte di Aldo Moro? Perché?
Perché mio padre è ancora scomodo. Un’idea, se giusta e rivoluzionaria, infastidisce chi ha come progetto il dolore del mondo e la massificazione dell’intera umanità.
Che Italia sarebbe se Aldo Moro fosse stato salvato?
(Fa un sorriso amaro). Non sarebbe questa Italia. Sarebbe un’Italia europeista, solidale, in crescita, beneducata, non degradata e non povera di ideali, di pensieri e di gioia. Sarebbe ancora bello riconoscersi in questo Paese.
Il 23 settembre è stato il centenario della nascita di Aldo Moro. Ci sono state celebrazioni istituzionali, per le quali sono stati stanziati anche dei soldi. Lei come ha vissuto quei momenti?
Con tantissimo dolore. Non ho apprezzato il modo in cui mio padre è stato celebrato, per innumerevoli motivi che ho espresso in una lettera indirizzata al capo dello Stato Sergio Mattarella. Voglio solo dire che la cosa migliore che avrebbe potuto fare lo Stato, sarebbe stato usare quei soldi per aiutare i bambini sparsi per il mondo e anche in Italia che ne hanno estremo bisogno. In alternativa, forse avrei preferito un assordante silenzio.
Crede che si potrà arrivare prima o poi alla verità sul caso Moro?
No.
Perché?
Perché questo “potere” è talmente ramificato da raggiungere troppi luoghi e persone, e la gente è troppo noncurante e spaventata per opporsi. Però credo fermamente che, anche se non necessariamente a livello terreno, nello sconfinato spazio dell’eternità trionfa sempre il bene, come credeva papà.
Che valore assume invece la figura di suo figlio Luca in tutta questa vicenda?
Ho sempre detto e lo ribadisco ancora che non esiste alcun erede politico di Aldo Moro, anche perché sarebbe stato molto difficile nonché pericoloso seguire le sue orme. Però posso dire che Luca è l’erede spirituale di quella affabilità dell’anima che contraddistingueva mio padre.
Siamo nell’Anno Santo della Misericordia. Come si declina il concetto di perdono nella sua vita?
Nella prima metà degli anni ottanta sono andata a fare servizio in carcere, su richiesta espressa al giudice Imposimato da alcuni brigatisti che chiedevano il mio perdono. Avevo proposto come progetto educativo di creare un coro, un’attività che insegna a lavorare in gruppo in modo gioioso. Non l’ho fatto accompagnata da cronisti e telecamere, anzi a causa di questa presenza in carcere ho ricevuto minacce di morte, insulti volgari, violenze verbali e non. Quello era perdono, nel senso che mio padre come giurista e come credente mi aveva insegnato. Invece rigetto quella specie di “perdonismo pubblicitario” che è oggi molto di moda.
Dirigeva un coro in carcere, suo figlio Luca è musicista… La musica è un elemento forte nella sua famiglia.
La musica era la connotazione della famiglia Moro fino a che è esistita. Mio padre non cantava e non suonava, ma adorava ascoltare musica. Studiava e lavorava con la musica di sottofondo. Prediligeva quella che facevamo noi cantando e suonando, mia madre aveva insegnato a tutti a cantare ed era il nostro modo di esprimersi. Io conosco migliaia di canti popolari italiani e non solo, è un patrimonio di cui sono immensamente grata a mia madre.
Quindi suo padre apprezzava particolarmente la musica popolare?
Apprezzava in particolare i canti di montagna, quelli di guerra, evidentemente perché ci si riconosceva. Poi amava tantissimo la musica classica tradizionale, ma gli piaceva soprattutto il fatto che fossimo noi a fare musica intorno a lui. Aveva un sorriso beato quando questo accadeva.
Procede la causa di beatificazione di suo padre. Con quali sentimenti sta seguendo l’iter?
Sono in contatto costante con il postulatore, Nicola Giampaolo, che mi tiene informata di tutto. Lo seguo con una speranza placida, perché mio padre è un santo, e non sono io a dirlo. Lo dicono i fatti e le persone che riferiscono miracoli, ma lo afferma su tutto la gente che ci riconosce e si mette a piangere al pensiero di questa bontà di mio padre andata in apparenza perduta.
Se suo padre diventerà beato, che momento sarà per Lei?
Una grande conferma da parte del bene sul male. Una sorta di “rivendicazione sindacale” del bene, un segnale terreno di qualcosa di spirituale e altissimo.

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Federico Cenci

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