«Prima di ogni cosa, è necessario costruire la pace là dove la guerra ha portato distruzione e morte, e impedire che questo cancro si diffonda altrove».
Parlava, Papa Francesco, davanti alla folla di disperati che lui aveva voluto raggiungere sull’isola di Lesbo, crocevia delle migrazioni che da Oriente puntano ad Occidente. Era d’aprile. Il tempo trascorso è passato invano, ed è servito solo per aggiornare le crude, dure statistiche di morte, dei tanti, sempre più che ogni giorno perdono la vita sulle rotte della speranza. Una verità che il mondo tralascia distratto, e poco importa che domani si celebri la giornata internazionale del rifugiato: culla dei diritti umani e dell’istituto del rifugio politico, di fronte alle migrazioni di massa l’Europa ha svelato l’arbitrarietà dei suoi confini interni ed esterni, fossilizzandosi sulla pur giusta necessità di ripartire tra gli Stati il peso dei profughi invece di muoversi sui binari della condivisione della gestione di un fenomeno che impone, con la forza della disperazione che infrange i muri di filo spinato e quelli definiti da leggi e regolamenti, una giusta dose di lungimiranza ed una collaborazione che i governi nazionali sono stati finora incapaci di intessere.
C’è un grande vuoto. Soprattutto lo si vede nelle periferie delle città, tra i periferici ai grandi giochi di un mondo globale: ampi vuoti di cultura, d’identità, di orientamento, di lettura della realtà. Sprofondi di intelletto e di sentimento molto preoccupanti, perché il vuoto non resta tale: qualcosa d’altro lo riempie. È quanto abbiamo visto a Parigi e altrove, dove la religione è stata usata come ideologia giustificativa per gruppi o persone radicalizzati dalla loro vita periferica.
Certo, per sua natura, l’immigrazione è un fenomeno di sfida che pone in discussione i principi su cui si fonda la convivenza, quelli forgiati da una storia condivisa e quelli imposti dalla mitologia nazionalista. È dunque quasi inevitabile che quando essa si presenta con dimensioni tanto portentose che preannunciano un’evoluzione imprevedibile, susciti risposte allarmistiche. Tuttavia, è proprio l’identità più preziosa e profonda del Vecchio Continente, quella che ha generato il principio della dignità di ogni persona e l’idea di una solidarietà istituzionalizzata, che rischierebbe l’imbarbarimento qualora l’istanza di difendersi, o per lo meno soltanto essa, dovesse avere la meglio su quella di tutelare chi ne ha più bisogno.
Chissà, allora, che in queste migrazioni anche le opulente società occidentali non ritrovino un senso alle proprie vite, alla propria declinante civiltà. «Per essere veramente solidali con chi è costretto a fuggire dalla propria terra», diceva ancora il Santo Padre, «bisogna lavorare per rimuovere le cause di questa drammatica realtà: non basta limitarsi a inseguire l’emergenza del momento, ma occorre sviluppare politiche di ampio respiro, non unilaterali». Insomma, perché l’esistenza sia buona e felice è necessario saper tenere assieme realtà diverse e opposte tra di loro e creare alleanze improbabili, imprevedibili e nuove tra persone e dimensioni che tutto vorrebbe tenere separate e lontane. Tutto, tranne il buon senso e l’amore.
(Il testo è stato pubblicato anche sulla Gazzetta del Sud di domenica 19 giugno 2016)
Rifugiati, Lesbos / Wikimedia Commons - Mstyslav Chernov, CC BY-SA 4.0
Sulle rotte dei migranti, via della speranza
Occorre lavorare per rimuovere le cause che portano al fenomeno migratorio e sviluppare politiche di ampio respiro, non unilaterali