La tesi di Giovanni Belardelli, illustrata recentemente sul Corriere della Sera, secondo cui il Califfato rappresenta una nuova versione del totalitarismo politico, un novello nazismo che appoggia i suoi disegni imperialisti su un’interpretazione radicale del Corano anzichè sul razzismo, non si limita ad assolvere l’Occidente dalle sue responsabilità socio-economiche, facendo passare in secondo piano l’importanza dell’integrazione degli immigrati in questa guerra globale, ma riflette chiaramente l’ansia che prova una certa cultura laica nel veder rientrare dalla finestra quella variabile religiosa che si era illusa di aver cacciato dalla porta delle nostre società “avanzate”.
La tesi del politologo dell’Università di Perugia è che il terrore come strumento politico e l’individuazione di un nemico oggettivo (che viene colpito non per ciò che fa ma per ciò che è) assimilano il Daesh al “Nuovo Ordine” annunciato da Adolf Hitler nel 1941, che avrebbe dovuto unificare l’Europa (si ricordi che allora l’Europa era percepita come il mondo intero, sotto un profilo politico ed economico) attraverso un’ideologia imposta con la violenza e l’eliminazione dei popoli “subumani”.
Questa interpretazione si sintonizza facilmente con la cultura dominante in Italia, incline a scorgere un disegno antisemita anche laddove l’antisemitismo non è il fattore prevalente, e soprattutto ci assolve da ogni responsabilità socio-economica – «continuare a evocare la mancata integrazione degli islamici europei» come modo per combattere il terrorismo islamico «porta fuori strada» – con l’obiettivo di negare il ruolo storico delle religioni.
Non a caso, il Corriere della Sera contesta la tesi di Avvenire del 28 luglio circa la necessità di affrontare il «nodo esplosivo» tra terrorismo e giovani europei di fede musulmana ma non dice una parola sull’analisi religiosa del fenomeno terroristico apparsa il 3 agosto, dalla quale il quotidiano cattolico desumeva l’inevitabilità del meticciato e l’impossibilità di una guerra di religione nel cuore dell’Europa.
La lettura comparata dei due giornali permette di capire come siano lontane le posizioni della società italiana rispetto al terrorismo islamico.
Infatti, l’intepretazione politologica del Daesh fornita dal Corriere riflette una visione della Storia come susseguirsi di processi innescati e governati dalle élites, facendo leva su meccanismi etologici (amicus-hostis), una dinamica entro la quale anche le ideologie e le religioni sono solo strumenti occasionali e non generano alcuna soggettività delle masse popolari, quella religiosa descritta dal quotidiano cattolico commentando la “svolta di Rouen” (lo “strappo” deciso dagli imam francesi dopo l’assassinio di padre Hamel) ruota intorno al principio opposto – e quindi non ci assolve dall’obbligo dell’integrazione e non pretende di risolvere il problema attraverso l’opzione militare, che è sottintesa all’analisi del Corriere -, cioè assegna alle masse dei fedeli un protagonismo, nel bene e nel male.
Anzi, la tesi del giornale cattolico è che lo specifico del Daesh non consista tanto nell’uso del terrore a fini totalitari, ma in un imperialismo che trasforma la religione in un’ideologia e compie lo stesso errore del sovietismo, cioè perde di vista la soggettività delle masse che sul piano religioso si traduce in una dimensione comunitaria, che in una prospettiva storica è destinata a prevalere.
In estrema sintesi, oltre a richiamare il dovere all’integrazione, il giornale dei vescovi italiani smonta la lettura politologico-militarista e riconsegna la Storia alle comunità fatte di persone e di relazioni tra le persone.
Niente di più indigesto per il laicismo finanziario di casa nostra, che non ha ancora compreso l’insostenibilità della turboglobalizzazione sia per i bilanci che per la civiltà.
Due italie davanti al terrorismo
La cultura laica è divisa su come affrontare il terrorismo fondamentalista. Cresce l’ipotesi dialogo e alleanza con l’islamismo moderato.