Eugenio Corti in Russia

In un libro le lettere dal fronte russo di Eugenio Corti

Il 23 agosto, presso lo Spazio incontri della Libreria del Meeting, appuntamento con Vanda Di Marsciano Corti, moglie di Eugenio, e il curatore del libro “Io ritornerò. Lettere dalla Russia 1942-1943”

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Martedì 23 agosto alle 17 presso lo Spazio incontri della Libreria del Meeting di Rimini (padiglione A3), Vanda Di Marsciano Corti, moglie di Eugenio Corti, e il curatore del libro Io ritornerò. Lettere dalla Russia 1942-1943 (Edizioni Ares), racconteranno la ricerca letteraria di Eugenio Corti a partire dalla sua corrispondenza dal fronte russo.
Nel giugno del 1942 Eugenio Corti partì volontario per il fronte russo. Per vedere in presa diretta i lineamenti dell’“esperimento comunista”, quel misterioso mondo “costruito” in aperta opposizione a Dio.
Dall’esperienza il 21enne sottotenente di artiglieria uscì segnato per sempre. Fu, infatti, tra i pochi a scampare dalla Valle della morte di Arbusov, la sacca ghiacciata in cui morirono migliaia di italiani. Raccontò la tragica avventura ne I più non ritornano, il diario, pubblicato nel 1947 da Garzanti, che presto sarebbe diventato un classico della memorialistica di guerra insieme alle opere di Bedeschi e di Rigoni Stern.
Quei 28 giorni di Odissea nella neve ispirarono anche alcuni dei più celebri passi del Cavallo rosso (su tutti la morte del capitano Grandi circondato dall’abbraccio dei suoi alpini), il capolavoro a cui Corti dedicò undici lunghissimi anni di scrittura solitaria nella sua casa di Besana Brianza.
Il ritrovamento delle lettere dal fronte russo getta nuove luci sull’esperienza del giovane scrittore, che fin dai banchi del liceo era stato conquistato dalla ricerca di verità e di bellezza di Omero.
Da queste missive, sono un centinaio indirizzate in massima parte ai genitori e corredate da splendide foto, trapela una fede profondissima.
Corti si affidò alla Provvidenza fin dalla prima lettera scritta il giorno della partenza della tradotta per il fronte. Era il 9 giugno 1942 e il treno stava per lasciare la stazione di Bologna: “Io parto sereno, allegro anche: ciò che viene dalle mani di Dio dà sempre gioia.
Vorrei che anche voi riusciste a pensarla come me. E ricordatevi: tornerò. Da quanto vi ho detto prima è chiaro che devo tornare: lo sento. Potrò magari essere ferito o esser dato disperso, ma di una cosa voglio che vi ricordiate assolutamente: che tornerò. Sento che Dio mi guida per una strada che Lui solo conosce, ma che è ancora lunga”.
La sua profonda vita interiore si sarebbe rivelata in molti altri passi del carteggio. Il 5 luglio raccontava la sua preparazione alla Messa: si era confessato in piedi nel bosco davanti al Cappellano in divisa da ufficiale. Una scena che gli ricordava l’immagine dei primi cristiani mentre compivano i loro doveri religiosi nelle catacombe o in aperta campagna.
La fede di Corti sapeva materializzarsi in una generosità molto concreta. In lui rimase indelebile l’immagine delle sofferenza dei civili polacchi, «file di bambini e donne che chiedevano il pane»: volle allora devolvere a loro il proprio stipendio militare.
Come leggiamo ne I più non ritornano, la sua fede si accese in modo particolare nel Natale del ’42, agli inizi della ritirata, quando si affidò totalmente alle mani della Madonna: “Siccome non mi fidavo più della mia forza di volontà non ho fatto un voto vero e proprio, ma mi sono impegnato con una promessa: se mi fossi salvato, avrei speso tutta la vita in funzione di quel versetto del Padre nostro che recita: “Venga il tuo Regno””.
Le lettere dalla Russia aprono spiragli sulla limpida anima di Corti, ma fanno anche conoscere gli esordi della sua vocazione di scrittore. Le immagini, i flash, i ricordi che occupano lo spazio di poche righe, anni più tardi diventeranno le ampie narrazioni del Cavallo rosso. Corti annotava ogni cosa: il lungo viaggio nella steppa, l’incontro con i primi morti, le cavalcate nella “terra dei Cosacchi”, la costruzione dei rifugi per l’inverno, il sospirato arrivo della posta sulla linea di combattimento.
All’inizio della corrispondenza Corti si definì poeta.
E lo fu davvero. Basta leggere l’attacco “contemplativo” di una lettera al papà: “Carissimo papà, ti scrivo e mi par di cantare, in questa magnifica mattina di luglio. Umida è ancora la terra di pioggia; bagnati i prati verdissimi che senza confine si stendono all’orizzonte, costellati e profumati di altri fiori gialli, madidi i cespugli del bosco in cui siamo nascosti, questo verde bosco da cui si vedono squarci di cielo meravigliosamente azzurro. Ti scrivo e mi par di cantare.
Ho pensato a te, a voi, a tutti voi ieri sera, mentre attendevo di addormentarmi. Pioveva… Perché bastano piccole cose all’anima, un suono di pioggia che ricordi un altro suono di pioggia uguale, per varcare immense distanze, davanti alle quali l’occhio resterebbe sgomento, grandi fiumi, il tempo, persino.
Anche voi mi pensate, certo, e in questo pensiero vi saluto. E attendiamo insieme il giorno in cui vi rivedrò e avrò infinite cose da raccontarvi e infinite cose da descrivervi…”.
Era solo l’inizio di un viaggio che sarebbe stato lunghissimo…
 

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Alessandro Rivali

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